Letture: Jan Brokken – I Giusti

jan_brokken-i_giustiEsistono situazioni in cui l’acritica obbedienza si tramuta in muta complicità e quindi in peccato, mentre la disobbedienza diventa fonte di salvezza per se stessi e per gli altri. Una circostanza di questo tipo è stata vissuta praticamente in tutta Europa nel corso degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso. La macchina di sterminio nazista, infatti, potè lavorare con spaventosa efficienza grazie al lavoro di una moltitudine di ingranaggi deferenti e non per il fanatismo di pochi esaltati. Allo stesso modo migliaia di individui furono salvati grazie al coraggio di chi, incapace di zittire la voce della propria coscienza, decise di disobbedire o, al limite, di aggirare norme e codicilli mettendo in gioco la propria vita. Il libro di oggi, l’ultimo di questo 2022 piuttosto turbolento, racconta le gesta di due di loro: Jan Zwartendijk e Chiune Sugihara.

Jan Brokken (1949), giornalista e scrittore olandese, è una vecchia conoscenza per i lettori di questo blog: in passato ho infatti recensito i suoi Anime Baltiche (qui ancora nel vecchio e confusionario formato collettivo) e Bagliori A San Pietroburgo. Non è nemmeno la sua ultima fatica, perchè nel lasso di tempo intercorso tra l’uscita del volume e la sua lettura da parte mia, l’autore ha sfornato un altro libro, L’Anima Delle Città, volume che conto di recuperare quanto prima.

La nostra storia si svolge nel 1940. L’Europa è sprofondata da qualche mese nell’incubo della Seconda Guerra Mondiale, la Polonia è stata invasa e spartita tra Germania e Unione Sovietica, mentre l’Armata Rossa sta per prendere il controllo dei tre Paesi baltici in ossequio alle clausole segrete del patto Molotov-Ribbentrop. A Kaunas, all’epoca capitale lituana, regna una strana atmosfera fatta di incertezza e di attesa, mentre tra i rifugiati ebrei fuggiti dai territori invasi dai nazisti iniziano a diffondersi sinistre voci.

In questo clima tutt’altro che allegro, Jan Zwartendijk, già responsabile della filiale lituana della Philips, viene nominato console onorario del Regno dei Paesi Bassi. Tra le sue prerogative c’è quella di rilasciare visti ed è così che il nostro protagonista inizia a firmare lasciapassare, dapprima a conoscenti e poi, con l’aggravarsi della situazione, a qualsiasi rifugiato ebreo si presenti alla sua porta. I salvacondotti, però, non sono validi per l’Olanda occupata dai nazisti, bensì per la remota e all’epoca semisconosciuta isola di Curaçao. L’unico modo per raggiungerla è attraversare l’intera Unione Sovietica, approdare in Giappone e da qui imbarcarsi verso l’America. Entra così in gioco il console nipponico Sugihara, il quale continua a firmare visti di transito fino all’ultimo momento prima della sua partenza verso il prossimo incarico diplomatico. Le autorità sovietiche, dati i documenti in uscita e vista la disponibilità delle associazioni ebraiche internazionali di pagare le spese per ogni singolo profugo, in poco tempo danno il benestare. 

Ad oggi risulta difficile stabilire con certezza in quanti si siano salvati da morte quasi certa —la comunità ebraica di Kaunas venne spazzata via nel 1941 — grazie all’intervento dei due diplomatici, ma siamo nell’ordine di svariate migliaia. Nonostante ciò, al termine del conflitto i nostri protagonisti andarono incontro alle conseguenze delle loro azioni: Zwartendijk, che era solo console onorario, subì una dura lavata di capo anni dopo gli eventi, mentre Sugihara venne definitivamente allontanato dal servizio diplomatico nipponico. La loro colpa, secondo i rispettivi governi, fu quella di aver aggirato le regole, prendendosi troppe libertà nel rilascio dei lasciapassare. Poco male, nessuno dei due provò il minimo pentimento per quanto fatto.

Brokken, con la sua narrazione in grado di conquistare il lettore, racconta questa storia incredibile seguendo il sottile filo rosso che da Rotterdam, città di origine del nostro protagonista, conduce fino al Giappone e da qui a Shanghai: è nella metropoli cinese, infatti, che le autorità nipponiche spostarono i rifugiati ebrei rimasti bloccati a Kobe dopo l’entrata in guerra del Sol Levante. Qui vennero trattati relativamente bene e sicuramente meglio rispetto ai cittadini britannici —a tal proposito consiglio la lettura de L’Impero Del Sole di Ballard — o americani arrestati a partire dal dicembre 1941. I Giusti è un volume tanto coinvolgente quanto impegnativo sul piano emotivo ed è senza ombra di dubbio uno dei lavori migliori dell’autore olandese.

