Letture del mese – Marzo ’21 (Sylvain Tesson – La Pantera Delle Nevi)

Ormai è più di un anno e mezzo che, anche a causa delle situazione sanitaria, non riesco a viaggiare. Si tratta di un lasso di tempo veramente lungo, specie per chi, come il sottoscritto, è abituato a passare le proprie ferie a zonzo per l’Europa e non solo. Fortunatamente, a proteggermi da quelle che potrebbero essere delle vere e proprie crisi di astinenza, ci sono i libri. Attraverso le loro pagine, infatti, mi è possibile abbandonare questo perenne presente statico e volare sulle ali dell’immaginazione fino all’altro capo del mondo, in luoghi che ho sempre desiderato visitare.

SYLVAIN TESSON – LA PANTERA DELLE NEVI 

Di Sylvain Tesson (1972), scrittore e viaggiatore francese, ammetto di ammirare/invidiare diverse cose. Lo ammiro per le sue imprese sopra le righe, come l’aver attraversato in lungo e in largo l’Asia a piedi, in bicicletta e a cavallo, oppure l’aver commemorato, in Beresina, il bicentenario della ritirata della Grande Armata napoleonica dalla Russia ripercorrendone il percorso in pieno inverno a bordo di un sidecar sovietico. Ne invidio, invece, la capacità di riuscire a fondere disincanto, sottile ironia e capacità riflessiva in uno stile tanto personale quanto graffiante, cosa che lo rende uno dei miei autori francesi contemporanei preferiti.

Nella sua ultima fatica letteraria, La Pantera Delle Nevi, lo vedremo accompagnare il fotografo naturalista Vincent Munier (1976) in alcune delle zone più remote e inaccessibili dell’Altopiano del Tibet, alla ricerca di uno dei suoi abitanti più sfuggenti e misteriosi, Panthera uncia, ossia il leopardo delle nevi. Di carattere schivo e solitario, questo felino, che campeggia in tutta la sua maestosa bellezza sulla copertina del volume, abita gole e versanti montani di alcune delle aree montuose più inospitali dell’intera Asia centrale: dall’Hindu Kush ai monti Kunlun, passando per gli Altai ed i pendii meridionali dell’Himalaya. Spietatamente cacciato dagli umani, che in lui vedevano – e in realtà spesso continuano a vedere – una minaccia per il proprio bestiame, il leopardo delle nevi ha visto la sua popolazione ridursi a poche migliaia di esemplari, costretti a fronteggiare una crescente pressione antropica sul proprio habitat.

La fotografia, come ben sa chiunque abbia provato a cimentarvisi con un po’ di impegno, è una attività che richiede una discreta dose di tempo e soprattutto di pazienza. Ciò è particolarmente vero per i naturalisti che, oltre a doversi preoccupare della luce e delle impostazioni della propria attrezzatura, devono fare i conti con l’imprevedibilità dei loro soggetti principali. Non è detto, infatti, che le lunghe ore di attesa nel fango o nel sottobosco siano ricompensate da uno scatto decente, ammesso che la fiera in questione abbia la cortesia di farsi inquadrare dal mirino della macchina fotografica, a mio avviso l’unico in cui dovrebbe entrare un essere vivente. Immaginate, quindi, cosa può voler dire cercare di fotografare un leopardo che, oltre ad essere raro, è in grado di mimetizzarsi alla perfezione con l’ambiente circostante e di sfuggire anche all’occhio più attento.

Per Tesson le lunghe ore di appostamento al gelo nei pressi delle sorgenti del Mekong, ad una altitudine media che supera i quattromila metri sul livello del mare e con temperature decine di gradi sotto allo zero, diventano occasione per dedicarsi a lunghe e articolate riflessioni. In quella che sembra a tutti gli effetti una particolare forma di ascesi, l’autore si interroga sul rapporto tra mondo e uomo e sulla capacità di quest’ultimo di alterare, spesso in modo irreversibile, l’ambiente. Persino sul tetto del mondo gli umani sono stati in grado di lasciare una cicatrice di acciaio, la ferrovia Lhasa-Golmund, che taglia il plateau tibetano da nord a sud. In un mondo dominato da una specie in grado di intervenire in maniera invasiva ovunque, persino negli angoli più remoti del globo, quale è il futuro per le altre specie? Potranno continuare a sopravvivere in habitat sempre più ristretti, con popolazioni via via sempre più ridotte, oppure la loro scomparsa è un prezzo accettabile per continuare a mantenere il nostro modello di sviluppo? Quale può essere infine il futuro per l’uomo in un mondo sempre più snaturato? Si tratta di domande importanti e che meriterebbero risposte concrete, soprattutto visto il crescente emergere di nuove zoonosi, compresa quella che ha causato l’attuale pandemia.

Meno ironico e più riflessivo di altri libri scritti da Tesson, La Pantera Delle Nevi è un volume che difficilmente lascia indifferenti. Personalmente l’ho apprezzato molto perchè, nonostante la mole di considerazioni, rimane un testo tutto sommato agile, in grado di offrire uno spaccato interessante del lavoro del fotografo naturalista e di condurre il lettore in luoghi ai quali non avrà mai accesso, descrivendoli con rara intensità.

Letture del mese – Febbraio ’21 (Osvaldo Guerrieri – La Diga Sull’Oceano)

La Grande Guerra, che nel 1917 venne definita non a torto “inutile strage” da Benedetto XV, lasciò pesanti e profonde cicatrici in Europa. Non solo fisiche, come le cime dolomitiche sfregiate dalla guerra di mina, i campi delle Fiandre attraversati dall’intrico delle trincee o il terreno perpetuamente avvelenato di Verdun, ma anche e soprattutto psicologiche. Per milioni di europei – e non solo – il conflitto e le sue conseguenze furono un dramma epocale, un vero e proprio trauma, che nessuno avrebbe dovuto vivere nuovamente. Questo è lo Zeitgeist delle vicende narrate nel libro di questo mese.

