Il Giappone del primo periodo Shōwa tra democrazia e autoritarismo

Hirohito

L’imperatore Hirohito Fonte Wikimedia Commons

Il periodo Shōwa (1926-1989), coincidente con il regno dell’imperatore Hirohito, è senza dubbio uno dei periodi più complessi — e quindi interessanti — della recente storia giapponese. Nel corso di questi oltre sei decenni, che diventano quasi sette se prendiamo in considerazione anche i cinque anni di reggenza in coda al periodo Taishō, il paese asiatico oscillò tra periodi di forte crescita e profonde crisi economiche, politiche e sociali, visse l’orrore di una peculiare forma di totalitarismo militarista e gli sconvolgimenti del secondo conflitto mondiale per poi risorgere, letteralmente, dalle proprie ceneri e diventare una delle maggiori economie. Va da sé che un periodo di questo tipo non può essere affrontato in maniera esaustiva in un singolo post, per cui in questa occasione mi limiterò a tracciare un quadro dei primi primi anni, a mio avviso fondamentali per comprendere la deriva totalitaria degli anni Trenta.

Hirohito divenne imperatore alla morte del padre, il 25 dicembre 1926, a soli venticinque anni. Le condizioni di salute sempre più precarie del suo predecessore, avevano però reso necessaria la sua nomina a reggente sin da novembre 1921: nonostante la giovane età, il nuovo sovrano aveva quindi già una solida esperienza di governo. Il suo carattere schivo ed una naturale tendenza all’isolamento lo rendevano incredibilmente adatto ad impersonare un sovrano divino, ma al tempo stesso gli impedivano di comprendere le condizioni di vita dei suoi sudditi. Questo, unito ad una certa ambiguità della carta costituzionale circa il ruolo imperiale nella struttura dello Stato, ebbe importanti conseguenze negli anni a venire.

L’economia giapponese aveva goduto di diversi benefici a partire dallo scoppio della Grande Guerra. L’industria chimica e pesante nipponica aveva approfittato del blocco navale ai danni degli Imperi Centrali per occupare le nicchie di mercato dei competitori tedeschi, mentre il comparto tessile era trainato dalla crescente domanda statunitense. Nel complesso la produzione industriale quintuplicò, mentre le esportazioni triplicarono.

Contestualmente la crescente offerta di posti di lavoro nelle fabbriche e nel terziario — è proprio in questo periodo che nasce la figura del salaryman — accelerò il processo di inurbamento iniziato durante la modernizzazione di epoca Meiji. Se nel 1895 soltanto il 12% dei giapponesi viveva in centri urbani con più di diecimila abitanti, a metà degli anni Trenta la percentuale era salita al 45%.

L’abbandono delle campagne era causato anche dalla stagnazione che faceva arrancare l’intero settore agricolo. Oltre ad una cronica mancanza di investimenti, in quanto i proprietari terrieri preferivano reinvestire le loro rendite nei ben più redditizi titoli finanziari, i fittavoli dovevano fronteggiare canoni di affitto elevatissimi: il sistema fiscale dell’epoca, infatti, penalizzava la proprietà fondiaria con imposte particolarmente salate ed i proprietari si rifacevano così sui contadini. Nonostante ciò per un certo periodo essi poterono beneficiare di un forte rincaro del riso: il prezzo all’ingrosso per koku — il quantitativo di riso necessario a nutrire una persona per un anno, circa centocinquanta chili — triplicò, passando da 14 a 44 yen.

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Yokohama dopo il terremoto. Fonte: Yokohama Central Library via Wikimedia Commons

La fine del conflitto pose fine a questa congiuntura favorevole. A partire dal 1920 si susseguirono una serie di crisi economiche e finanziarie, la più grave delle quali si verificò nel 1927. Il forte indebitamento delle aziende, aggravato dal devastante terremoto del Kantō (1 settembre 1923) che colpì l’area con la più alta concentrazione di attività produttive del paese, aveva lasciato scoperti i libri contabili di numerosi istituti bancari. Per evitare il collasso finanziario il governo autorizzò la Banca del Giappone a farsi carico delle cambiali relative ad attività colpite dal sisma, impegnandosi a risarcire eventuali perdite fino ad un massimo di 100 milioni di yen. Le banche, tuttavia, ne approfittarono per inserire anche altre cambiali: entro la fine dell’anno fiscale le richieste di pagamento raggiunsero la stratosferica cifra di 430 milioni, pari ad un terzo dell’intero bilancio statale. In particolare la sola Banca di Taiwan risultava scoperta per 100 milioni.

Nel marzo del 1927 risultavano ancora insoluti importi per circa 270 milioni. Il governo tentò alcune azioni per concludere definitivamente la faccenda, ma la rivalità tra i partiti trascinò la discussione troppo a lungo, contribuendo a far scoppiare il panico tra i risparmiatori. La corsa agli sportelli causò il fallimento di decine di istituti bancari di piccole e medie dimensioni. Il numero di banche private attive sul territorio nipponico passò da 1417 a 779, con cinque istituti di credito a detenere da soli un quarto dell’intero capitale bancario del paese. Il potere economico finì quindi per concentrarsi nelle mani di un pugno di zaibatsu, i grandi conglomerati a guida familiare la cui attività ramificata toccava settori diversissimi tra loro, che iniziarono ad esercitare una crescente influenza sul potere politico.

Come se ciò non bastasse, sul finire del decennio il prezzo del riso subì un crollo, toccando nel 1930 il valore di 18 yen per koku. I fittavoli si trovarono in crescente difficoltà, ricorrendo in misura sempre maggiore all’indebitamento per far fronte all’affitto delle terre. È stato calcolato che tra 1926 e 1931 l’indice monetario rurale passò da 100 a 33, con un calo più che doppio rispetto ai redditi urbani. Detto in termini più prosaici, gli spettri della miseria e della fame aleggiavano sulle campagne.

La crisi economica ed una generalizzata sfiducia nei confronti della classe politica crearono le condizioni ideali al proliferare dell’estremismo politico. In particolare fu l’esercito, i cui ranghi erano composti soprattutto da uomini provenienti da ambienti rurali, a divenire catalizzatore del malcontento. Nel giugno 1928 si verificò il primo di una lunga serie di “incidenti” che videro coinvolti i militari. Alcuni elementi dell’armata del Kwantung, di stanza a Port Arthur, fecero esplodere il treno su cui viaggiava il signore della guerra cinese Zhang Zuolin. I cospiratori incolparono dell’accaduto dei banditi cinesi, nella speranza di sfruttare l’accaduto come giustificazione per un intervento armato in Manciuria. Il complotto venne smascherato grazie all’intervento di una fazione più moderata, ma i responsabili furono puniti solo il modo simbolico: la mancanza di provvedimenti disciplinari fu gravida di conseguenze negli anni a venire.

Più in generale gli ambienti reazionari nipponici vedevano il paese ed i suoi valori tradizionali minacciati tanto dalla Russia bolscevica quanto dall’asse anglo-americano. Emblematici in questo senso gli scritti di Konoe Funimaro, che invitava i contemporanei a diffidare dei valori democratici e umanitari portati avanti dalle potenze occidentali: questi altro non erano che pretesti per portare avanti tendenze egemoniche e per negare al Giappone il proprio ruolo di potenza asiatica. Si venne quindi a creare una pericolosa saldatura tra gli ambienti nazionalisti e quelli delle organizzazioni panasiatiste più radicali, che da tempo accarezzavano l’idea di una decisa espansione territoriale sul continente. Altrettanto interessanti e forse anche più influenti furono le opere di Kita Ikki. Costui fece propri diversi argomenti del discorso marxista, come la critica al capitalismo, rigettando però il concetto di lotta di classe. Ad essa contrapponeva la necessità di ricompattare la nazione sotto la guida dell’imperatore che, come centro spirituale, avrebbe guidato il Giappone nel compimento della sua missione storica di liberatore dei popoli asiatici oppressi dal giogo dell’imperialismo occidentale.

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Ōsugi Sakae nel 1920. Fonte Wikimedia Commos

A sinistra la situazione era molto più frammentaria. Il movimento anarchico aveva subito un duro colpo dopo il terremoto del Kantō, con l’uccisione da parte della polizia del leader anarco-sindacalista Ōsugi Sakae e della sua compagna Noe Itō. La repressione colpì anche i socialisti, sebbene le correnti moderate furono relativamente tollerate, ed i comunisti. Questi ultimi si erano dotati di una struttura clandestina e operavano seguendo una strategia che ricalcava quella del “fronte unito” adottata dal Partito Comunista Cinese: posto che il Giappone si trovava ancora in condizioni semifeudali, occorreva collaborare con tutte le forze progressiste al fine di lanciare una rivoluzione borghese come primo passo verso la costruzione del socialismo. Anche per questo, in occasione delle prime elezioni a suffragio universale maschile (1925), i comunisti appoggiarono il Rōnōtō, il più radicale tra i partiti proletari. Le autorità reagirono mettendo al bando il Rōnōtō e lanciando una vasta campagna di arresti ai danni della rete comunista, tanto che entro il 1929 quasi tutti i dirigenti finirono in galera.

In risposta ai fermenti dell’estrema destra e dell’estrema sinistra, il Giappone si dotò di un crescente arsenale di strumenti repressivi. Sin dal 1925 era stata approvata una legge, applicata per la prima volta proprio contro i comunisti, che puniva col carcere il promuovere qualsiasi cambiamento nella struttura politica nazionale. Poco dopo un decreto imperiale d’urgenza modificò il testo, introducendo la pena capitale nei casi più gravi. A partire dal 1928 venne rafforzato anche l’apparato investigativo, con l’istituzione in ogni prefettura di una sezione della Polizia superiore speciale (Tokkō), il cui compito era proprio quello di indagare sulle attività sovversive. In contemporanea venne creata la figura dei shisō kenji, i “procuratori del pensiero” specializzati nei reati ideologici. 

Alla repressione si affiancò una capillare struttura di indottrinamento. Nel 1925 era stato approvato un programma di addestramento militare obbligatorio per tutti gli studenti delle scuole medie e superiori, mentre l’anno successivo era stata creata una rete di “centri di addestramento della gioventù” aperti a tutti coloro in possesso della sola licenza elementare: oltre alle nozioni militari ai cittadini venivano impartire lezioni per “elevare” le loro capacità. Analogamente si istituirono federazioni giovanili sia maschili che femminili. Lo scopo, piuttosto evidente, era quello di imporre la propria egemonia culturale e dotarsi di uno strumento efficace per mobilitare la popolazione: questi elementi giocarono un ruolo fondamentale negli anni Trenta e ancora di più nel decennio successivo; la fragile democrazia Taishō aveva ormai i giorni contati, ma di questo parlerò un’altra volta.

 

BIBLIOGRAFIA

K. G. Henshall, Storia del Giappone, Milano, Arnoldo Mondadori, 2016

R. H. P. Mason, J. G. Caiger, A History of Japan, Rutland, Tuttle Publishing, 1997

A. Revelant, Il Giappone moderno dall’Ottocento al 1945, Torino, Einaudi, 2018

L’occupazione russa della Galizia (1914-1915)

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La Galizia, in rosso, all’interno dell’Impero austro-ungarico. Opera di Ludovic Lepeltier-Kutasi – Opera propria, CC BY-SA 4.0. Fonte Wikimedia Commons

Chi segue questo blog sa bene che la Galizia e la sua storia sono un po’ una mia fissazione e che periodicamente torno a parlarne. Ho scritto la bozza di questo articolo l’anno scorso, ben prima dell’invasione russa in Ucraina, con l’intenzione di pubblicarla come post di riserva durante il periodo di superlavoro autunnale. Alla luce di quanto accaduto — e di certe interpretazioni date — ho però deciso di ampliare il testo cercando di approfondire le tematiche del nazionalismo ucraino e del panslavismo russo. Non sono sicuro di esserci riuscito in così poco spazio: se l’argomento vi interessa e se volete ulteriori approfondimenti lasciatemi un feedback nei commenti oppure contattatemi sui social.

Estrema marca di confine della monarchia asburgica, spesso definito in modo dispregiativo Halb-Asien — mezza Asia — dai funzionari viennesi, il Regno di Galizia e Lodomiria comprendeva parti delle attuali Polonia sud-orientale ed Ucraina occidentale. In base a criteri etnolinguistici il suo territorio può essere separato in due parti, con il corso del fiume San a fare da “spartiacque”: una porzione occidentale, abitata da una maggioranza di lingua polacca, ed una orientale, abitata in prevalenza da Ruteni, con l’eccezione dei centri principali, come L’viv o Przemysl in cui era presente una forte aliquota di abitanti di origine ebraica e polacca.

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Tomba di Ivan Franko a L’viv. Foto dell’autore.