 

Letture: Murakami Haruki – Underground

murakami-undergroundQuando a suo tempo ho recensito Abbandonare Un Gatto, avevo parlato di un Murakami inedito e per certi versi posso dire lo stesso di Underground. Se nel primo volume l’autore si apriva al lettore mettendo a nudo il suo lato più intimo e personale, nel libro in oggetto abbandona la finzione onirica per affrontare di petto un incubo, questa volta terribilmente reale: l’attentato alla metropolitana di Tokyo.

Il mattino del 20 marzo 1995, alcuni seguaci della setta Aum Shinrikyō rilasciarono del sarin, un agente nervino piuttosto potente,  all’interno di diversi convogli della metropolitana. Diffondendosi all’interno delle stazioni gremite di pendolari, il gas uccise tredici persone e ne intossicò oltre seimila, molte delle quali hanno continuato ad avere gravi problemi di salute anche negli anni successivi. L’evento provocò un vero e proprio shock nell’opinione pubblica giapponese, già scossa dalla devastazione provocata dal terremoto di Kobe (17 gennaio dello stesso anno), non solo perchè si trattò del più grave episodio di violenza a partire dal 1945, ma anche perchè la risposta delle autorità e dei servizi di emergenza si dimostrò tardiva e del tutto inefficace.

Underground nasce quasi per caso, dopo che l’autore si è ritrovato tra le mani una rivista contenente la lettera scritta dalla moglie di un uomo che, a causa delle conseguenze dell’intossicazione da sarin, aveva perso il lavoro. Niente più che uno sfogo, ma sufficiente a turbare Murakami: quello descritto dalla donna era un caso isolato oppure no? E in generale cosa provavano le vittime? Covavano un desiderio di vendetta o preferivano dimenticare per tornare il prima possibile ad avere una vita normale? Per rispondere a queste domande, nel corso di tutto il 1996 l’autore ha incontrato ed intervistato vittime e parenti dei defunti. Impresa tutt’altro che facile, sia per il timore di possibile ritorsioni da parte degli adepti di Aum, sia per una certa ritrosia nel rinvangare gli eventi dolorosi che fa parte della cultura nipponica, oltre alle pressioni da parte dei datori di lavoro e delle famiglie: non deve quindi sorprendere se l’autore è dovuto ricorrere in più di una occasione a nomi di fantasia per tutelare gli intervistati.

Ne risulta un quadro incredibilmente sfaccettato —non potrebbe essere diversamente visto che si tratta di un affresco corale —capace di mostrare aspetti “profondi” della cultura e della società giapponese: il senso del dovere e del sacrificio dei dipendenti della metropolitana e una cultura del lavoro a dir poco tossica, con buona parte degli intervistati che si sono recati a lavoro nonostante evidenti sintomi di intossicazione.

Nella seconda parte del volume, in origine pubblicata nel 1997 sulle pagine della rivista Bungei Shunjū, Murakami si è proposto di indagare sulla natura del culto Aum, andando ad intervistare (ex) adepti dello stesso. Incalzando gli intervistati e mettendone in rilievo le contraddizioni, l’autore traccia un ritratto inclemente della setta. Un ambiente tossico, in cui manipolazione e abusi fisici e psicologici erano all’ordine del giorno al fine di piegare la volontà dei seguaci e uniformarla ai desideri del leader Shoko Asahara. Altrettanto impietoso, però, è anche il giudizio della società giapponese, del suo rigido inquadramento e della sua incapacità di gestire e tutelare tutti coloro che abbandonano, spesso a causa dell’eccessiva pressione sociale, la “retta via”. Persone che spesso finiscono per trovare conforto proprio nel mondo delle sette.

Underground non è una lettura semplice, anche perchè si tratta di un libro abbastanza voluminoso — cinquecento pagine circa — che ruota interamente intorno ad un singolo fatto. Rileggere più e più volte lo svolgimento di certe dinamiche, seppur attraverso punti di vista differenti, è stato abbastanza pesante. Al tempo stesso, però, ho apprezzato la capacità dell’autore di suscitare svariati interrogativi nella mia mente di lettore: cosa avrei fatto se mi fossi trovato lì in quel momento? Cosa potrebbe succedermi se cascassi nella tela di una setta come Aum? Consiglio il libro ai completisti di Murakami e a chi è interessato a saperne di più sull’attentato del 1995.