 

OSVALDO  GUERRIERI – LA DIGA SULL’OCEANO

Herman Sörgel, oltre ad essere un architetto tedesco aderente al Bauhaus, è stato anche una di quelle figure in cui si imbatte piuttosto di frequente lungo il corso della Storia. Uomini e donne in cui il confine tra genio e follia diviene via via sempre più fumoso, individui capaci di vedere e pensare fuori dagli schemi, oltre gli schemi abituali: visionari, per essere concisi. Il trauma della guerra lo aveva convinto che solo la cooperazione internazionale tra le potenze europee avrebbe potuto far sì che il continente non sprofondasse nuovamente in un abisso di morte e distruzione. Certo, la neonata Società delle Nazioni sembrava promettente, ma agli occhi di Sörgel si rendeva necessario qualcosa che andasse oltre le belle parole e le dichiarazioni di intenti.

È così che nacque il progetto di Atlantropa, un immenso sforzo collettivo che alterando l’aspetto del continente avrebbe garantito pace e prosperità per le generazioni future. L’idea di base era grandiosamente semplice: costruendo tre enormi dighe – una presso lo stretto di Gibilterra, una sui Dardanelli e una tra Sicilia e Tunisia – sarebbe stato possibile abbassare il livello del Mediterraneo di circa duecento metri ottenendo nuove terre da coltivare e abitare; inoltre, dotando gli sbarramenti di turbine idroelettriche, sarebbe stato possibile soddisfare la fame di elettricità di tutta Europa. Al tempo stesso una serie di invasi in Africa, all’epoca colonizzata dalle potenze europee, avrebbe permesso la costruzione di opere di canalizzazione in grado di rendere nuovamente fertili ampie aree del Sahara.

Il progetto venne accolto con entusiasmo dai contemporanei, sebbene con qualche riserva circa i costi di realizzazione e la ripartizione degli stessi, ma anche con aperta ostilità da parte degli stati rivieraschi, con in testa l’Italia fascista. Proprio la marea montante dei nazionalismi e dei fascisti pose fine al sogno di Atlantropa: i nazisti, saliti al potere nel 1933, non erano particolarmente interessati alla cooperazione internazionale e tramite la Gestapo imposero a Sörgel il blocco di ogni attività di ricerca, sequestrando tutta la documentazione. Nonostante un rinnovato interesse da parte dell’amministrazione americana agli inizi del secondo dopoguerra, il progetto non sopravvisse alla morte del suo ideatore, venendo definitivamente cestinato tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta.

Osvaldo Guerrieri (1944), oltre ad essere giornalista e critico teatrale sulle pagine de La Stampa, è anche romanziere prolifico. La Diga sull’Oceano è la sua ultima fatica ed ha il pregio di unire l’accuratezza delle opere specialistiche alla leggerezza del romanzo. Ne risulta una vera e propria docufiction cartacea di agile lettura, in grado di catturare il lettore e di condurlo con passo sicuro attraverso i tre decenni in cui si dipana la vicenda di Atlantropa: se in primo piano la scena è occupata dall’architetto Sörgel, sullo sfondo è impossibile non notare il progressivo sprofondare di Monaco di Baviera – e per esteso dell’intera Europa – nell’abisso del nazionalsocialismo da cui riuscirà sì a riemergere, ma ridotta in macerie, dopo un altro dramma.

Sebbene restio nell’esprimere un giudizio netto sulla figura di Sörgel, l’autore non è altrettanto reticente nel bocciare completamente il suo progetto più famoso. Se è vero che un secolo fa le nostre conoscenze sulla Terra erano molto più limitate e che il concetto di “impatto ambientale” era lungi dall’essere teorizzato, ora sappiamo che Atlantropa avrebbe avuto conseguenze catastrofiche, tali da superare ogni suo potenziale beneficio, se realizzato. Riguardo a me, non posso fare a meno di pensare a quanto siamo stati vicini a replicare, su scala infinitamente più vasta, la tragica fine dell’Aral. Per quanto ci piaccia giocare ad essere Dio e a plasmare il pianeta a nostro piacimento, non dovremmo scordare che, in termini di conoscenza, siamo ancora una specie di infanti e in quanto tali dovremmo agire con più giudizio. Tuttavia sono soltanto un umile blogger part-time e quindi mi limito a consigliarvi la lettura senza ulteriori divagazioni.

Letture del mese – Gennaio ’21 (Winfried Georg Sebald – Gli Anelli Di Saturno)

Inauguro l’anno letterario con un libro che mi è stato caldamente consigliato l’autunno scorso da Void – se vi piace la musica “estrema” vi lascio qui il link alla pagina Bandcamp del suo progetto Feed Them Death – e che ho colpevolmente letto soltanto durante la pausa natalizia. Forse però è stato meglio così, dato che ho potuto dedicare a questo titolo la giusta attenzione che merita.

 

WINFRIED GEORG SEBALD – GLI ANELLI DI SATURNO

Winfried Georg Sebald (1944-2001) è un autore che, insieme alle sue opere, sembra quasi provare gusto nel rifuggire da quel rigido sistema di categorie attraverso il quale l’uomo cerca, sin dai tempi di Aristotele, di incasellare l’esistente. Nativo della Svevia bavarese e trasferitosi in Inghilterra dapprima come lettore e poi come docente della East Anglia University, l’autore ha fatto di una singolare commistione tra narrativa di viaggio e saggio storico-letterario la sua cifra stilistica. Centrale nei suoi scritti è il ruolo della memoria, sia essa individuale o collettiva.

Gli Anelli Di Saturno rientra a pieno titolo in questa descrizione. Il sottotitolo recita “Un pellegrinaggio in Inghilterra” ed è proprio una peregrinazione attraverso il Suffolk, in massima parte spostandosi a piedi, a fare da sfondo allo scritto di Sebald. In ognuna delle dieci tappe di questo cammino, una per ciascun capitolo in cui è suddiviso il volume, l’autore riesce, partendo da un piccolo particolare del presente, a costruire ampie divagazioni a ritroso nello spazio e nel tempo: dalla semplice vista di alcuni pescatori sulla spiaggia, ad esempio, egli è in grado di risalire fino ai propri ricordi d’infanzia per poi giungere, inanellando un aneddoto all’altro, fino a Jorge Borges e al suo Tlön, Uqbar, Orbis Tertius.