La maggior parte dei ruteni era composta da contadini analfabeti — o allevatori come nel caso degli hutsuli e di altri sottogruppi etnici dei Carpazi — che lavoravano le terre possedute dalla szlachta, la piccola nobiltà feudale polacca. Non rappresentati nell’organo di autogoverno galiziano, la Camera dei deputati della Polonia galiziana o Sejm, erano oggetto di vessazioni e sistematica discriminazione. A partire dal XIX secolo, anche grazie al lavoro di autori come Ivan Franko e Taras Ševčenko, parte del popolo ruteno fu oggetto di un processo di risveglio nazionale, reclamando maggiori diritti e tutele a livello linguistico e culturale. Inizialmente restie a concessioni di alcun tipo, le autorità asburgiche permisero l’insegnamento scolastico della lingua ucraina nella porzione orientale della Galizia a partire dal 1890. Una decisione presa non tanto per un impeto di liberalismo, quanto per cercare di contenere l’influsso del movimento panslavista finanziato dal vicino Impero russo, rappresentato dai cosiddetti russofili, che vedevano nella Russia una sorta di potenza tutrice per tutti i popoli slavi. Le prime elezioni a suffragio universale maschile del 1907 sancirono l’ingresso nel Sejm di cinque deputati russofili a fronte di ben venti afferenti all’area del nazionalismo ucraino.

Nonostante il risultato piuttosto netto, le autorità austro-ungariche continuarono a guardare i ruteni con crescente sospetto. Allo scoppio del primo conflitto mondiale la Galizia venne dichiarata zona militare, con il conseguente passaggio di poteri dall’amministrazione civile a quella militare: venne stilata una lista di personalità ritenute di simpatie russofile, che furono arrestate e trasferite in altre regioni dell’impero; molto spesso di trattava di accuse senza alcun fondamento. L’andamento della campagna galiziana, che sin dalle prime settimane si dimostrò catastrofica per le truppe di Vienna, gettò l’intera linea di comando nel panico. Questo ben presto degenerò in autentica paranoia: l’intera popolazione ucraina fu accusata di essere la quinta colonna dell’esercito zarista e non mancarono esecuzioni sommarie di presunte spie o addirittura trasferimenti forzati di interi villaggi.

Il 4 settembre 1914 L’viv fu raggiunta dalle avanguardie russe, mentre una settimana dopo all’esercito austriaco fu ordinato di ritirarsi lungo la linea del fiume San, abbandonando di fatto la Galizia orientale al nemico. Per poter comprendere meglio le politiche di occupazione è il caso di aprire una piccola parentesi per gettare uno sguardo sulla situazione politica nella Russia di Nicola II.

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Nicola II nel 1912. Fonte Wikipedia

Di forti tendenze autocratiche, lo zar era influenzato tanto dal pensiero panslavista di Nikolaj Danilevskij, quanto dalle teorie del movimento Pochvennichestvo. Se il primo credeva nella necessità di riunire il mondo slavo in una confederazione ortodossa con a capo la Russia, il secondo era un movimento conservatore, ferocemente antilluminista e anti occidentale, che si rifaceva al trinomio autocrazia, ortodossia, nazionalismo che si era formalizzato nella prima metà dell’Ottocento. Lo zar portò quindi avanti un programma di russificazione nelle gubernija abitate da nazionalità non russe, come la Polonia o l’Ucraina. Questo clima fu ulteriormente esasperato dal tentativo rivoluzionario del 1905, che portò alla nascita del movimento ultranazionalista delle Centurie Nere e di un diffuso sentimento antisemita, alimentato dalla pubblicazione dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion e dall’idea che dietro ai rivoluzionari si nascondessero gli ebrei.

Non deve quindi stupire se il nuovo governatore militare, il conte Georgij Brobinskij, il 23 settembre annunciò solennemente ai dignitari e ai membri del clero polacco il seguente programma di governo: la regione era da considerarsi parte della Russia poiché abitata da ucraini, cioè da “piccoli russi”, e in quanto tale sarebbe stata amministrata attraverso lingua, leggi e sistemi russi. Gli orologi furono regolati sull’ora di San Pietroburgo, mentre fu adottato il calendario giuliano all’epoca in uso nell’Impero russo. I negozianti furono costretti a riscrivere le proprie insegne utilizzando l’alfabeto cirillico, mentre nelle vie targhe russe andarono a sostituire quelle polacche. Si passò, quindi, alla neutralizzazione dell’intellighenzia ucraina.

Sin dal 4 settembre l’arcivescovo di L’viv Andrej Šeptyc’kyj, a capo della Chiesa greco-cattolica e di fatto simbolo della causa nazionale ucraina era stato arrestato e trasferito in Russia. Seguirono gli arresti e la deportazione di tutte quelle personalità — medici, avvocati, preti ed insegnanti — che in tempo di pace avevano animato la vita culturale della regione e non erano incappate nella repressione asburgica. In contemporanea le autorità russe imposero la chiusura delle biblioteche, dei circoli di lettura, dei giornali e di qualsiasi altra pubblicazione in lingua ucraina.

Il passo successivo riguardò il sistema scolastico. Furono organizzati corsi di russo per gli insegnanti che sarebbero stati impiegati nella nuova rete di scuole statali in fase di costituzione. Questa avrebbe sostituito le scuole di lingua rutena e polacca, ad eccezione di alcune scuole private a L’viv frequentate dall’élite polacca, a patto che il programma scolastico fosse autorizzato e che fossero impartite almeno cinque ore settimanali di russo.

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Andrej Šeptyc’kyj, arcivescovo di L’viv. Fonte Wikipedia

Vi era infine la questione religiosa, particolarmente spinosa in una regione ed in un’epoca in cui la fede era un tratto distintivo della propria identità ancora più forte della lingua. L’appartenenza alla chiesa greco-cattolica era infatti ciò che più distingueva gli ucraini dai polacchi cattolici e dai russi ortodossi: andare a colpirla avrebbe velocizzato e reso più efficace il programma di russificazione. Da parte russa vi erano tuttavia vedute diverse a proposito. Se Brobinskij aveva in mente una azione morbida da attuarsi sul lungo periodo, il clero ortodosso, rappresentato dall’arcivescovo di Volinia e Zhytomyr Evlogij, propendeva per un approccio più duro e risolutivo.

A partire da febbraio 1915 le pressioni di Evlogij su Brobinskij portarono il governatore ad approvare un decreto che permetteva l’invio di un pope ortodosso in tutte quelle comunità in cui il sacerdote greco-cattolico se ne era andato, anche se ciò era richiesto da una minoranza dei fedeli. Iniziò quindi una sistematica campagna di terrore ai danni del clero ucraino, con arresti e uccisioni. Si ricorse anche all’inganno, convincendo i contadini analfabeti che tra le due dottrine non vi erano differenza di sorta dato che i riti erano simili. Ciononostante di millenovecentosei parrocchie galiziane, soltanto un centinaio intraprese la strada della conversione.

Ancora peggio, se possibile, andò alla consistente popolazione ebraica che si ritrovò a dover fronteggiare l’atavico antisemitismo dei cosacchi e delle autorità zariste. Il primo pogrom si verificò già il 14 agosto a Brody, cittadina di confine famosa per aver dato i natali allo scrittore Joseph Roth. Il 27 settembre anche L’viv fu teatro di un altro pogrom, di proporzioni ancora maggiori, ma in linea generale l’avanzata russa fu costellata di eventi di questo tipo: circa quattrocentomila ebrei fuggirono verso le regioni interne dell’Austria-Ungheria per sfuggire alla violenza del nemico.

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Zone di residenza all’inizio nel Novecento. Maggiore la percentuale di popolazione ebraica, più scuro è il colore. Fonte Wikipedia

L’idea dei militari russi, dal comandante in capo dell’esercito granduca Nikolaj sino ai responsabili dei singoli reparti, era quella di ripulire la Galizia sospingendo la popolazione ebraica al seguito del nemico in ritirata. Nella loro ottica ciò avrebbe protetto le truppe da azioni di spionaggio e dal diffondersi di propaganda sovversiva, oltre a facilitare l’assimilazione della regione e della sua popolazione alla nazione russa. Non mancarono, tuttavia, tentativi di deportazione ad est, verso le Zone di residenza situate ai confini dell’Impero. Nonostante l’opposizione delle autorità centrali, che non volevano un incremento della popolazione ebraica, furono circa cinquantamila gli ebrei galiziani deportati in Russia, mentre al momento della liberazione della provincia, tra la primavera e l’estate 1915, un numero analogo era pronto a subire lo stesso destino.

Seppur limitata a circa un semestre, l’occupazione russa della Galizia sembra anticipare l’orrore che solo un quarto di secolo dopo bagnò di sangue le fertili pianure d’Ucraina. Da un lato la feroce persecuzione antisemita appare un tragico assaggio dell’Olocausto, dall’altro la negazione dell’esistenza di un popolo, di una lingua e di una cultura ucraine ricorda da vicino alcune delle giustificazioni addotte da Putin alla recente invasione.

 

BIBLIOGRAFIA

A. Watson, Il Grande Assedio Di Przemysl, Milano, Rizzoli, 2021 [leggi la recensione]

J. R. Schindler, Fall Of The Double Eagle: The Battle For Galicia And The Demise Of Austria-Hungary, Lincoln, Potomac Books, 2015

M. Rauchensteiner, Der Erste Weltkrieg Und Das Ende Der Habsburgermonarchie, Wien-Köln-Weimar, Böhlau Verlag, 2013

C. Mick, Lemberg, Lwów, L’viv 1914-1947: Violence And Ethnicity In A Contested City, West Lafayette, Purdue University Press, 2016

P. Bushkovitch, Breve storia della Russia. Dalle origini a Putin, Torino, Einaudi, 2013

Filippo II e l’ascesa della Macedonia (parte 2)

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Filippo II in un medaglione di epoca romana. Fonte Wikipedia

Come visto nell’ultimo articolo, la pace di Filocrate, così chiamata dal nome del politico ateniese che l’aveva proposta all’assemblea cittadina, oltre a sancire la fine delle ostilità tra Atene e Macedonia, poneva Filippo II in una posizione di forza. Il sovrano macedone, infatti, si ritrovava con un regno ingrandito e rafforzato, era stato nominato arconte a vita della Lega tessala ed aveva occupato i due seggi dei Focesi all’interno dell’Anfizionia delfica, espandendo così la propria sfera d’influenza sino al cuore della Grecia centrale.La concordia, tuttavia, poggiava su presupposti estremamente precari e non sarebbe durata a lungo.

Già a pochi anni di distanza dalla firma del trattato, il partito anti-macedone ateniese, guidato da Demostene, aveva rialzato la testa. Foraggiato dall’oro persiano, l’oratore componeva alcuni dei suoi discorsi più famosi, le cosiddette Filippiche. Nelle sue orazioni il politico ateniese attaccava il partito filo-macedone, accusandolo di non fare gli interessi della città, ed esortava i Greci a non sottomettersi a quello che ai suoi occhi altro non era che un barbaro. Se Artaserse cercava di minare la stabilità dell’Ellade con il proprio oro, dal canto suo nella mente di Filippo iniziava a delinearsi il progetto di una guerra proprio contro la Persia. Questo però non impedì la stipula di un patto di non aggressione tra le due potenze (343 a.C.), che permise ai Persiani di riconquistare l’Egitto.

Quanto c’era di vero nelle affermazioni di Demostene? Filippo II era davvero un barbaro oppure poteva essere considerato greco a tutti gli effetti? Sappiamo che nell’estate del 356 a.C. uno dei cavalli del sovrano macedone vinse la gara equestre in occasione dei giochi olimpici, evento a cui avevano diritto a partecipare solo gli Elleni. Nel tentativo di ottenere ulteriore legittimazione, nel corso degli anni la corte macedone si era trasformata in un centro culturale di primo piano, con la presenza di artisti di grido come Lisippo o del grande filosofo Aristotele, incaricato dell’educazione del principe Alessandro e dei rampolli della nobiltà. Vi era infine la questione delle origini della dinastia macedone: secondo il mito fondativo del regno, infatti, il primo mitico re di Macedonia sarebbe stato tale Carano, figlio del re di Argo, dal quale sarebbe poi disceso Perdicca I, primo sovrano storicamente accertato da Erodoto. Anche dal punto di vista linguistico, l’antica lingua macedone doveva essere per forza un dialetto del greco antico, dato che nessuna fonte menziona problemi di intelligibilità. Dobbiamo quindi concludere che Filippo fosse un Greco fatto e finito, forse giusto un po’ più rozzo della media.

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Il Chersoneso visto dallo spazio. Fonte Wikipedia

Tra il 341 ed il 340 a.C. Filippo condusse una serie di spedizioni militari in Tracia, trasformando di fatto la regione in un protettorato macedone. L’espansione macedone nella zona causò un certo malcontento ad Atene, dove nel frattempo il partito della guerra aveva preso il sopravvento. Pomo della discordia era il Chersoneso tracico, corrispondente all’attuale penisola di Gallipoli nella Turchia europea, considerato di importanza vitale per la città attica. Il controllo della penisola, infatti, permetteva di regolare il traffico navale attraverso lo stretto dei Dardanelli, attraverso il quale passava la rotta che riforniva Atene del grano proveniente dalla Scizia, l’attuale Ucraina.

Nel tentativo di ricondurre gli Ateniesi alla ragione, il re macedone attuò un duplice approccio. Dopo essere partito col proprio esercito alla volta del Chersoneso, inviò una accorata lettera di rimostranze all’assemblea cittadina di Atene. Il tentativo diplomatico si risolse in un completo fallimento, dato che i destinatari della missiva decisero di considerarla come una dichiarazione di guerra. Affidata la reggenza al figlio Alessandro, Filippo pose sotto assedio le città di Perinto e Bisanzio pur senza riuscire ad espugnarle. La guerra, che sembrava essere giunta ad un punto morto, fu improvvisamente sbloccata da un evento apparentemente secondario.