Letture: Pietro Regazzoni – Quando Passa Il Treno

pietro_regazzoni_quando_passa_il_trenoIn quanto a letture sono una persona piuttosto semplice e lineare: vado in libreria, vedo un resoconto di viaggio sull’Asia Centrale o sull’Estremo Oriente, lo compro di getto e lo divoro alla prima occasione utile. Questa successione di eventi si è puntualmente verificata sia quando ho incrociato una copia di Sovietistan (che ho recensito qui) alla Feltrinelli di Firenze, sia quando dal mio libraio di fiducia — scusami se ti ho tradito con una grande catena, ma sono un lettore di facili costumi — mi sono imbattuto in Quando Passa Il Treno.

Il lecchese Pietro Regazzoni, laureato in Economia e ricercatore a Milano e Bruxelles, è un classe 1997 e questo lo rende, sempre che la memoria non mi inganni, l’autore più giovane che recensisco. Nel 2019, prima che il Covid rendesse utopico viaggiare, il Nostro ha affrontato in solitaria l’impegnativo tragitto tra Mosca e Pechino attraverso la Transiberiana e la Transmongolica, tratta ferroviaria che da Ulan-Ude, capitale della Buriazia, uno dei soggetti federali della Federazione Russa, si snoda tra le immensità della steppa mongola e del Gobi fino a raggiungere la capitale cinese. Un viaggio lungo migliaia di chilometri suddiviso in diverse tappe, da Ekaterinburg, città in cui venne fucilato Nicola II insieme alla sua famiglia, a Xi’an, località divenuta celebre in tutto il mondo dopo il ritrovamento dell’armata di terracotta. A dominare su tutto è però la Mongolia, terra in cui l’autore ha potuto vivere a stretto contatto con la popolazione locale, osservando da vicino la vita dei pastori nomadi.

Quando Passa Il Treno è un volume agile, che gode di uno stile di scrittura fresco e leggero, una lettura ideale per rigenerarsi dopo una lunga e sfiancante giornata di lavoro. Un testo scevro da intellettualismi, in cui le nozioni sono ridotte all’osso ed inserite solo dove sono realmente necessarie. A dominare le pagine sono le riflessioni dell’autore e gli incontri casuali lungo la strada, che anche un contatto fugace in treno o in ostello può lasciare una traccia profonda. Il risultato è un racconto di viaggio estremamente personale, che si lascia leggere con disarmante facilità, corredato da diverse foto dell’autore stesso. Consigliatissimo.

Letture: Erika Fatland – Sovietistan

Erika_Fatland-SovietistanL’Asia Centrale, terra misteriosa che nel corso dell’Ottocento fu oggetto di accesa disputa tra corona britannica e Russia zarista, in quello che Rudyard Kipling ribattezzò Grande Gioco, è la mia croce e delizia. Da anni vado avanti progettando ipotetici viaggi nell’area, avventure che rimangono sulla carta vuoi per mancanza di denaro, vuoi di tempo, vuoi per le restrizioni dovute ad una pandemia che negli ultimi due anni ha sconvolto le nostre esistenze. Nulla però mi vieta di fantasticare leggendo i resoconti di viaggio altrui ed il libro di questo mese di spunti me ne ha dati forse anche troppi.

Erika Fatland (1983) ha una formazione come antropologa sociale ed il suo background formativo è ben evidente anche nei suoi libri. Sovietistan, che come suggerisce il titolo è un reportage incentrato sulle cinque repubbliche nate nel 1991 dalle macerie dell’edificio sovietico, è il suo primo libro ad essere stato tradotto in italiano nel 2017 ed è stato seguito nel 2019 da La Frontiera, un viaggio attraverso i paesi confinanti con la Federazione Russa, e nel 2021 da La Vita In Alto, una avventura attraverso l’Himalaya.

Paesi relativamente giovani, i cinque “stan” — Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan e Tagikistan — sono anche terre di profonde contraddizioni, rese ancora più stridenti dalla ricerca di una propria identità. Il comune passato sovietico ha lasciato in eredità frontiere tracciate arbitrariamente senza tenere in conto la geografia umana ed un mosaico etnografico derivato dai trasferimenti di massa di epoca staliniana: ne derivano confini impossibilmente complicati come nella Valle di Fergana e tensioni etniche latenti che spesso liberano fiammate di violenza indiscriminata come nel 2010 a Osh, in Kirghizistan.