L’essere parte di uno stesso percorso sembra essere l’unico legame tra una tappa e l’altra. Ad una lettura meno superficiale, però, è possibile scovare e seguire un altro filo rosso che le unisce. Gli Anelli Di Saturno, infatti, è un pellegrinaggio nel mondo della decadenza, della disgregazione e dell’abbandono. Una moderna via crucis le cui stazioni sono rappresentate da fiorenti centri balneari ormai spopolati, ricche città mercantili ormai scomparse tra i flutti del mare del Nord, basi militari abbandonate oppure maestose residenze di campagna di una nobiltà inglese ormai decaduta e immiserita. Sullo sfondo, poi, la sete di distruzione dell’essere umano su altri esseri umani e sull’ambiente circostante, dal cuore di tenebra conradiano nelle foreste del Congo alla sfrenata ossessione per il potere di una imperatrice cinese, passando per Bergen-Belsen e lo sterminio industriale.

Gli Anelli Di Saturno è una lettura particolare che necessita di una adeguata dose di attenzione. Non tanto per il lessico che di per sé risulta accessibile, quanto piuttosto per lo stile dell’autore, contraddistinto da periodi piuttosto lunghi – mai come quelli di Saramago a dire il vero – che, uniti al fiume di rimandi e riferimenti, possono disorientare e smarrire il lettore. Potrebbe essere un’esperienza interessante provare a leggerlo in lingua originale: a Sebald piaceva farsi beffe della grammatica tedesca piazzando i verbi qua e là nel testo anziché al loro posto.

Gli Anelli Di Saturno è un libro che sembra essere un manifesto moderno al sic transit gloria mundi (così passa la gloria del mondo), un monito alla caducità delle cose in questa epoca proiettata al futuro e sempre meno interessata al reame della memoria e di ciò che è già stato. Una delle letture migliori del 2020, che mi ha tenuto incollato dalla prima all’ultima pagina.

 

Letture del mese – Dicembre ’20 (Murakami Haruki – Abbandonare Un Gatto)

È davvero una strana sensazione quella di concludere il 2020, un anno orribile sotto quasi tutti i punti di vista tranne quello dell’attività di scrittura, parlando dell’ultimo lavoro della penna più famosa della letteratura giapponese contemporanea e non di qualche autore oscuro pubblicato da un altrettanto oscuro editore indipendente. Eppure scrivendo di un libro di memorie, è difficile non pensare a come ricorderemo questi dodici mesi tra venti o trenta primavere, per cui forse è giusto concludere così, in bellezza.

 

MURAKAMI HARUKI – ABBANDONARE UN GATTO

Che lo si apprezzi o meno, Murakami Haruki (1948) è un autore che non necessita presentazioni. Lo conosciamo per i suoi romanzi dalle atmosfere oniriche, in cui il piano della realtà e quello del soprannaturale si sovrappongono toccandosi e rendendo difficile distinguere l’uno dall’altro; oppure per il suo lavoro di saggista e giornalista, come in Underground, opera incentrata sull’attentato del 20 marzo 1995 a Tokyo, quando gli adepti della setta Aum Shinrikyō rilasciarono del gas nervino nei tunnel della metropolitana, uccidendo tredici persone ed intossicandone svariate migliaia.

Quello di Abbandonare Un Gatto è un Murakami ancora diverso, molto più intimo e in grado di mettersi a nudo davanti ai propri lettori. Partendo da un ricordo di infanzia, come suggerisce il titolo l’abbandono di un gatto su una spiaggia (spoiler, prima di indignarsi come il sottoscritto: al gatto non è successo nulla), l’autore riflette sul proprio rapporto con il padre e sul concetto stesso di memoria, aprendosi senza reticenze.

Scopriamo così che il padre di Murakami era un insegnante e compositore di haiku, oltre che un buddhista devoto. Profondamente segnato dall’orrore della guerra, pregava ogni mattina davanti all’altare domestico per le anime dei caduti, fossero essi giapponesi o cinesi. Ed è proprio sulla guerra che Murakami sembra volersi soffermare. Una guerra orribile quella tra Cina e Giappone, in cui i nipponici si macchiarono di crimini inenarrabili, in cui l’episodio più famoso – e per assurdo forse nemmeno il più orribile – fu il massacro di Nanchino: quando l’esercito imperiale occupò la capitale cinese, si abbandonò ad un’orgia sfrenata di sangue e violenza accanendosi sui civili inermi. L’autore ne parla senza ritrosia e, pur essendo lontani dai tempi in cui Ienaga veniva censurato dalle istituzioni e minacciato di morte dagli ultranazionalisti, si tratta di una presa di posizione tutt’altro che scontata.

Con le sue settanta pagine scarse, diverse delle quali occupate dalle belle illustrazioni di Emiliano Ponzi, Abbandonare Un Gatto è un libretto agile che può essere letto in un paio d’ore, ma che al tempo stesso può far riflettere il lettore sul concetto stesso di memoria e sul rapporto che abbiamo con essa. Un Murakami inedito, intimo ed incredibilmente umano, quasi fragile con il suo carico di rimpianti per le tante, troppe questioni rimaste in sospeso e per le occasioni perdute che non potranno mai più essere recuperate.

 

 

Letture del mese – Novembre ’20 (Maurizio Ferrandi – Il Nazionalista)

Per buona parte degli italiani, l’Alto Adige – o Südtirol, Provincia Autonoma di Bolzano, vattelapesca – appare quasi come una specie di landa mitologica alle estreme propaggini settentrionali della penisola. Se ne parla poco e quando ciò accade, o si tratta di cronaca nera oppure dell’ennesima riproposizione di una narrazione parziale, distorta se non palesemente errata; cosa che, come è facile immaginare, non aiuta affatto a dissipare l’alone di “mistero” che avvolge questa terra, in cui sono nato e in cui al momento vivo. Dal punto di vista della conoscenza della storia locale la situazione è, se possibile, ancora peggiore. Il libro di cui parlerò oggi si occupa proprio di questo, andando ad indagare una delle figure più divisive della recente storia altoatesina.