Nel 339 a.C. la piccola città di Anfissa venne accusata di aver occupato a scopo agricolo i terreni sacri del santuario di Delfi. In quanto presidente dell’Anfizionia delfica, il re di Macedonia aveva il diritto di intervenire con il proprio esercito per dirimere la questione e Filippo decise di sfruttare quella che passò alla storia come guerra di Anfissa o quarta guerra sacra per muovere le sue truppe nel cuore della Grecia centrale. Mentre ad Atene si diffondeva il panico, Demostene tentò con scarso successo di costituire una nuova lega difensiva: al suo appello risposero soltanto alcuni stati minori e Tebe, convinta soltanto dall’impegno da parte ateniese di rinunciare al comando e di coprire i due terzi delle spese.

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Schema della battaglia di Cheronea. Fonte Wikipedia

I due eserciti si affrontarono il 2 agosto 338 a.C. nella piana di Cheronea, in Beozia. Sulla carta l’esercito alleato aveva un certo vantaggio numerico — circa 35.000 fanti contro 30.000 — ma i Macedoni avevano dalla loro l’esperienza dei veterani e un addestramento di tipo professionale. Filippo dispose la falange in linea obliqua di fronte alle truppe ateniesi, mentre Alessandro, qui al suo battesimo sul campo, al comando della cavalleria andò ad occupare lo spazio di fronte ai Tebani. Gli Ateniesi, coraggiosi ma poco disciplinati, caricarono la fanteria macedone andando a scontrarsi contro il muro delle sarisse. I falangiti inscenarono quindi un finto arretramento, allo scopo di spingere gli avversari ad allungare il proprio schieramento, nella speranza di aprire un varco attraverso cui lanciare la cavalleria. Dopo un lasso di tempo apparentemente interminabile, Alessandro vide una apertura e si lanciò al galoppo in testa ad una formazione a cuneo. Il centro alleato, ormai troppo sottile, venne travolto, lasciando il Battaglione sacro ed il fianco dell’esercito beota alla mercé dei cavalieri. Ad una manciata di chilometri di distanza, la falange invertì il senso di marcia sottoponendo gli opliti ateniesi ad una pressione crescente, fino a causarne la rotta. La battaglia si concluse con una vittoria totale dell’esercito macedone, mentre Tebe aveva perso le sue truppe scelte e ad Atene si spense definitivamente ogni bellicosità residua.

Nonostante la vittoria totale sul campo, Filippo impose agli sconfitti delle condizioni relativamente miti. Tebe perse ogni influenza residua sulla Beozia, mentre Atene dovette rinunciare alla propria influenza sul Chersoneso e fu costretta a sciogliere la propria lega navale, mantenendo il controllo soltanto su Delo e poche altre isole. Con una breve spedizione nel Peloponneso, il re macedone ricondusse alla ragione anche Sparta, unica polis che ancora gli si opponeva, riducendone il territorio all’estensione che aveva nel VI secolo.

Forte della propria egemonia sull’Ellade, nei primi mesi del 337 a.C. Filippo convocò a Corinto un congresso a cui parteciparono tutti gli stati greci con l’eccezione di Sparta. Qui si decise di costituire una lega panellenica, detta appunto lega di Corinto, con lo scopo dichiarato di muovere guerra alla Persia, che dopo la morte di Artaserse III Oco era in preda ad una profonda crisi dinastica. Il re macedone venne nominato suo hegemon, capo supremo, e strategos autokrator, comandante in capo, del futuro esercito panellenico. La grande spedizione fu pianificata per la primavera del 335, ma nel frattempo il sovrano decise di inviare una avanguardia in Anatolia al comando del suo migliore generale, Parmenione.

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La penisola greca nel 336 a.C. Opera di Diablos86, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons

Filippo era al momento l’uomo più potente dell’intero mondo greco e la sua ascesa sembrava inarrestabile, eppure da un momento all’altro tutto iniziò ad andare a rotoli. Il giro di boa fu il suo matrimonio con una nobile di nome Cleopatra, nipote di uno dei suoi uomini di fiducia, Attalo. Il re si era sposato numerose volte nel corso degli anni, lasciando però ad Olimpiade il titolo di prima moglie. Cleopatra, invece, fu invitata a trasferirsi nel palazzo, cosa mai accaduta in precedenza. Le fonti antiche, poi, ci raccontano di come la situazione sia degenerata durante il banchetto nuziale. In preda ai fumi dell’alcool pare che Attalo abbia apostrofato Alessandro dandogli del bastardo. Alla reazione rabbiosa del figlio, Filippo reagì brandendo la spada e collassando poco dopo a causa del gran bere. Il principe, quindi, prese con sé la madre e, dopo averla condotta in Epiro, si ritirò in Peonia con alcuni compagni.

Questo è quanto ci viene raccontato dalle fonti antiche che, come ben sappiamo, vanno prese con le pinze. Plutarco infatti racconta che Filippo fosse follemente innamorato di Cleopatra, ma più realisticamente il nuovo matrimonio andrebbe considerato come una sorta di assicurazione. La spedizione in Persia metteva in pericolo sia la vita del re, sia quella di Alessandro, all’epoca ancora celibe e senza figli: per garantire una continuità dinastica occorreva quindi un secondo ereda da inserire in linea di successione.

Appare inoltre molto improbabile che Attalo potesse rivolgersi in modo così offensivo al figlio del re senza andare incontro a gravi conseguenze. È quindi plausibile che i rapporti tra padre e figlio si fossero raffreddati dopo la battaglia di Cheronea, in quanto ad Alessandro era andato il maggior credito per la vittoria, nonostante il piano vincente fosse stato ideato da Filippo. Indipendentemente dalle cause, la famiglia regnante si trovò alle prese con una frattura talmente profonda da sembrare insanabile.

L’occasione per riconciliarsi fu offerta da un nuovo matrimonio. Questa volta a convolare a giuste nozze furono la sorella di Alessandro, Cleopatra, ed il fratello di Olimpiade, Alessandro d’Epiro. Filippo aveva previsto una cerimonia sontuosa, con invitati provenienti da tutto il mondo greco, da tenersi ad Ege, l’antica capitale macedone, nell’ottobre del 336. Il re tuttavia non poteva sapere che su quel lussuoso palcoscenico sarebbe andata in scena la sua morte: al suo ingresso nel teatro cittadino venne infatti colpito a morte da un paggio, Pausania. Le solite fonti classiche ci dicono che il giovane era stato violentato da Attalo e dai suoi uomini e che si fosse rivolto a Filippo in cerca di giustizia, ottenendo in cambio soltanto un maldestro tentativo di comprare il suo silenzio.

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Corona d’oro e larnax (urna funeraria) rinvenuti nella tomba di Filippo. Foto di DocWoKav, CC BY-SA 4.0

Pausania agì da solo, per punire il re che era rimasto sordo davanti alle sue richieste, oppure fu una pedina mossa da qualche eminenza grigia? La gioia di Olimpiade per la morte del marito ed il fatto che l’omicida sia stato ucciso da amici di Alessandro mentre fuggiva, getta un’ombra sui due. Ciò non significa però che furono i mandanti dell’omicidio. È possibile che madre e figlio abbiano avuto sentore di una congiura e che abbiano deciso di non intervenire. Vi è infatti la concreta possibilità che dietro l’omicidio ci fosse il nuovo Re dei Re, Dario III, che aveva tutto l’interesse ad eliminare l’uomo che aveva riunito l’Ellade allo scopo di muovere guerra alla Persia. Quale che sia la verità, non la sapremo mai.

Filippo fu seppellito nella stessa Ege, l’attuale Verghina, e lì riposò fino al XX secolo, quando la sua tomba fu scoperta dagli archeologi. Fu senza alcun dubbio un grande uomo, capace di trasformare una regione povera e periferica in una potenza in grado di dominare la Grecia e di proiettarsi in Asia, sapendo usare al momento giusto la diplomazia, la corruzione ed infine lo strumento militare più raffinato dell’epoca, la falange. Chiusa la sua parabola iniziò quella straordinaria di Alessandro, ma questa è un’altra storia.

BIBLIOGRAFIA

A. Everitt, Alessandro Magno. La vita, le avventure e l’enigma della sua morte, Milano, HOEPLI, 2021

M. Bettalli, A. L. D’Agata, A. Magnetto, Storia Greca, Roma, Carocci editore, 2013

D. Lotze, Storia Greca, Bologna, Il Mulino, 1998

Filippo II e l’ascesa della Macedonia (parte 1)

Filippo II

Ritratto di Filippo II di età ellenistica. Fonte Wikipedia

Filippo II è, senza ombra di dubbio, il sovrano macedone più famoso ed influente dopo suo figlio, Alessandro Magno. A partire dalla sua incoronazione, nel giro di pochi anni riuscì a trasformare il suo regno in una potenza militare di primo piano, anche grazie ad una azzeccata riforma dell’esercito, capace di estendere la propria influenza su tutta la penisola greca e su parte dei Balcani meridionali. Così facendo egli costruì le solida fondamenta che permisero al figlio di lanciarsi nella più ambiziosa delle imprese, la conquista dell’impero persiano.

Situata ai margini settentrionali del mondo greco, oltre il massiccio del monte Olimpo, la Macedonia era un paese difficile. Priva di risorse, ad eccezione del legname, circondata da tribù bellicose pronte ad approfittare di ogni minimo segno di debolezza e con un territorio montuoso che rendeva difficoltosi i commerci e lo sviluppo economico, nulla lasciava presagire una futura grandezza, anzi. Per gli stessi Elleni i Macedoni altro non erano che dei semi-barbari, un popolo di montanari — makednòs in greco significa “alto” e quindi per esteso “colui che vive in luoghi alti — dedito alla pastorizia e con ben pochi tratti in comune coi cittadini delle póleis.

A complicare ulteriormente le cose, nella corte macedone gli intrighi e i complotti erano all’ordine del giorno. Gli stessi sovrani erano tali non tanto per principio dinastico, quanto per acclamazione da parte dell’esercito riunito in assemblea. L’instabilità politica si traduceva in prolungate crisi dinastiche, in cui diversi pretendenti al trono si affrontavano per conquistare il potere, con il solo risultato di indebolire un regno già di per sé non particolarmente florido.

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Espansione del Regno di Macedonia sotto Filippo II. Opera di MaryroseB54, CC BY-SA 4.0 , via Wikimedia Commons

Filippo II venne nominato reggente per conto del nipote in un momento di particolare difficoltà. Nel 359 a.C. il suo predecessore Perdicca III era caduto in battaglia, insieme ad altri quattromila uomini, contro gli Illiri, lasciando un figlio — Aminta IV — troppo giovane per governare ed un regno circondato da nemici: le tribù della Peonia si erano ribellate, gli Illiri si preparavano ad una invasione in piena regola, mentre sia i Traci che gli Ateniesi stavano supportando altrettanti pretendenti al trono. Filippo riuscì a cavarsela sfruttando ingegno e diplomazia: pagò i Peoni affinché cessassero le scorribande ed i saccheggi, sposò la figlia del re degli Illiri e riuscì a raggirare la Tracia e Atene facendo in modo che abbandonassero i loro pretendenti al proprio destino. Messi in sicurezza i confini, si dedicò al fronte interno. Forte dei propri successi si fece acclamare re dall’assemblea dell’esercito, usurpando di fatto il trono che almeno in linea di principio spettava al nipote, e mise a morte tre fratellastri — i sovrani macedoni erano poligami — onde evitare possibili congiure, lasciando tuttavia in vita il giovane Aminta, che venne allevato a corte.

In breve tempo il nuovo monarca macedone diede il via ad una rivoluzione militare epocale che gli permise di sottomettere nuovamente la Peonia e di sconfiggere definitivamente l’Illiria. In gioventù Filippo era stato inviato come ostaggio a Tebe, proprio nel momento in cui la polis della Beozia esercitava la propria egemonia sull’Ellade grazie al genio di Epaminonda. Qui aveva potuto osservare da vicino le innovazioni adottate dall’esercito tebano e dalle altre città-stato elleniche e una volta interiorizzate le elaborò ulteriormente.