Le oltre cinquecento pagine di Sovietistan sono una sorta di pendolo in continua oscillazione tra estremi. Alla ricchezza del sottosuolo, che si riflette nello sfarzo di capitali come Nursultan o Ashgabat, si contrappone spesso una diffusa povertà. La corruzione endemica e una gestione cleptocratica dell’economia da parte di clan familiari, a volte al potere sin dall’indipendenza, impediscono la redistribuzione delle risorse tra la popolazione, che viene tenuta a bada da un ben oliato sistema repressivo. Monumenti alla follia dell’uomo, come le sabbie tossiche del fu Lago d’Aral o dell’ex poligono nucleare di Semey, città in cui ai tempi dello zar fu confinato nientemeno che Dostoevskij, convivono con paradisi naturali come i picchi innevati del Pamir o i grandi parchi naturali kazaki.

L’autrice, da buona antropologa, dedica ampio spazio ai racconti delle persone che ha incontrato, svelando un mondo in cui modernità e tradizione cercano di convivere. Viaggia nelle più sperdute valli tagike alla ricerca della lingua yaghnobi, derivata dall’antico sogdiano; scova minoranza tedescofone, discendenti dei deportati da Stalin; si confronta con lo sfogo della minoranza russa in Kazakistan, vera e propria spada di Damocle che pende sul capo di un paese che sta lentamente cercando di scrollarsi di dosso l’ingombrante vicino settentrionale; incontra archeologi intenti a studiare il passato sepolto nella sabbia turkmena; raccoglie le preziose testimonianze delle spose kirghize rapite, vittime di una tradizione che non è una tradizione.

Il difetto più grande del volume, comune a tutti i reportage di viaggio, è il suo essere invecchiato abbastanza in fretta. Le parole sono ancorate alla carta stampata e ciò che rimane sulla pagine è una immagine cristallizzata nel tempo. Il mondo, però, è in perpetuo movimento ed insieme ad esso mutano le società e le loro strutture di potere: dal 2014 — anno della prima edizione norvegese — ad oggi, infatti, Nursultan Nazarbayev non è più alla guida del Kazakistan — almeno ufficialmente, poi che tenga le redini del potere da dietro le quinte è un altro discorso — così come Gurbanguly Berdimuhamedow non è più presidente del Turkmenistan, dopo aver ceduto le redini a suo figlio Serdar.

Al netto di questa considerazione, piuttosto scontata a dire il vero, Sovietistan rimane un buon resoconto di viaggio. Con uno stile di scrittura frizzante, che riflette la giovane età dell’autrice, risulta essere una lettura scorrevole e piacevole, ricca di sfaccettature e di informazioni. Se non vi spaventano i testi corposi, se siete in astinenza da viaggio, se siete fissati con la regione in questione, allora questo è il libro che fa per voi.

Letture: Francesco Dei – La Guerra Russo-Giapponese 1904-1905

francesco_dei_guerra_russo_giapponeseLa guerra russo-giapponese appartiene a quella categoria di eventi che, pur risultando fondamentali per aver gettato le premesse degli accadimenti dei decenni successivi, vengono tenuti in poca o nulla considerazione. Primo conflitto moderno tra stati industrializzati, prima vittoria di una potenza asiatica su una nazione europea, la guerra ebbe conseguenze importanti per entrambi i contendenti: in Russia la sconfitta minò alla radice l’autorità di Nicola II, portando ad una prima fallimentare rivoluzione popolare, mentre in Giappone l’atteggiamento dei paesi occidentali durante le trattative di pace contribuì a generare una diffusa sensazione di delusione, se non addirittura di tradimento.

Francesco Dei (1975), laureato in Scienze politiche, appassionato di storia militare e specializzato in storia e cultura dell’Estremo Oriente, della Russia e dell’Europa slava, è una vecchia conoscenza su questo blog. In passato ho recensito il suo Storia Dei Samurai, mentre la sua monumentale opera in due volumi sulla guerra civile russa (La Rivoluzione Sotto Assedio) mi è stata utile per la realizzazione di post come quello sull’insurrezione di Kronstadt. Si tratta insomma di un autore di cui ho potuto apprezzare a più riprese le capacità ed è anche per questo che ho acquistato La Guerra Russo-Giapponese 1904-1905 non appena disponibile in libreria.

Ribattezzata dallo storico John Steinberg world war zero, il conflitto scoppiò per gli interessi contrapposti tra le due potenze in Manciuria e Corea. Sin dal decennio precedente, infatti, Tokyo aveva manifestato un certo interesse verso l’area — ne parlo qui — mentre Mosca aveva iniziato una lenta ma costante penetrazione nella regione, sia attraverso concessioni ferroviarie, come quelle relative alla Ferrovia della Manciuria settentrionale e alla sua diramazione che collegava la località strategica di Port Arthur, sia attraverso attività commerciali lungo il fiume Yalu, ancora oggi confine tra la Repubblica Popolare Cinese e la Corea del Nord. Ogni tentativo di negoziazione naufragò miseramente, dato che da parte russa i giapponesi erano visti come “piccoli uomini gialli” in tutto e per tutto inferiori a loro: un errore di valutazione dalle tragiche conseguenze.