 

MAURIZIO FERRANDI – IL NAZIONALISTA

La storia recente della provincia di Bolzano, soprattutto quella relativa al Novecento, è piuttosto travagliata, con i suoi traumi e con le sue ferite ancora fresche che non si sono ancora del tutto cicatrizzate. Il processo di guarigione e di metabolizzazione non è certo aiutato dall’approccio con cui essa viene affrontata: accade più spesso, infatti, che il secolo appena trascorso sia teatro di aspra lotta politica piuttosto che argomento di studio in ambito storico. Addirittura anche in esso è talvolta difficile sfuggire alla divisione manichea tra buoni e cattivi, tra vittime e carnefici, tra noi e loro che continua a caratterizzare, sebbene in misura sempre minore, il rapporto tra i gruppi linguistici che abitano questo fazzoletto tra le Alpi. Pertanto, ogni opera storica o divulgativa che dimostra di rifuggire da questa tendenza è accolta dal sottoscritto come una sorta di benedizione.

È esattamente in questo modo che ho affrontato la pubblicazione de “Il Nazionalista” da parte dell’editore meranese Alphabeta. Si tratta di una nuova edizione, ampliata e riveduta, de “Ettore Tolomei. L’uomo che inventò l’Alto Adige“, volume uscito nel lontano 1986 per un piccolo editore di Trento (Publilux) e attualmente pressocchè introvabile se non in biblioteca. All’epoca della sua messa in commercio, il libro fu accolto con una discreta sorpresa. L’autore Maurizio Ferrandi (1954), giornalista, divulgatore storico e profondo conoscitore delle vicende altoatesine alle quali ha dedicato buona parte delle proprie fatiche letterarie, fu il primo madrelingua italiano a scavalcare il fossato dei reciproci scambi di accuse ed autoassolvimenti tra italofoni e germanofoni e ad affrontare in modo critico la vita e l’opera di Ettore Tolomei, una delle figure più controverse del Novecento altoatesino.

Una vita, quella di Tolomei (1865-1952), legata a doppio filo con la provincia di Bolzano, tanto che fu egli stesso a coniare il termine Alto Adige attualmente in uso, prendendo in prestito il nome di un dipartimento di epoca napoleonica che comprendeva i dintorni di Bolzano e la Bassa Atesina. Dapprima irredentista e in seguito propugnatore di uno sciovinismo così intransigente da risultare addirittura quasi indigesto persino per il regime fascista, il geografo roveretano consacrò la sua intera esistenza a dimostrare l’italianità della sua creatura, compresa tra il Brennero, che egli considerava come il confine naturale della Nazione (sic!) italiana, e la chiusa di Salorno, dove corre l’isoglossa che segna il limite meridionale dell’area germanofona. Dalle pagine della sua rivista, chiamata non a caso “Archivio per l’Alto Adige”, Tolomei lanciava, con uno zelo degno di un crociato, invettive polemiche chiedendo a gran voce l’italianizzazione del territorio, da effettuare anche attraverso la sostituzione dei toponimi e dei cognomi tedeschi con altrettante traduzioni in italiano. Misure che furono ampiamente adottate durante il Ventennio e che, nel caso della toponomastica, permangono a tutt’oggi, con uno strascico di polemiche che viene riacceso a comando da chi sulla contrapposizione tra gruppi linguistici ha costruito redditizie carriere politiche.

Quello di Ferrandi è un lavoro rigoroso, frutto dell’attenta analisi del lascito tolomeiano – l’Archivio, le Memorie, i carteggi – e anche della sua eredità, incarnata dal “caso” delle carte scomparse dopo l’8 settembre 1943 e dalla figura di Carlo Battisti, che di Tolomei fu dapprima collaboratore e poi erede ideale ed intellettuale. Non solo, “Il Nazionalista” sembra mettere a nudo le aberrazioni del nazionalismo esasperato, la sua intrinseca dimensione antiumanista, e ciò risulta incredibilmente attuale in un’epoca in cui gli oscuri echi del Blut und Boden sembrano riemergere dalle brume del passato. Più di una biografia, più di un testo di storia altoatesina, “Il Nazionalista” è un libro che tutti, almeno qui in provincia, dovrebbero provare a leggere.

 

 

 

Letture del mese – Ottobre ’20 (Jared Diamond – Armi, Acciaio E Malattie)

Spesso ci troviamo di fronte domande, in apparenza relativamente semplici, che però richiedono risposte complesse. A volte sono così complesse che necessitano di essere scritte in un libro per poter essere articolate a dovere. Un esempio può essere “Apologia del mestiere di storico” di Marc Bloch, scritto per rispondere al figlio che gli chiedeva cosa fosse la Storia, mentre un altro può essere il libro di cui parleremo oggi.

JARED DIAMOND – ARMI, ACCIAIO E MALATTIE

Metto le mani avanti dicendolo fin da subito: “Armi, Acciaio e Malattie” è uno dei libri che più ha influito sulla mia crescita individuale, tanto da spingermi a tuffarmi nel mondo dell’antropologia. È stato un bel tentativo, ma riuscire a coniugare studio e lavoro full time si è rivelato essere ben oltre le mie capacità. Ciononostante la passione per l’argomento è rimasta ed il libro in questione continua ad essere uno dei miei preferiti. Ma tornando alle domande semplici dalle risposte complesse, quale è stata la domanda che ha spinto l’autore a scrivere questo saggio?

È il 1972 e, durante una spedizione ornitologica in Papua Nuova Guinea, un giovane locale di nome Yali pone all’americano Jared Diamond (1937), fisiologo, geografo e non ultimo ornitologo, la seguente domanda: «Come mai voi bianchi avete tutto questo cargo e lo portate qui in Nuova Guinea, mentre noi neri ne abbiamo così poco?». Prima di vedere la risposta di Diamond, che ha necessitato qualcosa come venticinque anni per essere elaborata in modo soddisfacente, apro solo una piccola parentesi per spiegare cosa si intende per “cargo” in quell’angolo dell’Oceano Pacifico. Con questo termine si indicano collettivamente tutti quei prodotti industriali – tecnologici o meno – che giungono in Nuova Guinea attraverso le navi da carico, dette appunto cargo ship in inglese. Il concetto di “cargo” ha dato origine a tutto un corpus di credenze di stampo religioso, variamente diffuse tra Papuasia, Melanesia e Micronesia, dette “culto del cargo”. L’argomento è estremamente interessante e mi riservo di parlarne in modo più approfondito in futuro.