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Falange macedone in assetto da battaglia

Fino a quel momento l’esercito macedone era composto da una cavalleria piuttosto forte reclutata tra l’aristocrazia, i cosiddetti Compagni, ed una fanteria poco addestrata e ancor meno motivata composta da contadini. L’azione di Filippo trasformò questa massa di coscritti senza arte né parte in una macchina da guerra pressoché invincibile. La lancia venne sostituita dalla più lunga sarissa, che con i suoi oltre cinque metri di lunghezza rendeva necessario l’uso di entrambe le mani per poter essere impiegata. Di conseguenza il pesante ed ingombrante òplon, lo scudo oplitico, venne sostituito da una rotella di circa sessanta centimetri di diametro appesa al collo tramite una cinghia di cuoio che, offrendo protezione ad addome e torace, rese inutili le pesanti e costose corazze. I falangiti, o pezeteri, erano quindi disposti su sedici ranghi: se le sarisse delle prime cinque file si protendevano in avanti, verso il nemico, quelle delle restanti erano tenute sollevate in obliquo e in verticale, in modo da rendere meno efficace il tiro degli arcieri. Sottoposta ad addestramenti intensivi, la nuova falange macedone era quindi una sorta di istrice in grado di assorbire l’impatto di qualsiasi assalto frontale, ma a causa della sua scarsa mobilità risultava estremamente vulnerabile agli attacchi sui fianchi e agli aggiramenti. A protezione dei pezeteri venne istituito il corpo degli ipaspisti, i portatori di scudo: equipaggiati in modo più simile all’oplite classico, sul campo di battaglia venivano schierati ai fianchi della falange. Molta attenzione venne riservata anche alle truppe leggere, in particolare ai peltasti e ai lanciatori di giavellotto Agriani: estremamente mobili, questi soldati potevano essere inviati rapidamente dove erano più necessari, oppure potevano essere mescolati ai reparti di cavalleria in movimento per offrire loro maggiore protezione.

Nel 358 o nel 357 a.C. il sovrano macedone sposò la giovane Polissena, principessa dei Molossi, che all’epoca governavano il vicino Epiro. Passata alla storia con il nome di Olimpiade, nella notte tra 20 e 21 luglio 356 a.C. diede alla luce il primo erede legittimo di Filippo: Alessandro, che noi conosciamo con l’appellativo di Magno.

A partire da questo momento le vicende macedoni iniziarono a legarsi in modo sempre più stretto a quelle del resto della Grecia. Anfipoli, situata sulla costa tracica poco oltre la penisola Calcidica, era da lungo tempo oggetto delle mire di Atene: il possesso della città, infatti, garantiva il controllo delle vicine miniere d’oro e d’argento del Pangeo. Gli ateniesi proposero quindi uno scambio a Filippo: se questi fosse riuscito ad espugnarla per conto loro, questi avrebbero restituito la città di Pidna al regno di Macedonia. Il monarca accettò e nel 357 a.C. conquistò l’insediamento. Ben contento di essere entrato in possesso di una cospicua fonte di entrate venne meno ai patti, scatenando le ire della polis attica. Nel breve conflitto che ne scaturì, il macedone strinse alleanza con la vicina Lega calcidica e riuscì ad entrare a Pidna a seguito di un colpo di stato ordito dalla fazione filomacedone.

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Il teatro di Delfi. Foto di Fingalo, CC BY-SA 2.0 DE , via Wikimedia Commons

Il conflitto con Atene si spostò così nella Grecia centrale, dove nel 356 a.C. era scoppiata la terza guerra sacra, combattuta per il controllo dell’Anfizionia delfica. Questa era una sorta di confederazione tra póleis e altre entità, come la Tessaglia, che si occupava di gestire il più famoso tra gli oracoli del mondo greco: Delfi. I Focesi, appoggiati dagli Ateniesi, avevano occupato il luogo sacro e ne avevano depredato il tesoro, con il quale arruolarono un enorme esercito mercenario con cui occuparono ampie porzioni della Beozia e della Tessaglia meridionale. Furono proprio i Tessali a chiamare in proprio soccorso Filippo II che, dopo alterne vicende, riuscì ad infliggere ai Focesi una devastante sconfitta nella battaglia dei campi di croco (353 o 352 a.C.).  A seguito di questa vittoria il re macedone venne nominato arconte a vita della lega tessala, portando così i territori controllati più o meno direttamente dal regno di Macedonia a ridosso delle Termopili.

Nel frattempo un nuovo fronte di lotta si era aperto a Nord. La Lega calcidica, in particolare Olinto, aveva deciso di cambiare casacca passando allo schieramento ateniese e supportando un altro pretendente al trono. La risposta di Filippo fu immediata e spietata: nel 348 a.C. la città venne assediata, conquistata e rasa al suolo, mentre il suo territorio fu annesso al regno. Atene, con grave danno alla propria immagine, non potè fare niente per ostacolare il re.

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Ricostruzione del volto di Filippo II. Museo delle Tombe Reali di Verghina

Filippo II aveva dimostrato a tutta la Grecia la propria abilità di condottiero. Come comandante militare guidava le sue truppe in prima linea, condividendo con esse i disagi e soprattutto i pericoli. In occasione della conquista di Metone (355 o 354 a.C.), ad esempio, venne ferito da una freccia ad un occhio, restando sfigurato per tutto il resto della sua vita. Dalle armi la parola passò alla diplomazia e anche qui il monarca si dimostrò piuttosto abile, anche grazie a qualche talento d’oro fatto scivolare nelle tasche delle persone giuste. La pace di Filocrate (346 a.C.) sancì la fine della terza guerra sacra, con l’espulsione dei Focesi dall’Anfizionia e l’ingresso dei Macedoni in loro vece, e delle ostilità con Atene.

[continua]

BIBLIOGRAFIA

A. Everitt, Alessandro Magno. La vita, le avventure e l’enigma della sua morte, Milano, HOEPLI, 2021

M. Bettalli, A. L. D’Agata, A. Magnetto, Storia Greca, Roma, Carocci editore, 2013

G. Brizzi, Il Guerriero, L’Oplita, Il Legionario. Gli eserciti nel mondo classico, Bologna, Il Mulino, 2008

D. Lotze, Storia Greca, Bologna, Il Mulino, 1998

Ivan III di Russia e come Mosca divenne la Terza Roma

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Retro del sigillo di Ivan III con l’aquila bicipite. Fonte Wikicommons

Questo post ha avuto una genesi particolare, ve lo dico fin da subito. L’idea di base si è materializzata tra le mie sinapsi durante la live di presentazione del nuovo EP dei Voland su Aristocrazia, precisamente durante l’ascolto del secondo brano Terza Roma. Tra i tanti epiteti di cui si fregia la città di Mosca, quello di Terza Roma è indubbiamente uno dei più altisonanti, oltre che il più interessante da raccontare: la sua comparsa, infatti, ha accompagnato alcuni degli eventi più gravidi di conseguenze per la storia russa e per quella europea. 

La nostra storia si svolge durante il XV secolo, periodo in cui il Granducato di Mosca aveva raggiunto una posizione di egemonia nei confronti degli altri principati russi. Ciò era stato possibile tanto per l’abilità politica dei sovrani moscoviti, quanto per il progressivo indebolimento del Khanato dell’Orda d’Oro — uno stato nato dalla frammentazione dell’Impero mongolo nel corso del XIII secolo, di cui Mosca era formalmente vassalla  — che già nel 1380 aveva subito una disastrosa sconfitta nella battaglia di Kulikovo ad opera di Dmitrij Ivanovič. È con l’ascesa al trono di suo nipote Vasilij II nel 1425 che la nostra narrazione ha inizio.

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Vasilij II. Fonte Wikicommons

L’inizio del suo regno non fu per niente facile. Succeduto a soli dieci anni a suo padre Vasilij I, si trovò costretto a fronteggiare l’aperta ribellione di suo zio e dei due figli di questo che ne contestavano il diritto a regnare. Il lungo periodo di torbidi che ne seguì, passato alla storia con il nome di grande guerra feudale, anziché indebolire lo stato, contribuì invece a rafforzarlo accentrando il potere nelle mani del sovrano moscovita. L’appoggio compatto dei boiardi e dei proprietari terrieri fu determinante per la vittoria del legittimo regnante e nonostante le alterne fortune — nel 1445 fu catturato, accecato ed esiliato fuori Mosca — nel 1450 Vasilij aveva ormai il pieno controllo del Granducato. Il suo primo atto fu quello di esiliare tutti i sostenitori dei suoi nemici, confiscando le loro terre ed infine sopprimendo tutte le signorie che fino a quel momento erano state di fatto semi-indipendenti: l’unico potere possibile a Mosca doveva essere quello del suo sovrano. Per tutta la durata del conflitto l’Orda d’Oro, uscita profondamente scossa dallo scontro con Tamerlano, si limitò ad alcuni sporadici interventi che ebbero un impatto relativamente marginale sul corso degli eventi: di lì a qualche anno si sarebbe disgregata in una serie di khanati indipendenti, cessando di esistere.

Ancora più importanti, se possibile, furono gli eventi sul piano religioso. Sin dal 1325 Mosca ospitava la sede del metropolita, ossia del capo spirituale della chiesa ortodossa russa, dipendente dal patriarcato ecumenico di Costantinopoli. Col tempo il clero russo iniziò a provare una certa insofferenza nei confronti dei metropoliti di origine balcanica inviati da una città che era sì la Seconda Roma, ma era anche lontanissima e sempre più debole. Il desiderio di autocefalia, ossia il riconoscimento della propria indipendenza formale, andava infatti di pari passo con il progressivo disfacimento di quello che fu il possente Impero bizantino, ormai ridotto alla sola Costantinopoli e ad una manciata di possedimenti in Grecia e nell’Egeo.

Di fronte alla minaccia rappresentata dagli Ottomani, che già nel corso del secolo precedente erano passati sulla sponda europea dello stretto dei Dardanelli, l’imperatore Costantino XI Paleologo tentò una mossa tanto azzardata quanto disperata. Nella speranza di ottenere l’aiuto occidentale per contenere la marea ottomana, costui si disse pronto a prendere in considerazione una nuova unione tra la Chiesa di Roma e quella ortodossa. Nel 1439, nel contesto del concilio di Firenze, su pressione imperiale i vescovi greci accettarono le imposizioni cattoliche sia riguardo alla supremazia papale, sia su questioni dottrinali che minavano alla base le fondamenta teologiche dell’ortodossia. Come si può facilmente intuire la capitolazione di Firenze causò un acceso malcontento in Grecia, soprattutto in seno alle comunità monastiche, mentre a Mosca le cose andarono oltre. In un sinodo del 1443 i vescovi russi non solo rifiutarono di sottomettersi a Roma, ma deposero il metropolita e ne elessero uno nuovo, Iona vescovo di Rjazan’, e lo posero sotto la protezione di Vasilij II. Avendo nominato autonomamente il proprio vertice senza consultarsi con Costantinopoli, che riconobbe lo stato di fatto soltanto nel 1589, la chiesa russa aveva ottenuto l’autocefalia.

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Ivan III di Russia. Fonte Wikicommons

Vasilij II morì nel 1462 e a succedergli fu il figlio Ivan III, già da tempo associato al potere come co-reggente. Egli proseguì la politica paterna di unificazione nazionale, dimostrando buone capacità militari unite ad un certo grado di cautela: muovendosi per passi graduali attaccò i vicini soltanto in presenza di circostanze particolarmente favorevoli. A farne le spese furono dapprima Novgorod, sottomessa definitivamente nel 1478, e successivamente Tver’, capitolata nel 1485. L’influenza moscovita iniziò ad affermarsi anche su Rjazan’ e Pskov, che pur restando indipendenti divennero via via sempre meno autonomi fino ad essere annessi nel corso del secolo successivo. Inoltre nel 1480, sulle rive del fiume Ugra, la ritirata delle truppe tatare di fronte all’esercito moscovita sancì la fine di oltre due secoli di sudditanza, aprendo la strada alla futura espansione verso est che per il momento si concretizzò con le pesanti ingerenze di Ivan negli affari interni del khanato di Kazan’, scosso da una serie di lotte dinastiche.

L’unione dei due centri principali della Russia medievale — Novgorod e Mosca — ebbe conseguenze epocali. Non solo il termine Rossija subentrò al più antico Rus’ nei testi scritti, ma lo stesso Ivan iniziò ad essere chiamato con l’appellativo di Gosudar, ossia sovrano, al posto del consueto Gospodin, o signore: il Signore di Mosca divenne così Gran Principe di tutte le Russie. 

Occorre a questo punto fare una piccola digressione sia spaziale che temporale. Torniamo per un secondo a Costantinopoli, che nel 1453 era assediata dall’esercito ottomano al comando del sultano Maometto II. Nonostante il disperato tentativo di Costantino, dal resto d’Europa non giunse alcun aiuto, se non uno sparuto contingente genovese. Troppo poco per impedire l’inevitabile: il 29 maggio 1453 i giannizzeri espugnarono le mura teodosiane e nel bagno di sangue che ne seguì trovò la morte lo stesso imperatore. Il titolo imperiale o, meglio, la pretesa al trono passò così nelle mani di suo fratello Tommaso e ai suoi discendenti.

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Ricostruzione facciale forense di Zoe Paleologa. Fonte Wikicommons

Torniamo di nuovo a Mosca. Legato in prime nozze a Maria di Tver’ che gli diede un figlio, Ivan si risposò nel 1473 con Zoe (o Sof’ja) Paleologa, una delle figlie di Tommaso che nel frattempo era morto in esilio a Roma. La nuova consorte portò in Russia l’opulenta e meticolosa etichetta delle cerimonie di corte bizantine, oltre alle sue insegne regali, prima fra tutte l’aquila bicipite che è ancora oggi simbolo del paese. Con lei fece la sua comparsa anche una concezione autocratica del potere: se fino a quel momento le grandi famiglie nobiliari ed i boiardi avevano goduto di una certa autonomia e di una grande influenza esercitata attraverso la duma, il consiglio del gran principe, Ivan iniziò ad eroderne sistematicamente i privilegi, tentando di ridurli a meri esecutori della volontà del sovrano.