L’autore dedica i capitoli di apertura proprio a sviscerare queste questioni e a presentare al lettore i due schieramenti. Oltre a passare in rassegna gli armamenti, con particolare attenzione a quelli navali, le strutture di comando e le forze impiegate nella guerra, vengono trattati anche i rispettivi piani bellici: se la Russia intendeva, almeno sulla carta, mantenere un contegno difensivo per rallentare l’avanzata nemica e far affluire rinforzi da altre zone del suo immenso territorio per ottenere una schiacciante superiorità numerica, il Giappone sapeva di poter contare su una quantità di risorse limitata puntando quindi sulla velocità e sul dominio dei mari per garantire il rifornimento delle truppe al fronte.

La descrizione delle operazioni militari è incredibilmente dettagliata, in alcuni casi forse addirittura in modo eccessivo, e provvidenziale è la presenza di numerose mappe. In questo modo il lettore non solo è in grado di raccapezzarsi tra nomi esotici, ma anche di collocare i vari fatti d’arma in una dimensione geografica e di comprendere meglio gli effetti delle azioni dei singoli reparti in battaglie che assumono una complessità del tutto nuova rispetto a quelle di qualche decennio prima. 

L’autore si sofferma a lungo anche sulle trattative di pace che si svolsero a Portsmouth nel New Hampshire sotto gli auspici del presidente americano Theodore Roosevelt. Entrambi i contendenti erano allo stremo, con il Giappone padrone del campo ma sull’orlo della bancarotta e con la Russia che, pur godendo della tanto agognata superiorità numerica, era percorsa da un impetuoso vento rivoluzionario. Il trattato di pace, firmato il 5 settembre 1905, fu una vittoria diplomatica della delegazione russa, guidata dall’energico ex ministro delle Finanze Witte, che riuscì a contenere i danni, mentre i nipponici tornarono a Tokyo carichi di una frustrazione simile a quella che dopo la Grande Guerra portò all’idea della “vittoria mutilata” in Italia.

La Guerra Russo-Giapponese 1904-1905 è a mio avviso un’opera completa e ricca di informazioni, frutto di un rigoroso lavoro di ricerca. L’autore si è infatti avvalso di una nutrita bibliografia che spazia da testi accademici più o meno recenti, fino alla memorialista russa e giapponese. Nel complesso ritengo si tratti di un libro godibile, forse un po’ ostico per chi non è abituato ai volumi di storia militare, ma l’abilità narrativa dell’autore riesce a smussarne le asperità. A questo punto non posso che aspettare con trepidazione il suo prossimo lavoro.

Letture: Simon Levi Sullam – I Carnefici Italiani

simon_levi_sullam-i_carnefici_italianiL’Olocausto è senza ombra di dubbio una delle pagine più buie della nostra storia recente. Il sistematico sterminio degli ebrei europei fu certamente ideato e programmato con precisione teutonica dal regime nazista, ma fu reso possibile con una così vasta portata soltanto grazie alla complicità e all’adesione — spesso entusiastica — di ampi strati della popolazione del Vecchio Continente. Gli italiani non furono da meno. Tuttavia, se da un lato ricordiamo figure come Giorgio Perlasca e Carlo Angela, entrambi insigniti del titolo di Giusti tra le nazioni, dall’altro evitiamo attentamente di menzionare il coinvolgimento del regime fascista — e non solo — nella Shoah, in un processo di rimozione del tutto analogo a quello relativo ai crimini di guerra commessi del Regio Esercito.

Simon Levi Sullam (1974) è professore associato di storia contemporanea presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Intento dell’autore in I Carnefici Italiani è quello di mettere a nudo le responsabilità italiane nel genocidio ebraico in Italia. Cosa si intende, però, per responsabilità? Vi è senza dubbio la responsabilità materiale degli esecutori degli arresti, ma gli ebrei non sarebbero stati identificati come tali senza il lavoro degli impiegati comunali nell’anagrafe razzista. Allo stesso modo si possono considerare responsabili tutti gli anelli che trasmisero gli ordini di arresto lungo la catena di comando, tutti coloro che sorvegliarono gli ebrei rastrellati, coloro che guidarono gli autocarri ed i treni fino a Fossoli e da lì ai campi di sterminio, fino ad arrivare alla categoria più disgustosa: quella dei delatori, che spesso e volentieri si appropriavano dei beni dei deportati. Stiamo parlando, quindi, di migliaia di soggetti, pur con diversi gradi di coinvolgimento, implicati nell’Olocausto tra il 1943 ed il 1945.