Tornando alla domanda di Yali, la risposta più semplice consiste nel ridurre tutto al primato tecnologico europeo che, negli ultimi cinquecento anni, si è fatto via via sempre crescente, sebbene si sia ridimensionato enormemente con la nascita dell’informatica e la conseguente digitalizzazione. Si tratta, tuttavia, di una ipersemplificazione del tutto insoddisfacente, dato che non spiega il perchè di tale primato. Esso nasce forse da qualche fattore biologico che stabilisce una superiorità innata dell’uomo bianco rispetto ad altre popolazioni? Questa idea, per altro già ampiamente smentita dalla genetica, viene rifiutata in toto dallo stesso Diamond sin dalle premesse iniziali del volume. Per l’autore, infatti, il motivo per cui sono stati gli europei a colonizzare l’America e non il contrario, risiede in alcune significative differenze ambientali che hanno precluso alcune strade a diverse popolazioni, lasciandole invece aperte ad altre, portando quindi a destini radicalmente diversi.

Si tratta in apparenza di una argomentazione piuttosto debole, che offre il fianco ad essere bollata come determinismo ambientale e lo studioso americano ne è pienamente consapevole. Ecco perchè Diamond affronta la questione con un approccio pluridisciplinare – Bloch approverebbe – attingendo da materie apparentemente lontane tra loro come la storia, la biologia, l’antropologia, l’ecologia, l’epidemiologia e molte altre, forte anche del suo percorso di studio che lo ha portato a specializzarsi in diversi campi. Il risultato è un ottimo volume di nemmeno quattrocento pagine, suddiviso in quattro macrosezioni.

La prima funge da introduzione, affrontando la storia del genere umano a partire dalla sua diffusione per il globo dopo la sua uscita dall’Africa fino a giungere all’epoca della colonizzazione europea, descrivendo la nascita e l’evoluzione delle varie società umane. La seconda parte, invece, affronta una delle questioni cruciali dell’intero volume, ossia la nascita dell’agricoltura – e con essa della domesticazione degli animali, là dove questa fu possibile – che avvenne in maniera indipendente in più aree del pianeta, fornendo alle società di agricoltori un vantaggio enorme, in termini numerici e di risorse alimentari, sulle popolazioni di cacciatori-raccoglitori. La terza sezione parla della conseguenza della rivoluzione agricola, ossia la nascita delle prime società complesse. L’alta densità abitativa delle prime città e la promiscuità con il bestiame furono alla base del passaggio di agenti patogeni tra questo e gli esseri umani, portando all’insorgere di nuove malattie – è esattamente quello che succede ancora oggi con i virus influenzali, con la MERS e soprattutto con il Sars-CoV2 – mentre la necessità di organizzare un vasto numero di individui portò all’invenzione della scrittura e quindi ad uno scambio sempre più efficace di conoscenze, con ampie ricadute in ambito tecnologico. La quarta parte, infine, tira le somme di quanto scritto in precedenza applicando il tutto a casi concreti come l’Oceania oppure all’Africa subsahariana o ancora alla Cina e al Sudest asiatico.

In apparenza può sembrare un calderone di concetti – e lo è in parte – ma l’autore ha il pregio di riuscire a condensarli ed esporli  in modo semplice e lineare in meno di quattrocento pagine. Non è una cosa che è in grado di fare chiunque, dimostrando ancora una volta quanto sia difficile riuscire a fare della buona divulgazione, rendendo accessibile a chiunque attraverso un linguaggio semplice, ma al tempo stesso rigoroso, concetti che altrimenti resterebbero confinati in saggi specialistici o paper scientifici. Ammetto di non essere imparziale, ma a mio avviso si tratta di un libro che andrebbe letto almeno una volta nel corso della propria vita.

Letture del mese – Agosto ’20 ( Markijan Kamyš – Una Passeggiata Nella Zona)

Il disastro di Čornobyl’ – ho deciso di usare il toponimo ucraino, conformemente al libro di cui parlerò oggi – è tornato improvvisamente sotto i riflettori del grande pubblico dopo la realizzazione, da parte dell’emittente americana HBO, dell’omonima miniserie.

L’esplosione di un reattore nucleare sovietico il 26 aprile 1986, ha messo l’umanità di fronte al più grave incidente nucleare mai avvenuto nella Storia. Per giorni una quantità impressionante di radionuclidi è stata immessa nell’atmosfera, con conseguenze che si ripercuotono ancora oggi sulle popolazioni maggiormente colpite, soprattutto in Bielorussia e Ucraina. Oltre ad una impennata nei casi di tumore e nelle malformazioni nei nascituri, l’eredità più palpabile del disastro è la Zona di alienazione, un’area in cui è impedito, almeno in teoria, risiedere ed il cui accesso è fortemente limitato: la Zona, appunto.

 

MARKIJAN KAMYŠ – UNA PASSEGGIATA NELLA ZONA

Parto col dire che dietro l’acquisto di questo libro si nasconde un grande equivoco.  Quando l’ho trovato nella mia libreria di fiducia, ho deciso di acquistarlo a scatola chiusa, convinto che si trattasse di una sorta di resoconto di viaggio nella Zona. Solo una volta arrivato a casa mi sono accorto, mentre esaminavo gli acquisti della settimana, che si trattava di un romanzo. Poco male, perché fin da subito mi sono reso conto che Una passeggiata nella Zona non è un romanzo come gli altri.

Markijan Kamyš (1988) è uno dei più famosi esponenti della nuova generazione di scrittori ucraini ed il merito è proprio di questo libro e del successo che ha riscosso in patria e all’estero. È figlio di un liquidatore, uno delle decine di migliaia di bio-robot inviati da ogni angolo dell’Unione Sovietica a Čornobyl’ per bonificare le aree contaminate dall’esplosione del reattore 4 della centrale V.I. Lenin, e forse proprio a causa di ciò ha sviluppato un rapporto quasi ossessivo con la Zona. O meglio, di dipendenza, dato che per sua stessa ammissione sente la necessità di tornarci periodicamente come viaggiatore clandestino, come “stalker“.

Sin dalle prime pagine si capisce che protagonista del libro altro non è che la Zona stessa. Non quella ad uso e consumo dei “turisti dell’estremo”, con i selfie di rito davanti alla ruota panoramica del parco giochi di Pripjat’ oppure con le composizioni artefatte di bambine e maschere antigas che infestano i sotterranei polverosi dei palazzi. Non è nemmeno quella dominata dalle torri arrugginite di Duga-3, l’enorme antenna radar sovietica che, con i suoi centocinquanta metri di altezza per novecento di lunghezza, sembra essere una tappa obbligata per i “turisti” più avventurosi.

