Come neve al sole: la dissoluzione dell’Austria-Ungheria nel 1918

Allo scoppio del primo conflitto mondiale, nell’estate del 1914, l’Austria-Ungheria appariva come una curiosa bizzarria geopolitica che occupava buona parte dell’Europa centro-orientale. Con il risveglio delle coscienze nazionali tra il mosaico di popoli che l’abitavano, era lecito aspettarsi una serie di sommovimenti che avrebbero potuto portare tanto ad una riforma in senso federalista dello Stato, e quindi ad una maggiore autonomia da Vienna sulla falsariga di quanto già avvenuto in Ungheria dopo il 1867,  quanto alla sua frantumazione in una serie di entità indipendenti più piccole. Nessuno, però, avrebbe puntato un centesimo su un collasso così rapido e sistemico come quello avvenuto nell’ottobre del 1918. Come potè la Duplice Monarchia scomparire nel giro di una manciata di giorni?

L’attentato di Sarajevo, nel quale l’erede al trono Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia rimasero uccisi, fu vissuto come un evento traumatico da una porzione non indifferente della popolazione. Non deve quindi stupire che la dichiarazione di guerra alla Serbia, ritenuta essere il mandante, fosse accolta con manifestazioni di giubilo anche in aree tradizionalmente problematiche come la Boemia. L’euforia, tuttavia, durò poco. Una drammatica sequenza di scelte politiche dissennate e di rovinosi rovesci al fronte provocarono un rapido raffreddamento dell’opinione pubblica già dopo una manciata di mesi.

Francesco Giuseppe nel 1914. Fonte Wikipedia

Lo scoppio del conflitto trasformò, caso unico tra i vari belligeranti, il Paese in una vera e propria dittatura militare. La Costituzione del 1867 prevedeva che in determinate circostanze, tra cui la guerra, il Reichsrat – il Parlamento austriaco – potesse dichiarare lo stato di emergenza. Attraverso di esso il Kaiser ed il governo potevano bypassare il passaggio parlamentare emanando ordinanze aventi temporanea forza di legge. Il Reichsrat, però, era stato sospeso nella primavera di quello stesso anno a causa dell’ostruzionismo dei deputati cechi, per cui, a differenza di quanto accadde nella parte ungherese dell’Impero, in Cisleitania – la parte austriaca – non solo mancò quel fondamentale atto formale, ma non ci furono nemmeno freni istituzionali alle ingerenze dei militari.

Le prime ordinanze limitarono fortemente le libertà costituzionali della popolazione civile, portando a forti limitazioni nell’attività di associazioni, partiti politici e sindacati, oltre che alla censura della stampa, mentre veniva creato il Kriegsüberwachtungsamt, l’ufficio di sovrintendenza alla guerra. Si trattava di una autorità mista, militare e civile, priva di qualsiasi fondamento giuridico, che pur essendo nata come organo di coordinamento tra i vari ministeri e le altre istituzioni, divenne in breve tempo un vero e proprio governo ombra dotato di potere illimitato.

Mappa etnografica dell’Austria-Ungheria.
Andrein, Public domain, via Wikimedia Commons

Ampie zone dell’Impero, comprese quelle che si trovavano a notevole profondità nelle retrovie del fronte, vennero dichiarate zone militari. Allo scoppio del conflitto queste comprendevano la Bosnia-Erzegovina, il Banato, la Galizia, la Bucovina e diversi distretti in Boemia e Moravia, mentre con l’entrata in guerra dell’Italia si aggiunsero il Tirolo, il Vorarlberg, Salisburgo, la Carinzia, il Goriziano con Gradisca e Trieste con l’Istria. In queste aree, per altro abitate in gran parte da minoranze non germanofone, le autorità militari sostituivano completamente quelle civili, occupandosi anche del trasferimento dei profughi di guerra o dell’internamento e confino degli elementi considerati antipatriottici, attuando una repressione dai tratti spesso paranoici. Se in Galizia e in Serbia si giunse a veri e propri massacri di civili accusati di essere spie “russofile”, in Boemia si giunse ad assurdità come l’arresto di scolari rei di avere le loro spillette patriottiche coperte dal bavero del cappotto. Inutile dire che a lungo andare tutto ciò portò all’esarcebazione le tensioni da tempo latenti.