Vi è poi la questione dell’antisemitismo di Stato e del suo progressivo inasprimento, a partire dalle leggi razziali del 1938 sino alle deliranti posizioni genocide fatte proprie dalle istituzioni e dall’intellighenzia della Repubblica Sociale. Elaborate da “ideologhi” come Giovanni Preziosi, già curatore dell’edizione italiana dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion, queste erano veicolate tanto dalla stampa di regime, quanto da testate nazionali come “La Stampa” o il “Corriere della Sera”, e addirittura implementate nella formazione ideologica dei quadri della Guardia Nazionale Repubblicana, come testimoniato da evidenze archivistiche.

In ciascun capitolo de I Carnefici Italiani, Sullam cerca di sviscerare la questione, ponendo dinanzi al lettore fatti inoppugnabili e ben documentati, tanto da far sorgere spontanea una domanda: come è stato possibile dimenticare tutto ciò? Come ben sappiamo in Italia non si svolse mai un processo analogo a quello tenutosi a Norimberga, ma tutta una serie di procedimenti individuali presieduti da una magistratura che per prima non era stata defascistizzata. La vicenda professionale di Carlo Alliney è paradigmatica: capo di gabinetto all’Ispettorato per la razza e consulente del governo per la legislazione razziale della RSI, nel dopoguerra fu procuratore generale a Palermo concludendo la sua carriera come giudice di Cassazione. Anche nei casi in cui i tribunali emisero un verdetto di colpevolezza, l’amnistia Togliatti cancellò dall’oggi al domani circa diecimila condanne, comprese quelle di gerarchi come Federzoni e Bottai. Mancando una verità processuale, fu relativamente semplice spostare l’attenzione dalla politica antisemita del fascismo verso episodi, opportunamente decontestualizzati ed ingigantiti, in cui le Forze Armate offrirono protezione agli ebrei in Francia e nei Balcani.

Quella di Sullam è un’opera preziosa, che dovrebbe a mio avviso diventare testo scolastico in quinta superiore. Con un linguaggio semplice, unito al rigore metodologico dello storico di mestiere, l’autore contribuisce a minare le fondamenta del mito del “bravo italiano”, smentendo anche quella retorica defeliciana che ha sempre voluto porre il fascismo fuori dalle responsabilità dell’Olocausto: che piaccia o meno, dovremmo iniziare a rivalutare in senso critico il nostro passato e volumi come questo sono come acqua nel deserto.

Letture: Alessandro Barbero – Bella Vita E Guerre Altrui Di Mr. Pyle, Gentiluomo

Alessandro Barbero (1959) è uno di quei personaggi che non hanno bisogno di grandi presentazioni, almeno presso il pubblico italiano. Professore di Storia Medievale presso l’Università del Piemonte Orientale, autore di innumerevoli saggi — sia di taglio divulgativo che più tecnico — e presenza quasi imprescindibile nei programmi storici della RAI, ha avuto anche un discreto successo come romanziere ed è proprio in questa veste che ne parlerò.

Stampato per la prima volta nel “lontano” 1995, Bella Vita E Guerre Altrui Di Mr. Pyle, Gentiluomo è il romanzo di debutto di Barbero ed è valso al suo autore il Premio Strega nel 1996. Scritto sotto forma di diario, il volume è un romanzo storico che racconta il viaggio di Robert L. Pyle attraverso l’Europa, dove egli è stato inviato come diplomatico dal governo statunitense nel 1806. Un periodo di grande fermento questo, con Napoleone apparentemente padrone d’Europa dopo la sfolgorante vittoria di Austerlitz, la Gran Bretagna in una solitaria e ostinata lotta contro la Francia, una Prussia che nasconde la propria debolezza dietro al ricordo del genio militare di Federico il Grande ed un Impero russo imperscrutabile. Compito del nostro protagonista è proprio quello di provare a decifrare il rebus europeo e di informare l’amministrazione americana circa gli sviluppi nel Vecchio Continente.

In una intervista su Parentesi Storiche, Barbero ha affermato che il romanzo storico dovrebbe rimanere appannaggio degli storici più che dei romanzieri. Una uscita che potrebbe apparire autoreferenziale, ma leggendo Bella Vita E Guerre Altrui Di Mr. Pyle, Gentiluomo si riesce a comprenderne meglio il senso. L’opera è infatti una attentissima ricostruzione — confrontate se volete con un qualsiasi saggio sul periodo napoleonico — delle vicende che portarono alla battaglia di Jena, evento che viene per altro minuziosamente descritto in prima persona dallo stesso Mr. Pyle. Di più, al lettore vengono mostrate la vita e la società nella Germania di inizio XIX secolo e, attraverso l’incontro con personaggi realmente esistiti come Fichte, Goethe o von Clausewitz, un intero modo di pensare. Lo stesso protagonista altro non è che la rappresentazione, forse un po’ stereotipata, del gentiluomo dell’epoca. Possono sembrare dettagli di poco conto, ma sono dell’idea che un romanzo storico debba essere ineccepibile sotto questi aspetti.