No, la Zona descritta in soggettiva da Kamyš è punteggiata di villaggi abbandonati da più di trent’anni, di case diroccate dove stordirsi di vodka davanti ad un fuoco alimentato con gli infissi delle finestre e con ciò che resta del mobilio.  È la Zona dei derelitti, degli sciacalli e dei metallisti che raccolgono rottami da rivendere per un pugno di grivne ucraine o rubli bielorussi. La Zona di chi vi penetra illegalmente strisciando sotto il filo spinato per evitare i checkpoint e poi cammina per chilometri nel fitto dei boschi per evitare le pattuglie di polizia e le relative sanzioni: decisamente non un posto per ricchi ragazzi di città “occidentali” che per provare emozioni “forti” sono disposti a sborsare denaro per acquistare esperienze posticce da speculatori che monetizzano le tragedie.

La scrittura di Markijan è cruda, essenziale, priva di inutili formalismi ed estetismi. In qualche modo sembra sospesa in bilico tra Irvin Welsh e Chuck Palahniuk, tanto per la sua immediatezza quanto per la sensazione di disperato nichilismo che trasmette. Rimane una questione di fondo, che mi pongo sempre davanti ad un volume di questo tipo: quanto c’è di vero nella narrazione?

Sicuramente c’è molto di romanzato in questo libro, ma indubbiamente c’è altrettanto di vero: le diverse “incursioni” dell’autore a Pripjat’ e dintorni sono puntualmente documentate sul suo sito personale. Tra le righe, inoltre, sembra trasparire una certa urgenza, da parte dello scrivente, di fissare su carta un mondo in continuo ed inesorabile deterioramento. D’altronde cosa resterà della Zona dopo che l’ultimo pezzo di legno sarà stato bruciato, dopo che l’ultima casa abbandonata sarà crollata, dopo che l’ultimo affresco sovietico sarà stato mangiato dall’umidità?

Sebbene si sia trattato di un acquisto quasi involontario, Una passeggiata nella Zona è riuscito, dopo una iniziale sensazione di spaiamento, a catturarmi completamente. Ben scritto, disperato e nichilista è un libro che consiglio a tutti quelli che vogliono vedere la vera Čornobyl, quella che in Occidente arriva di rado.

Letture del mese – Luglio ’20 (Christopher R. Browning – Uomini comuni)

Niente libri da spiaggia in questo luglio (post)pandemico, bensì un ritorno alle letture impegnate con un saggio storico di spessore sull’Olocausto a firma di uno dei maggiori studiosi dell’argomento.

 

CHRISTOPHER R. BROWNING – UOMINI COMUNI

Christopher R. Browning (1944) è stato Professore Emerito di Storia presso la University of North Carolina, prima di diventare Professore ospite alla University of Washington a Seattle. Ha all’attivo una vita di ricerca sull’Olocausto ed è probabilmente uno degli studiosi più titolati ad esprimersi sull’argomento, come si evince anche dal suo ruolo di consulente in diversi processi contro autori negazionisti come Zundel o Irving.

Il 13 luglio 1942, nel villaggio polacco di Józefów  vennero rastrellati circa 1800 ebrei. Poche centinaia, considerati abili al lavoro, furono deportati per essere introdotti nel sistema di sfruttamento industriale nazista come schiavi a basso costo. I restanti, in prevalenza anziani, donne e bambini, furono condotti nel vicino bosco e qui uccisi a sangue freddo.

I responsabili furono gli uomini del Battaglione 101 della riserva della Ordunungspolizei tedesca. Riservisti di mezza età, di estrazione prevalentemente proletaria, non particolarmente politicizzati. Uomini dalle vite normali, reclutati per lo più nella zona di Amburgo, lontani anni luce dallo stereotipo dell’oltreuomo ariano, guerriero politico dedito alla difesa della razza, incarnato dall’uomo delle SS. Si tratta, come suggerisce il titolo, di uomini comuni a tutti gli effetti.

L’autore basa l’intero lavoro sul materiale giudiziario raccolto dalla procura di Amburgo in concomitanza del procedimento penale contro il Battaglione, svoltosi tra il 1962 ed il 1972. Si tratta in buona parte delle deposizioni di 210 uomini, su un reparto che a pieni ranghi non raggiungeva i 500 effettivi, ancora vivi ai tempi delle indagini. Ciò risulta particolarmente interessante, perché offre al lettore uno spaccato interessante del mestiere di storico e di uno dei suoi aspetti più importanti, ossia l’approccio alle fonti. Una volta trovato un documento e/o una testimonianza, infatti, è necessario valutarla criticamente per soppesarne il valore ed evidenziare eventuali criticità.

In questo caso particolare ci troviamo di fronte ad un tipo di fonte piuttosto particolare. Se da un lato abbiamo l’autorevolezza di un soggetto come la magistratura tedesca, dall’altro abbiamo una distanza temporale di circa venti anni tra gli eventi e la deposizione: un lasso di tempo così lungo può alterare i ricordi, senza dimenticare che trattandosi di un processo molti degli imputati possono aver mentito o finto di non ricordare diversi avvenimenti nel tentativo di alleggerire la propria posizione. In casi come questo allo storico non resta che vagliare le dichiarazioni una ad una, mettendole a confronto ed evidenziando tanto i punti comuni quanto le differenze per delineare un quadro degli eventi il più possibile attendibile. Browning in questo modo screma le testimonianze arrivando ad un nucleo di 125 testimoni che dichiara attendibili, tutti indicati con pseudonimi, salvo gli ufficiali in comando, in ossequio alla normativa tedesca sull’utilizzo dei dati personali.

Józefów non fu un caso isolato. Il Battaglione 101 ed in generale l’Ordnungspolizei furono ingranaggi della gigantesca macchina di morte organizzata dal regime nazista e ripercorrere le azioni criminose del reparto dà modo di seguire passo dopo passo le varie fasi della Shoah nel distretto di Lublino. Le fucilazioni di massa del cosiddetto “olocausto delle pallottole” cedettero il posto allo sterminio industriale nei campi di Treblinka, Sobibor e Belzec sotto la supervisione di quell’Odilo Globocnik che nell’autunno del 1943 diventò comandante delle SS a Trieste dove istituì il famigerato campo alla Risiera di San Sabba.