Caduta Costantinopoli e venuta meno la dipendenza dal suo patriarcato ecumenico, Ivan si convinse, anche in virtù del suo legame con Zoe, che Mosca dovesse ereditare il ruolo di Bisanzio, divenendo così la Terza Roma. Tale idea fu ulteriormente rafforzata dalla ritirata mongola sul fiume Ugra, che da più parti venne salutata come un segno divino: unica terra ortodossa libera dal giogo degli infedeli, circondata da cattolici — polacchi e svedesi — da un lato e da musulmani — tatari — dall’altro, la Russia era stata scelta da Dio per ergersi a bastione in difesa dell’unica vera fede, quella ortodossa.

Per rendere Mosca degna del ruolo assegnatole da Dio e dalla Storia, Ivan varò un importante progetto edilizio, che portò alla realizzazione del suo monumento più famoso, universalmente riconosciuto come simbolo del potere russo: il Cremlino. A onor del vero la città aveva già una sua fortezza, ma il sovrano decise di ampliarla, edificando al suo interno nuove cattedrali ed un palazzo residenziale. I lavori furono affidati ad architetti ed ingegneri italiani che utilizzarono come modello per il progetto il Castello Sforzesco di Milano. Nonostante i pesanti interventi che nel corso dei secoli successivi ne hanno cancellato il carattere rinascimentale, l’impianto della struttura è rimasto bene o male inalterato.

Ivan III morì nel 1505, dopo un regno durato più di quattro decenni, il più lungo dell’intera storia russa. Nel corso dei secoli successivi i suoi successori stringeranno un legame ancora più stretto con la chiesa russa, che dal 1589 avrà a Mosca un proprio patriarca e non più soltanto un metropolita, e faranno proprie le ambizioni imperiali bizantine con tutte le conseguenze del caso. Ne riparleremo in futuro.

 

BIBLIOGRAFIA

P. Bushkovitch, Breve storia della Russia. Dalle origini a Putin, Torino, Einaudi, 2013

G. Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Torino, Einaudi, 2014

 

Anatomia di un falso storico: i Protocolli dei Savi di Sion

I Protocolli Dei Savi Di Sion, edizione del 1912. Fonte Wikicommons

Quello delle bufale, o fake news come vengono più comunemente chiamate, è un argomento di incredibile attualità. Non bisogna però pensare che si tratti di un fenomeno nuovo, legato all’avvento di internet e dei social network, come spesso si vorrebbe far credere. I Protocolli dei Savi di Sion rappresentano probabilmente il caso più famoso di falso storico, fondamento ideologico della teoria del complotto ebraico, la cui enorme fortuna continua ancora oggi: basti pensare che soltanto nel 2019 il senatore pentastellato Elio Lannutti li citò sul suo profilo Twitter, scatenando un mare di polemiche. Con questo post ripercorreremo le varie tappe della genesi dei Protocolli a partire dalla seconda metà del XIX secolo, la loro diffusione e soprattutto vedremo su quali basi si è stabilito che siano falsi oltre ogni ragionevole dubbio.

La nostra storia inizia in Francia, nel 1864, quando Maurice Joly pubblica un pamphlet dal titolo Dialogue aux enfers entre Machiavel et Montesquie (Dialogo agli inferi tra Machiavelli e Montesquie). L’opera satirica, a sua volta ispirata in parte al romanzo Les Mystères du peuple (I misteri del popolo) di Eugène Sue, in cui compare una cospirazione ordita dai gesuiti, è una critica indiretta alle ambizioni politiche di Napoleone III e costa ben quindici mesi di galera al suo autore. Lo scritto di Joly viene ripreso nel 1868 dal tedesco Hermann Goedsche che, con lo pseudonimo di Sir John Retcliffe, manda in stampa un romanzo intitolato Biarritz. Ferocemente antisemita, Goedsche pensa di aggiungere del pepe alla trama riprendendo l’idea della cospirazione di Sue, sostituendo però gli ebrei ai gesuiti. Nel capitolo intitolato Il cimitero ebraico di Praga e il Consiglio dei rappresentanti delle Dodici Tribù di Israele viene descritta con dovizia di particolari un’assemblea di rabbini che si raduna ogni cento anni con fini cospirativi, utilizzando ampi stralci del Dialogo di Joly.

Frontespizio dell’edizione originale del Libro del Kahal. Fonte Wikicommons

A questo punto ci spostiamo in Russia per incontrare Jacob Aleksandrovič Brafman. Nato in Bielorussia da una famiglia ebraica, in età adulta si converte al cristianesimo ortodosso e come missionario tenta di convertire la comunità ebraica di Minsk alla sua nuova fede. Nel 1869 pubblica la sua opera più famosa, il Libro del Kahal, che getta le basi della teoria del complotto ebraico per il controllo del mondo. Attraverso gli atti del kahal (l’organo di autogoverno delle comunità ebraiche dell’Europa orientale) di Minsk, raccolti a partire dal 1794, l’autore cerca di dimostrare l’esistenza di un governo talmudico occulto, rappresentato proprio dal kahal, pronto a dominare la Russia. Il libro, edito da una casa editrice dell’amministrazione pubblica zarista, diventa ben presto lo specchio delle posizioni governative circa la questione ebraica. Nonostante il lavoro critico del giurista Mikhail Morgulis che, con il suo Il Kahal e le istituzioni di Magdeburgo, distrugge le tesi di Brafman dimostrandone l’infondatezza, quello della cospirazione ebraica contro la cristianità diventa un topos letterario di successo in Russia. Un buon esempio è rappresentato dalla trilogia Žid idet (L’ebreo sta avanzando) di Vsevolod Vladimirovič Krestovskij, dove compaiono a più riprese sia il cimitero ebraico che il dialogo tra rabbini.

Prima di proseguire occorre però fermarsi un momento e analizzare la situazione russa per poter meglio comprendere gli sviluppi successivi della nostra storia. Gli ebrei russi sono concentrati nelle zone occidentali del paese, nella cosiddetta Zona di residenza, nei territori delle attuali Polonia, Lituania e Bielorussia dove in alcune aree costituiscono la maggioranza della popolazione: a Minsk, ad esempio, è di origine ebraica il 52% degli abitanti, mentre a Bialystok ben il 64%. A partire dalla seconda metà del XIX secolo due fenomeni modificano radicalmente la situazione. All’interno della comunità ebraica emerge una nuova linea di pensiero che, in rottura con la tradizione chassidica, propugna una sintesi tra modernità e valori ebraici. Un numero crescente di ebrei inizia a frequentare gli istituti superiori e le università, andando a formare una classe borghese e liberale che mal sopporta l’autocrazia dello zar. Infine la prima flebile ondata di industrializzazione che investe la Russia negli anni Ottanta del secolo, porta alla nascita di un proletariato urbano che nella Zona di residenza è composto in massima parte da ebrei. Dai primi embrionali movimenti operai nasce il Bund, partito che dall’iniziale socialdemocrazia si sposta col tempo su posizioni sempre più radicali. Non deve quindi sorprendere se, dopo l’uccisione di Alessandro II nel 1881, la comparsa di un libello anonimo modellato su Il cimitero ebraico di Praga diventa per la polizia segreta zarista, l’Ochrana, una ghiotta occasione per gettare discredito tanto sui riformatori liberali quanto sui radicali di sinistra e sui rivoluzionari.

La prima vera e propria versione dei Protocolli esce in nove puntate nel 1903 sulle pagine di Znamja (La Bandiera), giornale diretto dall’ultranazionalista e antisemita Pavel Krushevan, già istigatore del pogrom di Kisinev. Rispetto alle versioni successive, quella di Krushevan appare piuttosto stringata, come se fosse una sorta di sintesi, e presenta alcune differenze sostanziali: gran parte delle citazioni ai Dialoghi di Joly risultano mancanti, così come non è nominata la massoneria; abbondano, invece, i riferimenti al Vecchio Testamento, del tutto assenti nelle altre edizioni.

Sergei Nilus, l’autore della versione definitiva dei Protocolli. Fonte Wikicommons

La versione per così dire “canonica”, tradotta in diverse lingue e diffusa in tutto il mondo, dei Protocolli compare per nel 1905, quando il mistico Sergei Nilus li inserisce come appendice alla terza edizione del suo Il grande nel piccolo: la venuta dell’Anticristo e il Regno di Satana sulla Terra. L’autore li spaccia come atti del primo Congresso Sionista tenutosi otto anni prima a Basilea, salvo poi correggere il tiro descrivendoli come il frutto di vari incontri tra “Savi Anziani” svoltisi tra 1902 e 1903. Lo stesso Nilus asserisce, tuttavia, di essere entrato in possesso dei documenti nel 1901. Nonostante le palesi incongruenze il libro ha fin da subito una enorme diffusione, tanto da finire nelle mani dello stesso Nicola II che ne rimane positivamente colpito. Una indagine segreta ordinata dal primo ministro Stolypin, però, stabilisce che il canovaccio dei Protocolli, che è alla base di entrambe le versioni citate, è frutto del lavoro di agenti dell’Ochrana a Parigi, in particolare di Matvej Golivinskij che è conoscente di Charles Joy, il figlio dell’autore del Dialogo. De Michelis non concorda con l’attribuzione della paternità dell’opera, ma è comunque d’accordo nell’affermare che la prima bozza dei Protocolli sia stata scritta in Francia più o meno nel 1897.

Manifesto di propaganda delle Armate Bianche raffigurante Trotzky con le sembianze di un demone ebraico. Fonte Wikicommons

Sappiamo, quindi, sin dal 1905 che i Protocolli sono un falso storico. A questo punto è legittimo chiedersi come abbia fatto un falso conclamato a diffondersi in tutto il mondo. La responsabilità cade sulla Rivoluzione d’Ottobre o, meglio, sulla psicosi collettiva da essa scatenata: la paura di un contagio è palpabile in Europa — e non solo — ed i tentativi rivoluzionari in Germania e Ungheria ne sono la prova tangibile. All’epoca, però, i Protocolli sono ancora sconosciuti al di fuori della Russia, ma ben presto raggiungono l’Occidente sulle ali della diaspora dei russi in fuga dalla rivoluzione e dalla guerra civile. Negli Stati Uniti, in particolare, mutano leggermente di senso passando da copione di un complotto talmudico a sorta di manifesto bolscevico. E chi c’è dietro ai bolscevichi? Gli ebrei ovviamente. Nasce così il mito del complotto giudeo-bolscevico volto al sovvertimento del mondo occidentale. Si tratta di una narrazione che per i contemporanei appare incredibilmente convincente, costantemente veicolata dalla stampa, tanto che perfino Churchill, in un discorso a Sutherland il 3 gennaio 1920, cita l’esistenza di un «soviet internazionale degli ebrei russi e polacchi».

Nel 1921 Lucien Wolf pubblica il suo The Myth Of The Jewish Menace In World Affairs or The Truth About The Forged Protocols Of The Elders Of Zion (nella bibliografia ho inserito un link dove poter consultare integralmente il volume), in cui dimostra filologicamente la filiazione dei Protocolli dalle opere di Joly e Goedsche. Il lavoro di Wolf viene ripreso più tardi nello stesso anno da Philip Graves, corrispondente da Costantinopoli per il Times britannico, in una serie di articoli che fanno il giro del mondo e costringono il quotidiano a ritrattare e disconoscere la recensione estremamente lusinghiera comparsa sulle sue pagine l’anno precedente. Quasi in contemporanea negli Stati Uniti Herman Bernstein scrive il suo History Of A Lie in risposta alla pubblicazione di mezzo milione di copie dei Protocolli da parte di Henry Ford e ad una serie di articoli dal taglio nettamente antisemita — intitolati The International Jew — usciti sul The Dearborn Indipendent, giornale di proprietà dell’industriale statunitense.

Edizione americana del 1934 edita da una società patriottica. Fonte Wikicommons

Nonostante la falsità dei Protocolli sia ormai sotto gli occhi di tutti, questi continuano a girare negli ambienti più sciovinisti e antisemiti. In Germania, ad esempio, l’edizione del 1923 è curata da Alfred Rosenberg, l’ideologo del partito nazista. Lo stesso Adolf Hitler li riprende nel suo Mein Kampf per agitare lo spauracchio del complotto giudaico, asserendo tra l’altro che le continue accuse di falsità altro non sarebbero che la prova definitiva della genuinità dell’opera. Una volta raggiunto il potere i Protocolli diventano una belle basi con cui giustificare la persecuzione degli ebrei: continuamente citati sulle pagine del settimanale Der Stürmer, diretto da Julius Streicher, sono lettura scolastica obbligatoria per gli studenti del Reich. In Italia, invece, i Protocolli raggiungono una grande diffusione a partire dall’edizione del 1937 curata da Giovanni Preziosi, firmatario del Manifesto della Razza e successivamente Ispettore generale per la demografia e la razza nella RSI, con al suo interno un saggio introduttivo di Julius Evola. Costui, per altro, pur essendo convinto della assoluta falsità dell’opera, afferma che essi siano comunque validi nel dimostrare i maneggi ebraici: una sorta di “anche se non è vero, è il concetto che conta” ante litteram. Anche in questo caso si può affermare che la diffusione dei Protocolli sia servita ad avvallare successivi provvedimenti antiebraici, visto che anticipa di poco la promulgazione delle leggi razziali.