Sul fronte del lavoro, invece, già il 25 luglio 1914 era stata emanato un decreto che poneva sotto “tutela statale” le imprese di interesse pubblico, come le ferrovie o le società di navigazione, in modo che potessero svolgere le loro funzioni senza interruzioni. Come? Abolendo la libertà sindacale e prevedendo pesanti pene detentive in caso di sciopero, sabotaggio o altre forme di resistenza passiva. Quando, allo scoppio del conflitto, venne applicata la Kriegsleistungsgesetzt – la legge sullo sforzo bellico -anche i grandi industriali, ben desiderosi di aumentare i propri margini di profitto, non persero l’occasione di porre le proprie aziende sotto “tutela statale”. Tale legge prevedeva la militarizzazione del lavoro, con un aumento del carico di lavoro fino a ottanta ore settimanali in cambio di straordinari non pagati e un salario ridotto all’osso che non era in grado di far fronte ai rincari dei generi di prima necessità. Il lavoratore militarizzato, inoltre, era sottoposto al potere disciplinare dell’esercito e non aveva il diritto di recedere dal contratto di lavoro. Già nel febbraio 1915 oltre cento aziende, con diverse centinaia di migliaia di dipendenti, erano state militarizzate: una bomba sociale pronta a deflagrare alla minima scintilla.

Carlo I d’Asburgo nel 1916. Fonte Wikipedia

Altro evento determinante fu la morte, il 21 novembre 1916, del vecchio Kaiser Franz Joseph. Sebbene non avvenuta all’improvviso – l’imperatore aveva superato gli 86 anni di età – la sua dipartita sortì l’effetto di uno shock. Egli infatti era una delle poche figure autorevoli in cui si identificava l’Impero stesso, una sorta di collante che fino a quel momento era riuscito, più con il bastone che con la carota, a tenere insieme la Duplice Monarchia. Animato dalle migliori intenzioni, il suo successore Carlo I inaugurò una serie di riforme in chiave liberale. La censura sulla stampa venne allentata, permettendo un dibattito pubblico anche su argomenti delicati come le condizioni al fronte, l’andamento generale della guerra e la situazione interna. Anche il Reichsrat tornò finalmente a riunirsi nel maggio 1917, permettendo  così un minimo di vigilanza sull’operato del Kriegsüberwachtungsamt. Tutte intenzioni nobili e indubbiamente positive sulla carta, ma che nei fatti si rivelarono controproducenti.

Nonostante la situazione alimentare sempre più incerta e l’entrata in guerra degli Stati Uniti, il 1917 si era concluso nel migliore dei modi per Vienna. In Russia la rivoluzione e la successiva guerra civile avevano causato l’uscita di scena di un nemico temibile e liberato truppe esperte che in ottobre erano state impiegate con successo sul fronte italiano, provocandone il crollo durante la pirrica battaglia di Caporetto.

Il 1918, invece, iniziò con il piede sbagliato. Il dilungarsi delle trattative di pace tra Imperi Centrali e bolscevichi a Brest-Litovsk, provocato soprattutto dalle eccessive richieste tedesche, venne ampiamente coperto dalla stampa. Questo, unito al senso di lacerazione profonda che emergeva dalla narrazione giornalistica del dibattito interno al Reichsrat, portò al diffondersi di un sordo malcontento che attraversava trasversalmente le classi sociali e le nazionalità. La prima deflagrazione avvenne in gennaio, quando diverse centinaia di migliaia di lavoratori incrociarono le braccia chiedendo a gran voce pace, almeno sul fronte orientale. Soltanto l’impegno da parte del governo di aumentare le razioni alimentari – che oscillavano tra i trecento ed i duecento grammi di pane al giorno – fece rientrare l’agitazione dopo un lungo braccio di ferro. Se è vero che già in precedenza vi erano state proteste di limitata entità, quelli del gennaio 1918 furono eventi di massa nati spontaneamente: nè il partito socialdemocratico, verso il quale il governo aveva mostrato una certa apertura per cercare di placare gli animi, nè i sindacati, la cui attività era stata nuovamente consentita, riuscirono a mettersi alla guida delle proteste.

Truppe d’assalto austroungariche sul fronte italiano. Fonte Wikipedia

Per osmosi il malcontento raggiunse anche le forze armate. Nel febbraio i marinai della base navale di Cattaro si ammutinarono, prendendo il controllo del porto e di tutte le navi alla fonda. Tra le richieste dei rivoltosi troviamo la riduzione dei turni di servizio, che avevano raggiunto le sedici ore al giorno, l’aumento delle razioni di cibo che arrivavano quotidianamente ad appena quattrocento grammi di pane, ma anche una pace senza annessioni con la Russia e l’autodeterminazione dei popoli sulla base dei quattrodici punti elaborati dal presidente americano Wilson. Nel maggio, invece, a ribellarsi furono i rincalzi di un reggimento di stanza a Judenburg, in Stiria. Dopo aver assaltato le caserme e saccheggiato i depositi dell’esercito, gli insorti iniziarono a marciare verso casa, in Slovacchia. Per tutto il mese di maggio eventi simili si verificarono a macchia di leopardo, soprattutto in quei reparti che più a lungo avevano prestato servizio sul fronte orientale e che quindi avevano avuto più occasioni di entrare in contatto con le parole d’ordine dei bolscevichi: in questo breve lasso di tempo i tribunali militari emisero qualcosa come oltre centotrentamila sentenze. Sul fronte italiano, invece, la situazione iniziò a precipitare soltanto dopo la sconfitta subita nel tentativo di sfondare le difese italiane sul Grappa e sul Piave durante la battaglia del solstizio: il numero delle diserzioni aumentò sensibilmente.