Dal punto di vista narrativo, tuttavia, emerge qualche criticità. Ammetto di aver letto Bella Vita E Guerre Altrui Di Mr. Pyle, Gentiluomo durante un periodo di intensa attività lavorativa in cui, a causa del poco tempo libero, sono stato costretto a lunghe pause tra una sessione di lettura e l’altra, ma non posso negare di averlo trovato piuttosto lento, se non addirittura farraginoso, in alcuni passaggi. Attenzione, non sto dicendo che si tratti di un brutto romanzo, anzi. Il lavoro di ricostruzione, come già detto, è ottimo, gli scenari appaiono vividi come fotografie, mentre i personaggi sono ben caratterizzati: prova ne è il protagonista che nella sua spocchiosa alterigia borghese riesce a rendersi talvolta insopportabile; la prosa, però, mi pare meno brillante rispetto a saggi come Lepanto oppure La Battaglia, per restare in ambito napoleonico. Pur essendo una lettura tutto sommato gradevole, continuo a preferire il Barbero saggista.

Letture del mese – Giugno ’21 (Giangiorgio Pasqualotto – Taccuino Giapponese)

Il Giappone è senza ombra di dubbio un paese che esercita un enorme fascino su noi occidentali. Le sue usanze, le sue tradizioni ed il suo sistema di valori sono talmente lontani da quelli che sentiamo come nostri da sembrarci quantomeno strani, se non addirittura incomprensibili. A questo va poi aggiunto che in Occidente il più delle volte ne recepiamo una immagine distorta, a volte veicolata dagli stessi prodotti dell’industria culturale nipponica — soprattutto drama, manga e anime — e in altri casi frutto di incomprensioni o eccessive semplificazioni. Non è il caso di questo libro.

 

GIANGIORGIO PASQUALOTTO – TACCUINO GIAPPONESE 

giangiorgio_pasqualotto-taccuino_giapponeseParto col dire che Taccuino Giapponese è un resoconto di viaggio sui generis. Lo è perchè nella quasi totalità dei libri di questo genere il racconto dell’esperienza di viaggio rappresenta il fine stesso del volume, mentre in questo caso è solo un mezzo: la narrazione della trasferta giapponese è infatti un espediente per presentare al lettore il pensiero nipponico, la cui comprensione permette di capire meglio il paese ed i suoi abitanti. Ad accompagnarci in questa avventura è una guida d’eccezione.

Giangiorgio Pasqualotto (1946) il pensiero orientale lo conosce molto bene. Studioso senior presso l’Università di Padova — ateneo in cui ha ricoperto a lungo il ruolo di titolare della cattedra di Estetica — ed ex direttore scientifico della Scuola Superiore di Filosofia orientale e comparativa di Rimini è stato tra coloro che hanno contribuito ad introdurre in Italia la filosofia giapponese contemporanea, in particolare il pensiero di Nishida Kitarō (1870-1945) e della Scuola di Kyoto.

Scordiamoci Tokyo, i grattacieli di Shinjuku e le luci sfavillanti di Shibuya: in Taccuino Giapponese la capitale nipponica viene nominata soltanto di sfuggita, quasi fosse un atto dovuto. Troppa modernità, troppa confusione, troppa commistione con l’Occidente per poter anche solo pensare di riuscire a cogliere l’essenza dello spirito giapponese. Meglio optare per luoghi più tranquilli e anche nelle mete turistiche più affollate, come Nara e Kyoto, Pasqualotto cerca costantemente di sfuggire alla ressa dei visitatori, imboccando sentieri meno battuti che conducono a scuole confuciane, templi buddhisti, santuari shintō, sale da tè e giardini zen.

La scelta di queste mete non è casuale. In ciascuno di questi luoghi, infatti, è possibile cogliere elementi che hanno contribuito a plasmare la cultura giapponese, che è frutto di una originale commistione tra elementi confuciani, buddhisti — il Buddhismo fu introdotto nel paese a partire dal 552 d.C. e qui nel corso dei secoli ha assunto caratteristiche peculiari e uniche — e shintoismo. Pasqualotto sfrutta ogni tappa per sviscerare, con una chiarezza espositiva invidiabile, ciascuno di questi elementi — o quantomeno i principali — e gettare luce su determinate usanze e sulla forma mentis che le hanno generate.