All’alba del terzo millennio i Protocolli e le varie declinazioni del complotto mondiale ebraico sembrano aver trovato una seconda giovinezza nel mare magnum di teorie strampalate che hanno iniziato a proliferare negli ultimi decenni nel tentativo di dare un senso ad un mondo sempre più complesso e che richiede sempre più competenze specifiche per poter essere compreso. Credere che ogni male presente sul globo terrestre sia frutto di qualche oscuro potere superiore è una soluzione facile e autoassolutoria, ma anche incredibilmente pericolosa: la creazione di un nemico immaginario porta in ogni caso a conseguenze pagate da persone innocenti, in carne e ossa; la Storia ce l’ha dimostrato più di una volta. Anche per questo è buona prassi chiedere le prove — prove concrete, non fumosi ragionamenti e oscuri parallelismi — ogni volta in cui ci si imbatte in “verità” rivelate: come diceva Carl Sagan «affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie».

 

BIBLIOGRAFIA

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L. Wolf, The Myth Of The Jewish Menace In World Affairs or The Truth About The Forged Protocols Of The Elders Of Zion, New York, The MacMillan Company, 1921; (consultabile qui)

 

La rivolta di Kronstadt del marzo 1921 e la Rivoluzione russa

Kronstadt e San Pietroburgo in una mappa del 1888.
Fonte Wikipedia.

Posta come sentinella a guardia della rotta di accesso a San Pietroburgo, l’isola di Kotlin ha sempre giocato un ruolo chiave nel sistema difensivo della vecchia capitale imperiale russa. Sin dal 1703, infatti, ha ospitato una delle principali basi navali dell’Impero russo, nonchè sede della Flotta del Baltico: Kronstadt. Questa città-fortezza svolse un ruolo importantissimo nella Rivoluzione russa e nel marzo del 1921 fu teatro di un ultimo, disperato tentativo di riportarla allo spirito originario.

Durante un viaggio nel 1839, Astolphe de Custine, nel suo Lettere dalla Russia, dipinse i marinai di Kronstadt in termini molto poco lusinghieri. L’autore francese li descrive infatti come «sbrindellati, coperti alla meno peggio da pelli di montone rovesciate, la lana dentro e il cuoio lercio fuori», oppure come «specie di sudici galeotti che passano la vita a trasportare gli impiegati e gli ufficiali di Kronstadt a bordo delle navi straniere». La seconda frase, in particolare, sembrava riflettere l’atteggiamento mantenuto, ancora agli inizi del secolo successivo, dalle autorità zariste e dal corpo ufficiali nei confronti degli abitanti dell’isola. I marinai della flotta, i soldati della guarnigione, ma anche gli operai dei cantieri navali, i pochi commercianti e gli ancora meno numerosi maestri, erano sottoposti ad una disciplina militare durissima, tanto da rendere la città-fortezza una sorta di colonia penale. Percosse e punizioni corporali venivano inflitte con qualsiasi pretesto e non è infrequente che gli ufficiali infierissero sulla truppa senza alcuna ragione apparente. Il regime disciplinare subì un ulteriore inasprimento nel 1909 con la nomina a governatore dell’ammiraglio Robert Nikolaevic Viren, il cui sistematico ricorso al terrore avrebbe dovuto frenare, almeno nelle intenzioni, la diffusione delle idee rivoluzionarie, ottenendo però il risultato opposto.

Poliziotti arrestati a Pietrogrado.
Fonte Wikipedia

L’8 marzo 1917 (il 23 febbraio secondo il calendario giuliano all’epoca vigente in Russia) una serie di scioperi nelle fabbriche della capitale, ribattezzata Pietrogrado allo scoppio della prima guerra mondiale, innescò una catena di eventi che culminò con l’abdicazione dello zar Nicola II e la nascita di un governo provvisorio retto dal principe L’vov (2 marzo): la Rivoluzione di febbraio. Nel frattempo, il 27 febbraio, nasceva nel palazzo di Tauride il Soviet dei deputati degli operai e dei soldati di Pietrogrado che, sebbene avesse sulla carta ceduto il potere al comitato provvisorio della Duma, e quindi al governo provvisorio, nei fatti svolse la funzione di governo ombra rivoluzionario.

Sull’isola di Kotlin i rivoluzionari passarono all’azione il 28 febbraio. I marinai si ammutinarono prendendo il controllo delle navi da guerra, mentre gli operai ed i soldati della guarnigione occuparono i punti nevralgici della città. Salvo una manciata di ufficiali che si unirono alla rivoluzione, i restanti furono disarmati e posti agli arresti. Di questi una parte venne rinchiusa nelle carceri della fortezza, mentre i restanti furono fucilati insieme all’odiato ammiraglio Viren. L’unico tentativo di resistenza da parte di una sezione dell’Ochrana, la polizia segreta zarista, asseragliatasi in una caserma, fu ridotto al silenzio con un paio di tiri dell’artiglieria navale.

Marinai della Petropavlovsk nel 1917. Sulla bandiera si legge “morte alla borghesia”.
Fonte Wikipedia

Una volta assunto il controllo dell’isola, i suoi abitanti si trovarono a doversi autogovernare. Prendendo a modello quanto accaduto nella capitale vennero eletti due soviet, uno operaio ed uno militare, i cui comitati esecutivi andranno ad unificarsi nel Comitato esecutivo del Soviet dei rappresentanti degli operai e dei soldati. Questo stabilì l’elezione diretta di tutte le cariche militari, compresi i comandanti delle fortezze dell’isola, da parte della truppa che generalmente si riuniva in assemblea nella piazza dell’Ancora. Da questo punto di vista l’autogoverno della città-fortezza fu una sorta di “democrazia sovietica”, una forma estrema di democratizzazione del potere, in cui il costante controllo della base tramite le continue assemblee finiva per esercitare una forte influenza sulle decisioni finali.

Sul piano dei rapporti esterni si decise fin da subito di non riconoscere il nuovo governo provvisorio, con il netto rifiuto a qualsiasi giuramento di fedeltà – lo stesso nuovo governatore dell’isola fu privato di qualsiasi reale potere, venendo a malapena tollerato – preferendo rapportarsi direttamente con il Soviet di Pietrogrado su di un piano paritario.

Nei mesi successivi i rivoluzionari di Kronstadt svolsero un ruolo importante tanto nelle giornate di luglio, in cui il malcontento per l’andamento della guerra portò spontaneamente ad un nuovo tentativo rivoluzionario che, pur fallendo, ebbe come risultato la formazione di un nuovo governo guidato da Kerenskij, quanto nella difesa della capitale durante il colpo di stato del generale Kornilov nel mese di agosto. Ancora più determinante fu il ruolo svolto dai marinai della Flotta del Baltico durante la Rivoluzione d’ottobre. Nella notte tra il 6 ed il 7 novembre (24 e 25 ottobre secondo il calendario giuliano), mentre i bolscevichi prendevano possesso di vari luoghi nella capitale, costoro si occuparono di disarmare le forze governative a guardia dei ponti, di importanza vitale in una città attraversata da una rete di canali come Pietrogrado, mentre a partire dall’alba parteciparono alla conquista del Palazzo d’Inverno. Il 30 ottobre, infine, contribuirono a proteggere la capitale dall’avanzata di una colonna di truppe lealiste guidata dal cosacco Krasnov in uno scontro presso il villaggio di Pulkovo.

Lev Trotzky.
Fonte Wikipedia

La battaglia delle alture di Pulkovo fu al tempo stesso l’ultimo tentativo di riprendere il potere da parte di Kerenskij ed il primo fatto d’armi della lunga guerra civile che insanguinerà la Russia fino al 1923. Pur partecipando attivamente alla difesa del neonato stato bolscevico, tanto dagli attacchi portati dalle Armate bianche quanto da quelli del corpo di spedizione dell’Intesa, tra i marinai di Kronstadt si sviluppò una crescente opposizione al monopolio bolscevico del potere. Ne sono un ottimo esempio la mozione di condanna alla violenta repressione degli anarchici moscoviti da parte della Čeka, votata ad ampia maggioranza il 18 aprile 1918, e la crescente insofferenza verso la riorganizzazione dell’Armata Rossa nel 1919 da parte di Trotzky. L’abolizione del controllo dal basso, l’imposizione della disciplina militare sotto lo sguardo vigile dei commissari politici e addirittura il reintegro di vecchi ufficiali zaristi come “specialisti” furono decisioni accettate turandosi il naso per il bene della Rivoluzione.

Il punto di rottura arriverà soltanto nel 1921, quando la sconfitta dei Bianchi portò diversi nodi al pettine. Le privazioni della guerra civile e ancora di più le violente requisizioni di grano del comunismo di guerra avevano generato un diffuso malcontento nelle campagne russe. Le rivolte contadine erano all’ordine del giorno, arrivando a coinvolgere decine di migliaia di insorti, come nel caso della Machnovščina di ispirazione anarchica in Ucraina e della Antonovščina di ispirazione socialista rivoluzionaria a Tambov, che giocò un ruolo importante nel convincere Lenin a varare la NEP. Nelle città, invece, il crollo dei salari a livelli ancora più bassi di quelli del 1913, il razionamento dei viveri ed infine la militarizzazione del lavoro provocarono una ondata di scioperi e manifestazioni di protesta, con una partecipazione particolarmente sentita a Pietrogrado. Impossibile che questo clima non si riflettesse anche tra i marinai ed i soldati di Kronstadt, in massima parte di provenienza contadina ed operaia.

La politica estera giapponese durante l’era Taishō ed il crescente contrasto con gli Stati Uniti (1912-1926)

Pur essendo durata poco meno di tre lustri, l’era Taishō rappresenta un periodo estremamente interessante per tutti gli studiosi di storia giapponese. Durante il precedente periodo Meiji, il Giappone si era trasformato da paese feudale a potenza industriale in grado di proiettarsi al di fuori dei propri confini (clicca qui per saperne di più), dimostrandosi capace di trattare alla pari con i paesi occidentali o addirittura in posizione di forza come accaduto in Manciuria contro la Russia.

L’Imperatore Yoshihito. Fonte Wikipedia

Il nuovo Tenno Yoshihito, tuttavia, era di salute estremamente cagionevole, presumibilmente a causa dei postumi di una grave forma di meniningite neonatale che ne aveva per altro minato le facoltà mentali. Già poco tempo dopo la sua incoronazione iniziò a perdere progressivamente l’uso delle gambe e la capacità di parlare correttamente, tanto che nel 1921  si rese necessaria la nomina a coreggente di suo figlio Hirohito. Il suo fu, quindi, un regno debole, in cui il potere si spostò lentamente dalle mani degli oligarchi di stato a quelle della Dieta Nazionale in un processo di progressiva democratizzazione – in  storiografia si parla infatti di Democrazia Taishō – sebbene punteggiata da episodi di autoritarismo. Per quanto riguarda la politica estera, invece, il periodo fu contraddistinto da un rinnovato impegno militare ed espansionista e dal progressivo deterioramento dei rapporti con gli Stati Uniti. Entrambi avranno un peso non secondario nelle vicende dei decenni successivi.

Il nuovo regno venne inaugurato da una grave crisi politica, accompagnata, per la prima volta nella storia del paese, a numerose e partecipate manifestazioni di protesta al di fuori dei palazzi del potere di Tokyo. Causa scatenante fu il tentativo da parte del governo di ridurre le spese militari che, dopo la guerra con la Russia del decennio precedente, gravavano sul bilancio dello stato. In tutta risposta i ministri della Guerra e della Marina, all’epoca nominati direttamente dai vertici delle Forze Armate, si dimisero. L’impossibilità di trovare dei sostituti a causa dell’ostruzionismo dei militari causò la caduta dell’esecutivo. Lo strappo venne ricomposto soltanto nel febbraio del 1913 con un compromesso elaborato dal nuovo Primo Ministro Yamamoto: in cambio della rinuncia a nominare i ministri militari, lo Stato Maggiore avrebbe potuto godere di ampissimi margini di autonomia operativa, soprattutto riguardo alle truppe di stanza in Cina e Corea. Tale decisione si rivelerà determinante nel corso degli anni Trenta.

La provincia di Shandong con Tsingtao.
Fonte Wikipedia

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, nel Pacifico erano presenti diversi possedimenti tedeschi, raggruppati nella Nuova Guinea tedesca, a cui andava aggiunta la concessione territoriale di Tsingtao in Cina. Fungendo da potenziale punto di approdo per navi corsare, come effettivamente avvenne, la sola esistenza di queste colonie rappresentava una minaccia per il traffico commerciale britannico nell’area, oltre che ai collegamenti tra Australia, Nuova Zelanda e India. Il grosso della Royal Navy era però dispiegato nel mare del Nord per fronteggiare la minaccia posta dalla moderna Hochseeflotte germanica. Londra si risolse quindi a richiedere l’aiuto di Tokyo  nella caccia alle imbarcazioni nemiche, per un periodo limitato di cinque mesi, in virtù del trattato di alleanza tra le due nazioni che era stato rinnovato nel 1911. Il governo giapponese vide nella richiesta inglese una valida opportunità per estendere la propria influenza sulla Cina, replicando che compito del Sol Levante era quello di garantire la pace in Asia orientale e rifiutandosi di porre limiti al teatro delle operazioni. Il 15 agosto i nipponici lanciarono un ultimatum alla Germania, chiedendo il ritiro di tutte le navi dall’area e la restituzione di Tsingtao alla Cina. Di fronte al rifiuto, lo stesso Yoshihito dichiarò guerra il 23 dello stesso mese.