Sullo sfondo i singoli militari e le loro molteplici reazioni all’orrore. Una manciata di uomini, facendo leva sulla propria coscienza e sulla propria fede religiosa, rifiutò pubblicamente e a più riprese di prendere parte alle stragi, mentre altri elaborarono diversi escamotage per evitare di sporcarsi le mani di sangue senza esporsi. Ci fu anche chi, come il tenente Gnade, sviluppò un piacere sadico nell’umiliare e derubare le vittime, mentre il capitano Wohlauf arrivò addirittura a farsi accompagnare dalla moglie durante l’evacuazione – leggasi eliminazione – di un ghetto. La maggior parte degli uomini, però, si limitò ad obbedire ciecamente agli ordini.

È proprio questa “zona grigia” che suscita l’interesse dell’autore, che nelle sezioni finali del volume tenta di spiegare perché degli uomini di mezza età, non politicizzati, si siano trasformati in implacabili dispensatori di morte. Nonostante la lunga dissertazione, che tira in ballo anche esperimenti di psicologia sociale come quello di Milgram e studi sui reduci della guerra del Vietnam, lo stesso Browning ammette che non è possibile trovare una risposta univoca. E questo è disturbante, molto.

Uomini Comuni” è un lavoro serio e rigoroso, un testo che consiglio a tutti coloro che sono interessati ad approfondire la tematica dell’Olocausto senza indugiare in particolari granguignoleschi. Al tempo stesso, però, è un libro che lascia un vago senso di inquietudine, perchè lascia il lettore con il più inquietante dei quesiti: se i carnefici del battaglione 101 erano davvero uomini comuni, noi come ci saremmo comportati nella medesima situazione?

Letture del mese – Giugno ’20 (Francesco Dei – Storia dei Samurai)

Quando mi trovo di fronte ad un volume che parla genericamente di “samurai“, tendo sempre ad essere un po’ sospettoso sulla sua qualità. La figura del bushi, il guerriero, è di fatto uno degli aspetti più mitizzati e mal compresi della cultura e della storia giapponese in Occidente. Lo stesso vale per i concetti ad essa collegati, primo su tutti il bushido, ma non solo. Difficile, quindi, riuscire a trovare un testo affidabile sull’argomento, soprattutto in lingua italiana. Difficile, ma non impossibile, come dimostra il libro di cui mi accingo a parlare.

 

FRANCESCO DEI – STORIA DEI SAMURAI 

Francesco Dei (1975) è laureato in Scienze Politiche con specializzazioni in storia e cultura dell’Estremo Oriente e in storia e cultura della Russia e dell’Europa slava (qui il suo sito personale). Come si può facilmente intuire non è proprio l’ultimo arrivato e questo libro è prova della sua competenza in materia.

Storia dei Samurai” è una nuova edizione, riveduta e ampliata, della tesi di laurea dell’autore, già pubblicata nel 2011 con il titolo “Il sole e il ciliegio“. In questa nuova veste editoriale sono state approfondite diverse campagne militari, con i relativi fatti d’arme in precedenza soltanto accennati, e sono state inserite diverse mappe che permettono di comprendere meglio i movimenti delle truppe e la suddivisione territoriale del Giappone nelle varie fasi del periodo preso in esame.

Il volume, infatti, non prende in esame l’intero periodo degli Stati combattenti (Sengoku Jidai), ma si concentra sul periodo che va dal 1550 circa, negli anni immediatamente precedenti all’ascesa inarrestabile di Oda Nobunaga, al 1615, anno della caduta del castello di Osaka, atto che sancì di fatto la piena riunificazione del Giappone sotto lo stendardo del clan Tokugawa.

Gli eventi precedenti, come la nascita ed il declino dello shogunato Ashikaga, ma soprattutto le condizioni che portarono alla nascita e all’evoluzione della classe dei samurai, vengono trattati a parte, in un interessante ed esaustivo capitolo introduttivo. All’interno di esso si accenna anche al bushido, il codice di condotta – in realtà mai pienamente codificato – dei guerrieri, all’evoluzione degli armamenti e delle tattiche militari, come la professionalizzazione degli ashigaru o l’abbandono dell’arco a favore della lancia e della katana. La lettura di questo capitolo fornisce tutte le conoscenze necessarie alla comprensione delle pagine successive.

La figura principale intorno a cui si costruisce la narrazione del volume è quella di Tokugawa Ieyasu. Non potrebbe essere altrimenti – e lo ammetto a malincuore, perchè ho una passione smodata per quella canaglia di Nobunaga – dato che si tratta di colui che per primo riuscì a riunificare e pacificare il Giappone, donando al paese un assetto che rimarrà pressocchè invariato fino al XIX secolo. Ne seguiremo la scalata al potere, contraddistinta da un mix di abilità militare e genio politico, insieme alle vicissitudini delle altre figure che segnarono quell’epoca: non solo Oda Nobunaga e Toyotomi Hideyoshi, ma anche gli eterni rivali Takeda Shingen e Uesugi Kenshin, insieme a tante altre figure minori.

Storia dei Samurai” mi è piaciuto davvero molto. Sebbene qua e là sia presente qualche svista, come l’errata attribuzione a Saigo Takamori del titolo di daimyo, queste risultano ininfluenti nell’economia generale del testo. Gli eventi vengono narrati in modo agile e coinvolgente, mentre le mappe permettono di seguire nel dettaglio il movimento delle truppe durante le campagne militari e sui campi di battaglia, evitando al lettore di perdere il filo del discorso nel tentativo di ricostruire mentalmente gli stessi durante la lettura.

Tutto questo è corroborato da un apparato bibliografico di tutto rispetto.  A fianco degli ottimi volumi di Sadler e delle agili monografie di Turnbull edite dalla Osprey, figurano diversi testi editi esclusivamente in Giappone. Si tratta di un vero e proprio valore aggiunto, visto che si tratta di libri inaccessibili a chi non possiede una ottima conoscenza della lingua nipponica. Segnalo inoltre la presenza di diverse fotografie scattate dall’autore in occasione delle visite in alcuni dei luoghi descritti: da Nagashino al castello di Osaka, passando per la piana di Sekigahara.