Intanto il tessuto sociale iniziò ad andare inesorabilmente a frantumi. Nelle città gli operai scioperavano contro lo sfruttamento da parte della borghesia e la mancanza di viveri, mentre nelle campagne i contadini ostacolavano la raccolta di beni alimentari destinati a quelli che ai loro occhi altro non erano che parassiti bolscevichi. Lo Stato, ritenuto responsabile di ogni mancanza e di ogni problema, divenne una sorta di parafulmine attorno a cui iniziò a condensarsi l’aperta ostilità di tutti. Non deve quindi sorprendere se, all’interno del Reichsrat, i deputati delle varie minoranze iniziarono a discutere apertamente della necessità di formare Stati nazionali, sebbene le idee in merito differissero notevolmente, provocando talvolta diverse tensioni: i ruteni ad esempio non volevano essere compresi in uno stato polacco, così come gli austro-tedeschi dei Sudeti non volevano finire in minoranza in un ipotetico stato ceco.

La situazione precipitò definitivamente tra settembre e ottobre, quando le forze dell’Intesa riuscirono a forzare, dopo anni di stallo, il fronte macedone nella valle del Vardar: l’uscita di scena della Bulgaria apriva una strada che attraverso i Balcani conduceva direttamente al cuore della Duplice Monarchia.

Il 16 ottobre Carlo emanò il cosiddetto “manifesto dei popoli” in cui invitava le minoranze nazionali a costituire delle rappresentanze in vista della trasformazione dell’Austria-Ungheria in una confederazione di stati posti sotto l’egida di casa Asburgo. Il tentativo fallì sia per l’aperta opposizione dei diretti interessati, sia perchè l’Intesa fece sapere che la pace sarebbe stata possibile solo con la dissoluzione del paese, che ormai appariva inevitabile. Il 21 ottobre i deputati tedeschi si riunirono nel Reichsrat formando un consiglio nazionale, dal quale il 30 emerse un nuovo governo a maggioranza socialdemocratica.

Nel frattempo – il 26 – il Regio Esercito aveva lanciato una offensiva generale lungo il Piave. Dopo una iniziale feroce resistenza, interi reparti austro-ungarici di varia nazionalità smisero di combattere, abbandonarono le postazioni e si diressero verso casa in concomitanza con le varie dichiarazioni di indipendenza. Il 28 toccò alla Cecoslovacchia, seguita il giorno successivo dallo Stato degli Sloveni, Croati e Serbi. Il 31 l’Ungheria sciolse formalmente i vincoli che la legavano all’Austria, diventando così indipendente pur mantenendo come proprio sovrano Carlo d’Asburgo.

Il manifesto di Carlo I sull’edizione straordinaria del Wiener Zeitung (17.10.1918). Fonte: https://ww1.habsburger.net/de

Non avendo più un esercito in grado di combattere, il 3 novembre i vertici militari austriaci firmarono l’armistizio di Villa Giusti che entrò in vigore il giorno successivo. L’11 dello stesso mese, mentre entrava in vigore l’armistizio tra Intesa e Germania, Carlo I annunciò la propria rinuncia agli affari di Stato pur rifiutandosi di firmare una abdicazione formale. Il giorno successivo i socialdemocratici dichiararono la nascita della Repubblica Austro-tedesca. Il giorno dopo ancora Carlo rinunciò anche agli affari di Stato in Ungheria, mentre a Belgrado rappresentanti del governo ungherese firmavano un armistizio con le potenze dell’Intesa. Dopo secoli la dinastia degli Asburgo smise di essere una casata regnante, mentre i suoi vasti possedimenti si scioglievano come neve al sole nel giro di un mese, travolti dall’inarrestabile treno della Storia.

 

 

BIBLIOGRAFIA

N. Labanca, O. Überegger, La Guerra Italo-Austriaca (1915-18), Bologna, Il Mulino, 2014

M. Rauchensteiner, Der Erste Weltkrieg Und Das Ende Der Habsburgermonarchie, Wien-Köln-Weimar, Böhlau Verlag, 2013

M. Isnenghi, G. Rochat, La Grande Guerra, Bologna, Il Mulino, 2014

N. Stone, The Eastern Front 1914-1917, London, Penguin Books, 1998

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