I giapponesi riuscirono a neutralizzare e occupare senza colpo ferire le isole a nord dell’Equatore, ma incontrarono una feroce resistenza in Cina. Qui la guarnigione tedesca, forte di quattromila uomini, riuscì a resistere ad un duro assedio fino al 7 novembre quando capitolò dopo aver dato fondo alla propria scorta di munizioni. Con la conquista di Tsingtao lo sforzo nipponico nella Grande Guerra si era virtualmente concluso, con l’eccezione di una piccola squadra navale inviata nel Mediterraneo per contrastare i sottomarini degli Imperi Centrali. Ora Tokyo poteva usare gli ex possedimenti germanici come merce di scambio con il governo cinese. Nel marzo dell’anno successivo i rappresentati diplomatici giapponesi presentarono quelle che passarono alla storia come le Ventuno richieste. Queste prevedevano la cessione dei diritti tedeschi a Tsingtao al Giappone ed il riconoscimento dell’influenza nipponica sulla circostante provincia dello Shandong; l’estensione della concessione relativa alla ferrovia sud mancese e l’estensione della sfera di influenza sulla Mongolia Interna; il controllo sul polo minerario-siderurgico di Hanyeping, già oggetto di grossi investimenti da parte di società nipponiche; il rifiuto da parte cinese di ogni nuova concessione a qualsiasi potenza straniera al di fuori del Giappone; la concessione della supervisione giapponese sul Parlamento e sul processo legislativo, oltre alla sottomissione della polizia e dell’esercito all’amministrazione nipponica.

Sebbene fosse propenso ad accettare le prime quattro richieste, il governo cinese era di diverso avviso riguardo all’ultima, che avrebbe reso il paese totalmente subordinato a Tokyo. Pechino decise quindi di rendere pubblici i termini della bozza di accordo, causando tanto imbarazzo a Tokyo, quanta apprensione nelle cancellerie di Londra e Washington. I giapponesi furono costretti a ripresentare il documento epurato dell’ultima sezione e questa volta i cinesi acconsentirono a siglare l’accordo. Per il Giappone si trattò comunque di una vittoria di Pirro: i danni di immagine nei confronti di britannici e statunitensi superarono i vantaggi materiali conseguiti dall’espansione della propria influenza in Cina.

L’Atamano Semënov.
Fonte Wikipedia

Altro fronte caldo in quegli anni fu quello siberiano. Nel 1917 la Rivoluzione bolscevica aveva mandato in fumo il lavoro diplomatico giapponese che negli ultimi dieci anni aveva spinto ad un riavvicinamento con la Russia: i rivoluzionari, infatti, rigettarono in blocco ogni accordo firmato da Kerenskij e prima ancora dal governo zarista. La decisione dell’Intesa di appoggiare i controrivoluzionari rappresentò per Tokyo l’occasione per un nuovo intervento militare sul continente. In un primo momento l’impegno giapponese fu piuttosto limitato, anche per evitare di provocare ulteriormente gli americani, che dopo la questione delle Ventuno Richieste avevano iniziato a guardare con sospetto al Giappone: venne inviata una squadra navale a Vladivostok a protezione dei connazionali e si decise di appoggiare con armi e finanziamenti l’atamano Semënov nel suo tentativo di stabilire uno stato autonomo nella regione ad est del Bajkal. Le cose mutarono nel luglio 1918, quando il presidente Wilson lanciò una spedizione internazionale in Siberia.

Quello che nelle intenzioni del presidente americano doveva essere un intervento limitato a supportare la Legione cecoslovacca, agli occhi dello Stato maggiore giapponese sembrò una ghiotta occasione per cercare di stabilire un protettorato nell’area. Forte della sua autonomia strategica, l’Esercito si fece prendere leggermente la mano, inviando in Siberia oltre settantamila uomini che avanzarono fino all’area del Bajkal. Tale decisione venne accolta con diffidenza dagli alleati, ma con grande entusiasmo dagli ambienti imprenditoriali giapponesi, tanto che ben presto venne fondata una compagnia per lo sfruttamento delle risorse naturali nei territori occupati.

Truppe alleate a Vladivostok nel 1918.
Fonte Wikipedia

Ancora nel 1920, nonostante la sconfitta delle forze controrivoluzionarie fosse ormai chiara e nonostante il ritiro di tutte le forze straniere, i nipponici si limitarono a riposizionare le proprie truppe a Vladivostok e nei territori dell’attuale Primorskij kraj russo, dove diedero vita ad uno stato fantoccio. Per giustificare la propria condotta fu sfruttato l’incidente di Nikolayevsk-na-Amure. Nella primavera del 1920 un nucleo di bolscevichi attaccò e prese possesso della cittadina, dandola alle fiamme e massacrandone la popolazione, tra cui diverse centinaia di militari e civili giapponesi. L’eccidio fu usato anche come scusa per l’occupazione della parte nord dell’isola di Sachalin, ufficialmente per spingere il governo russo al pagamento di un risarcimento. In realtà ad interessare Tokyo erano i giacimenti petroliferi nell’area, il cui sfruttamento avrebbe permesso alla marina di affrancarsi almeno in parte dall’importazione di carburante dagli Stati Uniti. I giapponesi restarono a Vladivostok fino al 1922, mentre lasciarono il nord di Sachalin soltanto tre anni dopo, in seguito alla normalizzazione dei rapporti con l’Unione Sovietica.

Come neve al sole: la dissoluzione dell’Austria-Ungheria nel 1918

Allo scoppio del primo conflitto mondiale, nell’estate del 1914, l’Austria-Ungheria appariva come una curiosa bizzarria geopolitica che occupava buona parte dell’Europa centro-orientale. Con il risveglio delle coscienze nazionali tra il mosaico di popoli che l’abitavano, era lecito aspettarsi una serie di sommovimenti che avrebbero potuto portare tanto ad una riforma in senso federalista dello Stato, e quindi ad una maggiore autonomia da Vienna sulla falsariga di quanto già avvenuto in Ungheria dopo il 1867,  quanto alla sua frantumazione in una serie di entità indipendenti più piccole. Nessuno, però, avrebbe puntato un centesimo su un collasso così rapido e sistemico come quello avvenuto nell’ottobre del 1918. Come potè la Duplice Monarchia scomparire nel giro di una manciata di giorni?

L’attentato di Sarajevo, nel quale l’erede al trono Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia rimasero uccisi, fu vissuto come un evento traumatico da una porzione non indifferente della popolazione. Non deve quindi stupire che la dichiarazione di guerra alla Serbia, ritenuta essere il mandante, fosse accolta con manifestazioni di giubilo anche in aree tradizionalmente problematiche come la Boemia. L’euforia, tuttavia, durò poco. Una drammatica sequenza di scelte politiche dissennate e di rovinosi rovesci al fronte provocarono un rapido raffreddamento dell’opinione pubblica già dopo una manciata di mesi.

Francesco Giuseppe nel 1914. Fonte Wikipedia

Lo scoppio del conflitto trasformò, caso unico tra i vari belligeranti, il Paese in una vera e propria dittatura militare. La Costituzione del 1867 prevedeva che in determinate circostanze, tra cui la guerra, il Reichsrat – il Parlamento austriaco – potesse dichiarare lo stato di emergenza. Attraverso di esso il Kaiser ed il governo potevano bypassare il passaggio parlamentare emanando ordinanze aventi temporanea forza di legge. Il Reichsrat, però, era stato sospeso nella primavera di quello stesso anno a causa dell’ostruzionismo dei deputati cechi, per cui, a differenza di quanto accadde nella parte ungherese dell’Impero, in Cisleitania – la parte austriaca – non solo mancò quel fondamentale atto formale, ma non ci furono nemmeno freni istituzionali alle ingerenze dei militari.

Le prime ordinanze limitarono fortemente le libertà costituzionali della popolazione civile, portando a forti limitazioni nell’attività di associazioni, partiti politici e sindacati, oltre che alla censura della stampa, mentre veniva creato il Kriegsüberwachtungsamt, l’ufficio di sovrintendenza alla guerra. Si trattava di una autorità mista, militare e civile, priva di qualsiasi fondamento giuridico, che pur essendo nata come organo di coordinamento tra i vari ministeri e le altre istituzioni, divenne in breve tempo un vero e proprio governo ombra dotato di potere illimitato.

Mappa etnografica dell’Austria-Ungheria.
Andrein, Public domain, via Wikimedia Commons

Ampie zone dell’Impero, comprese quelle che si trovavano a notevole profondità nelle retrovie del fronte, vennero dichiarate zone militari. Allo scoppio del conflitto queste comprendevano la Bosnia-Erzegovina, il Banato, la Galizia, la Bucovina e diversi distretti in Boemia e Moravia, mentre con l’entrata in guerra dell’Italia si aggiunsero il Tirolo, il Vorarlberg, Salisburgo, la Carinzia, il Goriziano con Gradisca e Trieste con l’Istria. In queste aree, per altro abitate in gran parte da minoranze non germanofone, le autorità militari sostituivano completamente quelle civili, occupandosi anche del trasferimento dei profughi di guerra o dell’internamento e confino degli elementi considerati antipatriottici, attuando una repressione dai tratti spesso paranoici. Se in Galizia e in Serbia si giunse a veri e propri massacri di civili accusati di essere spie “russofile”, in Boemia si giunse ad assurdità come l’arresto di scolari rei di avere le loro spillette patriottiche coperte dal bavero del cappotto. Inutile dire che a lungo andare tutto ciò portò all’esarcebazione le tensioni da tempo latenti.

Sul fronte del lavoro, invece, già il 25 luglio 1914 era stata emanato un decreto che poneva sotto “tutela statale” le imprese di interesse pubblico, come le ferrovie o le società di navigazione, in modo che potessero svolgere le loro funzioni senza interruzioni. Come? Abolendo la libertà sindacale e prevedendo pesanti pene detentive in caso di sciopero, sabotaggio o altre forme di resistenza passiva. Quando, allo scoppio del conflitto, venne applicata la Kriegsleistungsgesetzt – la legge sullo sforzo bellico -anche i grandi industriali, ben desiderosi di aumentare i propri margini di profitto, non persero l’occasione di porre le proprie aziende sotto “tutela statale”. Tale legge prevedeva la militarizzazione del lavoro, con un aumento del carico di lavoro fino a ottanta ore settimanali in cambio di straordinari non pagati e un salario ridotto all’osso che non era in grado di far fronte ai rincari dei generi di prima necessità. Il lavoratore militarizzato, inoltre, era sottoposto al potere disciplinare dell’esercito e non aveva il diritto di recedere dal contratto di lavoro. Già nel febbraio 1915 oltre cento aziende, con diverse centinaia di migliaia di dipendenti, erano state militarizzate: una bomba sociale pronta a deflagrare alla minima scintilla.

Carlo I d’Asburgo nel 1916. Fonte Wikipedia

Altro evento determinante fu la morte, il 21 novembre 1916, del vecchio Kaiser Franz Joseph. Sebbene non avvenuta all’improvviso – l’imperatore aveva superato gli 86 anni di età – la sua dipartita sortì l’effetto di uno shock. Egli infatti era una delle poche figure autorevoli in cui si identificava l’Impero stesso, una sorta di collante che fino a quel momento era riuscito, più con il bastone che con la carota, a tenere insieme la Duplice Monarchia. Animato dalle migliori intenzioni, il suo successore Carlo I inaugurò una serie di riforme in chiave liberale. La censura sulla stampa venne allentata, permettendo un dibattito pubblico anche su argomenti delicati come le condizioni al fronte, l’andamento generale della guerra e la situazione interna. Anche il Reichsrat tornò finalmente a riunirsi nel maggio 1917, permettendo  così un minimo di vigilanza sull’operato del Kriegsüberwachtungsamt. Tutte intenzioni nobili e indubbiamente positive sulla carta, ma che nei fatti si rivelarono controproducenti.

Nonostante la situazione alimentare sempre più incerta e l’entrata in guerra degli Stati Uniti, il 1917 si era concluso nel migliore dei modi per Vienna. In Russia la rivoluzione e la successiva guerra civile avevano causato l’uscita di scena di un nemico temibile e liberato truppe esperte che in ottobre erano state impiegate con successo sul fronte italiano, provocandone il crollo durante la pirrica battaglia di Caporetto.