Ricapitolando, consiglio il libro a tutti coloro che vogliono approfondire non solo il Sengoku Jidai, ma anche i concetti stessi di samurai e bushido, senza voler correre il rischio di annoiarsi o, peggio, perdere tempo dietro ad una accozzaglia di luoghi comuni raccolti senza alcuna cognizione di causa. “Storia dei Samurai” è uno dei migliori volumi in materia mai editi in Italia, se non il migliore, e di mio sono intenzionato a voler leggere anche gli altri libri dell’autore.

 

 

Letture del mese – Febbraio ’20 (Jan Brokken – Bagliori A San Pietroburgo)

San Pietroburgo è una città mitica, oltre ad essere uno dei luoghi più iconici del secolo scorso, basti pensare alla Rivoluzione del 1917 e all’assedio durante il secondo conflitto mondiale. Questo mese a raccontare la città sulla Neva ci pensa l’immenso Jan Brokken con un volume da leggere tutto in un fiato.

JAN BROKKEN – BAGLIORI A SAN PIETROBURGO

A detta di chi la ha visitata e, soprattutto, di chi la ha vissuta, San Pietroburgo è molto più di una città ricchissima di arte e cultura. Fondata dallo zar Pietro il Grande nel XVIII secolo per farne la sua capitale, la città sulla Neva è diventata in breve tempo l’ombelico di tutta la Russia, anzi, di tutte le Russie. Come una sorta di centro gravitazionale supermassiccio, ha attratto a sè uomini e donne di cultura, baciati dalle muse della poesia, della pittura, della scultura o della musica. Per non parlare delle intere generazioni di romanzieri che hanno vissuto nelle strade di “Piter”, il vezzeggiativo con cui i pietroburghesi chiamano la loro città.

Jan Brokken (1949) è uno scrittore, giornalista e instancabile viaggiatore nativo di Leida, nei Paesi Bassi. Dalla sua penna è nato anche l’ottimo “Anime Baltiche” – di cui ho parlato qui nel gennaio dello scorso anno – del quale “Bagliori a San Pietroburgo” potrebbe sembrare una sorta di prosecuzione ideale. D’altronde la città venne fondata proprio per affermare la presenza russa sul Baltico. In realtà il volume ha una genesi molto diversa.

Come racconta lo stesso autore, infatti, il volume è nato quasi incidentalmente durante la stesura del romanzo “Il giardino dei cosacchi“, che narra del rapporto nato tra Fëdor Dostoevskij ed il giovane barone baltico Alexander von Wrangel, nominato procuratore della città kazaka dove lo scrittore è in esilio. Per rendere più vivida e credibile la sua descrizione della città sulla Neva, Brokken vi soggiornò a lungo nel 2015. Un anno dopo “Bagliori a San Pietroburgo” era in stampa presso un editore di Amsterdam.

Brokken ci guida con passo sicuro attraverso le strade ed i palazzi della città che porta il nome del suo fondatore. Dopotutto vi era già stato quaranta anni prima, nel 1975, ai tempi dell’Unione Sovietica. La stessa città, ma due mondi radicalmente diversi: la Leningrado sovietica, ribattezzata così in onore di Vladimir Il’ic, e la San Pietroburgo contemporanea che reca l’impronta di un altro Vladimir, che qui nacque e mosse i primi passi in politica subito dopo il crollo dell’URSS, Vladimir Putin. Tra le pagine del volume non mancheranno i confronti tra le due.

Con la sua consueta abilità narrativa ed un bagaglio di aneddoti apparentemente infinito, Brokken ci introduce con incredibile delicatezza nelle case e nelle vite di varie personalità. Vite spesso difficili, come quella di Anna Achmatova, la grande signora della poesia di San Pietroburgo. È lei ad essere raffigurata in copertina, ritratta da Natan Al’tman in una tela dai chiari influssi cubisti. Anche Amedeo Modigliani la ritrasse più e più volte. La vicenda umana del poeta – lei stessa preferiva farsi definire con il vocabolo maschile – potrebbe essere come paradigma dell’intellettuale inviso al potere sovietico: il marito ed il figlio furono arrestati a più riprese durante le purghe staliniane, lei stessa fu vittima della censura e le sue opere rimasero all’indice anche dopo la sua morte. D’altronde, come ebbe a dire Mandel’stam riferendosi all’URSS: «Solo da noi hanno rispetto per la poesia, visto che uccidono in suo nome».

Oppure vite avventurose, come quella del conte Jusupov, colui che ordì il complotto contro Rasputin e che materialmente lo uccise. O ancora come quella del già citato Dostoevskij, che dopo l’esilio siberiano tornò a vivere a Piter dividendosi tra la creazione di capolavori letterari immortali e la malsana febbre per il gioco  che lo costrinse a vivere in miseria nonostante la fama.

Bagliori a San Pietroburgo” è un continuo intrecciarsi di vite, ciascuna delle quali meriterebbe almeno un libro a parte. Nonostante questo, l’autore riesce a condensarle in poche pagine, in brevi capitoli a sè stanti che possono essere letti in pausa pranzo, tornando da lavoro oppure prima di andare a dormire. Ognuno di essi è come una pillola di storia della cultura russa, un invito all’approfondimento rivolto al lettore. Di tedio nemmeno l’ombra, dato che Brokken riesce a tenere sempre viva l’attenzione grazie a numerosi aneddoti inseriti al momento giusto. Leggere questo libro sembra quasi come ascoltare il racconto di un nonno pendendo dalle sue labbra. Anche “Anime Baltiche” mi aveva rapito, spingendomi a pianificare un viaggio – per il momento rimasto solo sulla carta – nei luoghi descritti, ma il volume su “Piter” ha una marcia in più.

L’impressione che si ha è che la cultura russa debba moltissimo, se non (quasi) tutto, alla città fondata da Pietro il Grande e agli innumerevoli mugik che morirono per coronare il sogno del sovrano. Ecco, forse è anche a loro che bisognerebbe pensare ogni volta che si parla della Venezia del nord.