Il 1918, invece, iniziò con il piede sbagliato. Il dilungarsi delle trattative di pace tra Imperi Centrali e bolscevichi a Brest-Litovsk, provocato soprattutto dalle eccessive richieste tedesche, venne ampiamente coperto dalla stampa. Questo, unito al senso di lacerazione profonda che emergeva dalla narrazione giornalistica del dibattito interno al Reichsrat, portò al diffondersi di un sordo malcontento che attraversava trasversalmente le classi sociali e le nazionalità. La prima deflagrazione avvenne in gennaio, quando diverse centinaia di migliaia di lavoratori incrociarono le braccia chiedendo a gran voce pace, almeno sul fronte orientale. Soltanto l’impegno da parte del governo di aumentare le razioni alimentari – che oscillavano tra i trecento ed i duecento grammi di pane al giorno – fece rientrare l’agitazione dopo un lungo braccio di ferro. Se è vero che già in precedenza vi erano state proteste di limitata entità, quelli del gennaio 1918 furono eventi di massa nati spontaneamente: nè il partito socialdemocratico, verso il quale il governo aveva mostrato una certa apertura per cercare di placare gli animi, nè i sindacati, la cui attività era stata nuovamente consentita, riuscirono a mettersi alla guida delle proteste.

Truppe d’assalto austroungariche sul fronte italiano. Fonte Wikipedia

Per osmosi il malcontento raggiunse anche le forze armate. Nel febbraio i marinai della base navale di Cattaro si ammutinarono, prendendo il controllo del porto e di tutte le navi alla fonda. Tra le richieste dei rivoltosi troviamo la riduzione dei turni di servizio, che avevano raggiunto le sedici ore al giorno, l’aumento delle razioni di cibo che arrivavano quotidianamente ad appena quattrocento grammi di pane, ma anche una pace senza annessioni con la Russia e l’autodeterminazione dei popoli sulla base dei quattrodici punti elaborati dal presidente americano Wilson. Nel maggio, invece, a ribellarsi furono i rincalzi di un reggimento di stanza a Judenburg, in Stiria. Dopo aver assaltato le caserme e saccheggiato i depositi dell’esercito, gli insorti iniziarono a marciare verso casa, in Slovacchia. Per tutto il mese di maggio eventi simili si verificarono a macchia di leopardo, soprattutto in quei reparti che più a lungo avevano prestato servizio sul fronte orientale e che quindi avevano avuto più occasioni di entrare in contatto con le parole d’ordine dei bolscevichi: in questo breve lasso di tempo i tribunali militari emisero qualcosa come oltre centotrentamila sentenze. Sul fronte italiano, invece, la situazione iniziò a precipitare soltanto dopo la sconfitta subita nel tentativo di sfondare le difese italiane sul Grappa e sul Piave durante la battaglia del solstizio: il numero delle diserzioni aumentò sensibilmente.

Intanto il tessuto sociale iniziò ad andare inesorabilmente a frantumi. Nelle città gli operai scioperavano contro lo sfruttamento da parte della borghesia e la mancanza di viveri, mentre nelle campagne i contadini ostacolavano la raccolta di beni alimentari destinati a quelli che ai loro occhi altro non erano che parassiti bolscevichi. Lo Stato, ritenuto responsabile di ogni mancanza e di ogni problema, divenne una sorta di parafulmine attorno a cui iniziò a condensarsi l’aperta ostilità di tutti. Non deve quindi sorprendere se, all’interno del Reichsrat, i deputati delle varie minoranze iniziarono a discutere apertamente della necessità di formare Stati nazionali, sebbene le idee in merito differissero notevolmente, provocando talvolta diverse tensioni: i ruteni ad esempio non volevano essere compresi in uno stato polacco, così come gli austro-tedeschi dei Sudeti non volevano finire in minoranza in un ipotetico stato ceco.

La situazione precipitò definitivamente tra settembre e ottobre, quando le forze dell’Intesa riuscirono a forzare, dopo anni di stallo, il fronte macedone nella valle del Vardar: l’uscita di scena della Bulgaria apriva una strada che attraverso i Balcani conduceva direttamente al cuore della Duplice Monarchia.

Il 16 ottobre Carlo emanò il cosiddetto “manifesto dei popoli” in cui invitava le minoranze nazionali a costituire delle rappresentanze in vista della trasformazione dell’Austria-Ungheria in una confederazione di stati posti sotto l’egida di casa Asburgo. Il tentativo fallì sia per l’aperta opposizione dei diretti interessati, sia perchè l’Intesa fece sapere che la pace sarebbe stata possibile solo con la dissoluzione del paese, che ormai appariva inevitabile. Il 21 ottobre i deputati tedeschi si riunirono nel Reichsrat formando un consiglio nazionale, dal quale il 30 emerse un nuovo governo a maggioranza socialdemocratica.

Nel frattempo – il 26 – il Regio Esercito aveva lanciato una offensiva generale lungo il Piave. Dopo una iniziale feroce resistenza, interi reparti austro-ungarici di varia nazionalità smisero di combattere, abbandonarono le postazioni e si diressero verso casa in concomitanza con le varie dichiarazioni di indipendenza. Il 28 toccò alla Cecoslovacchia, seguita il giorno successivo dallo Stato degli Sloveni, Croati e Serbi. Il 31 l’Ungheria sciolse formalmente i vincoli che la legavano all’Austria, diventando così indipendente pur mantenendo come proprio sovrano Carlo d’Asburgo.

Il manifesto di Carlo I sull’edizione straordinaria del Wiener Zeitung (17.10.1918). Fonte: https://ww1.habsburger.net/de

Non avendo più un esercito in grado di combattere, il 3 novembre i vertici militari austriaci firmarono l’armistizio di Villa Giusti che entrò in vigore il giorno successivo. L’11 dello stesso mese, mentre entrava in vigore l’armistizio tra Intesa e Germania, Carlo I annunciò la propria rinuncia agli affari di Stato pur rifiutandosi di firmare una abdicazione formale. Il giorno successivo i socialdemocratici dichiararono la nascita della Repubblica Austro-tedesca. Il giorno dopo ancora Carlo rinunciò anche agli affari di Stato in Ungheria, mentre a Belgrado rappresentanti del governo ungherese firmavano un armistizio con le potenze dell’Intesa. Dopo secoli la dinastia degli Asburgo smise di essere una casata regnante, mentre i suoi vasti possedimenti si scioglievano come neve al sole nel giro di un mese, travolti dall’inarrestabile treno della Storia.

 

 

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Epaminonda e la breve stagione dell’egemonia tebana

Le Beozia con Tebe e altri centri.
Fonte Wikipedia

Parlando di Grecia antica si finisce quasi inevitabilmente a concentrarsi su Sparta e Atene, le due póleis che idealmente rappresentano la stessa idea di epoca classica. Eppure anche Tebe riuscì, seppure per un tempo incredibilmente breve, ad esercitare la propria supremazia sul resto dell’Ellade. Ciò fu possibile grazie ad una vera e propria rivoluzione militare, ispirata da figure incredibilmente carismatiche come Pelopida ed Epaminonda. Seppur brevissima, la stagione dell’egemonia tebana ebbe conseguenze difficilmente immaginabili per i contemporanei. Ora scopriremo il perchè.

La guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) si concluse con la disastrosa sconfitta di Atene. La polis attica era stata infatti costretta a rinunciare alla propria flotta e a sciogliere la lega delio-attica, entrambi strumenti essenziali per la sua politica di potenza nell’Egeo, oltre che ad assistere alla demolizione delle Lunghe Mura e ad una modifica delle proprie istituzioni in senso oligarchico. Come se ciò non bastasse, gli ateniesi furono costretti ad accettare la presenza di un governatore con pieni poteri, detto armosta, al comando di una nutrita guarnigione spartana alloggiata presso il porto del Pireo. Per quanto umilianti, le condizioni imposte da Sparta furono tutto sommato modeste, soprattutto se confrontate a quanto richiesto da Tebe e Corinto: le due póleis, infatti, arrivarono a proporre la completa distruzione della città.

Con la momentanea scomparsa dell’eterna rivale dallo scenario politico greco, Sparta si ritrovò di punto in bianco ad essere la potenza egemone nell’Ellade. Il modello spartano, però, era del tutto inadeguato al nuovo ruolo che la Storia stava affidando alla polis e non tardò a mostrare tutta la sua fragilità. La società spartana era suddivisa in un sistema di caste rigidamente separate tra di loro. Al vertice si trovavano gli Spartiati, mai più di poche migliaia e ridotti a circa tremila nel periodo in esame, che dedicandosi esclusivamente al mestiere delle armi erano gli unici a godere di pieni diritti in quanto unici veri cittadini. Seguivano i perieci, ossia gli abitanti delle città limitrofe, dediti per lo più al commercio, attività severamente proibita all’élite dominante, mentre il gradino più basso della società era composto dagli iloti. Costoro erano i discendenti dei Messeni asserviti nel corso dell’VIII secolo a.C. e di fatto schiavi senza diritti di proprietà dello Stato.

La mentalità della classe dirigente spartana, salvo eccezioni come Lisandro e pochi altri, era inoltre improntata ad un tradizionalismo così settario da renderla incapace di affrontare qualsiasi cambiamento. La necessità di inviare armosti presso altre póleis e diversi casi di arricchimento illecito a seguito dell’enorme aumento del flusso di denaro nelle casse cittadine, contribuirono a minare la coesione di una classe che stava già diventando numericamente sempre più debole.

Oplita su un vaso antico.
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L’egemonia spartana poggiava su fondamenta instabili anche per un altro motivo. La vittoria contro Atene era stata conseguita anche grazie al costante appoggio finanziario persiano e ora il Re dei Re si aspettava di vedere riaffermata la propria autorità sulle città greche dell’Asia minore. I lacedemoni, quindi, si trovavano nella scomoda situazione di essere in debito con un creditore poco indulgente e di non poterlo saldare senza perdere la faccia nei confronti di tutta la grecità. I persiani, quindi, aumentarono sensibilmente la loro ingerenza in Grecia, continuando a finanziare gli avversari di Sparta, in una sorta di divide et impera ante litteram.

Infine la clemenza mostrata nei confronti di Atene aveva permesso alla polis attica di riprendersi abbastanza in fretta. In un solo decennio, anche grazie all’oro persiano, gli ateniesi furono in grado di restaurare la democrazia cacciando gli oligarchi, mettere in mare un discreto numero di trireme e di procedere alla ricostruzione delle mura. Inoltre l’insoddisfazione di Tebe e Corinto si trasformò in cupo risentimento nei confronti dell’ex alleato per il fondato timore di essere relegati ad un ruolo di sudditanza paragonabile a quello dei membri della lega peloponnesiaca, che di fatto erano costretti a fornire la carne da macello per le guerre di Sparta.

Non deve quindi stupire se nel 395 a.C. una inedita federazione tra Tebe, Atene, Argo e Corinto, immancabilmente foraggiata dalla Persia, dichiarò guerra a Sparta, al momento impegnata in Asia Minore. Il conflitto si protrasse in modo inconcludente per circa otto anni, durante i quali l’esercito spartano dimostrò ancora una volta di meritare la propria fama. La guerra corinzia, questo il nome con cui passò alla storia, è interessante per tre motivi. A seguito dell’eliminazione del partito filospartano di Corinto, infatti, la città entrò in una vera e propria unione con Argo: mai era accaduto nella storia greca che due póleis arrivassero a condividere gli organi politici. In secondo luogo Tebe aumentò la propria influenza sulle città vicine, dando il via a quello che può essere considerato l’embrione della futura lega beotica.

Un darico d’oro coniato durante il regno di Artaserse II.
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Il terzo motivo, vista la portata delle sue conseguenze, è il più importante. Nel 386 a.C. Sparta convoca ed ospita un congresso panellenico per cercare una soluzione al conflitto. In realtà i convenuti si ritrovarono ad ascoltare passivamente un emissario persiano dettare le condizioni di Artaserse. La pace di Antalcida – o pace del Re – fu il punto più alto dell’ingerenza persiana negli affari greci. Il trattato ribadiva l’autorità assoluta del Re dei Re sull’Asia e quindi anche sulle città costiere greche: queste potevano darsi la forma di governo che preferivano, ma erano tenute a versare regolarmente un tributo al sovrano persiano. Per quanto riguarda il resto della Grecia, veniva introdotta la clausola di autonomia, secondo cui ogni polis doveva essere libera ed autonoma e per questo proibiva la nascita di leghe e alleanze. Di conseguenza Argo e Corinto dovettero rinunciare alla loro unione, mentre Tebe fu costretta a sciogliere la prima lega beotica. Non accadde altrettanto con Sparta e la sua lega peloponnesiaca, a cui anzi fu demandato il compito di vigilare sul mantenimento della pace e sul rispetto delle clausole del trattato.

Fu proprio durante una spedizione militare volta ad imporre lo scioglimento di una lega, quella calcidica promossa dalla città di Olinto, che Tebe venne occupata dagli spartani. Potendo contare su un appoggio interno, il comandante spartano Febida occupò la Cadmea, la roccaforte tebana, ed impose un governo filospartano con la conseguente espulsione – o eliminazione fisica – degli oppositori. Non si sa con certezza se Febida abbia agito per iniziativa personale o seguendo precise direttive, ma il suo fu un gesto privo di qualsiasi giustificazione formale, oltre ad un segno di profondo disprezzo verso i giuramenti sacri che accompagnavano la firma di qualsiasi trattato, ed inevitabilmente contribuì a scavare un solco profondissimo ed incolmabile tra le due città.