Un ottimo esempio ci è fornito dal ruolo delle pietre all’interno dei giardini giapponesi e delle stesse case attraverso il suiseki, letteralmente il coltivare le pietre. Ciò che per noi è un semplice sasso, in terra nipponica è il frammento della montagna da cui si è staccata, che come tutte le montagne è luogo di residenza dei kami, gli onnipresenti spiriti divini dello shintoismo. In quest’ottica appare chiaro come pietre di particolare forma e bellezza possano essere oggetto di una particolare cura. Lo stesso vale per la cerimonia del tè, la cui complessa ritualità assume tutto un altro aspetto dopo aver scoperto che ogni gesto ha un significato ben preciso nello Zen.

Pur affrontando temi potenzialmente molto complessi ed intricati, specie per chi è totalmente digiuno per quanto riguarda le filosofie orientali, Taccuino Giapponese è una lettura chiara e a mio avviso appagante. Un volume che si distacca da gran parte della narrativa di viaggio e che permette di gettare uno sguardo sul Giappone più autentico e che può costituire una solida base di partenza per approfondire la sua filosofia.

Letture del mese – Maggio ’21 (Natsume Sōseki – Anima)

Mese di maggio e torniamo in Giappone per parlare di uno dei miei autori nipponici preferiti e della sua opera più famosa e importante. In Italia il romanzo è stato pubblicato da diverse case editrici, ognuna delle quali ne ha tradotto il titolo a modo suo: Il Cuore Delle Cose, Anima, Anima E Cuore. Per semplificare le cose ho deciso di ricorrere al titolo giapponese — salvo che nel titolo del post — Kokoro perchè credo che ne rispecchi a pieno l’essenza.

NATSUME SŌSEKI – ANIMA

Natsume_Soseki-AnimaNatsume Sōseki (1867-1916) è universalmente riconosciuto come il padre del romanzo giapponese moderno. Tra i primi studiosi di letteratura inglese nel paese del Sol Levante, venne inviato dal suo governo a Londra per approfondire la materia. Il soggiorno londinese avrà un fortissimo influsso sulla sua vita e sulla sua produzione letteraria. La profonda solitudine che ne scaturì, aspetto che lo accomuna a buona parte dei suoi personaggi, gli causò un esaurimento nervoso che ebbe pesanti ripercussioni sul suo fisico, ma il contatto con il romanzo europeo ottocentesco gli permise di elaborare una scrittura a cavallo tra la produzione letteraria europea e la tradizione culturale nipponica.

Kokoro è uno splendido esempio di questa commistione, forse il migliore mai scaturito dalla penna di Sōseki. Il romanzo prende il via dall’incontro casuale tra un giovane studente ed il Maestro. Costui, oltre ad essere il vero protagonista del romanzo, è l’archetipo del personaggio sōsekiano: abbastanza benestante da poter vivere senza altra occupazione che ampliare la propria cultura, spinto dalla delusione verso gli uomini, ma ancora di più verso se stesso, vive una vita appartata in compagnia di una moglie che non riesce a penetrarne la riservatezza che lo avvolge come una corazza. L’intera opera ruota intorno alla sua figura e ai tentativi dello studente di fare luce sul suo passato per scoprire cosa abbia trasformato un individuo brillante come il Maestro in un misantropo disilluso. Soltanto nella parte finale del libro, però, avremo la rivelazione del peso enorme che ha schiacciato l’animo del protagonista fino a condizionarne l’esistenza.

Kokoro, scritto nel 1914, appartiene a pieno titolo al filone del romanzo psicologico, genere particolarmente in voga all’epoca, ma sarebbe limitante fermarsi a questa etichetta. Pur cercando di indagare su quanto e come il rimorso possa gravare sulla coscienza di individuo fino a condizionarne l’esistenza, Sōseki non solo ci spinge ad interrogarci sul rapporto tra individuo e gruppo — “La solitudine è il prezzo che dobbiamo pagare per essere nati in questa epoca moderna, così piena di libertà, indipendenza, ed egoistica affermazione individuale” è una frase che ad oltre un secolo di distanza mantiene una attualità sconcertante — ma ci offre uno spaccato incredibilmente vivido della società giapponese del tempo. Una delle tematiche ricorrenti nell’autore, e che compare sullo sfondo per tutta la durata dell’opera, è lo stridente contrasto tra il Giappone moderno e quello più legato alle tradizioni: un contrasto che lo stesso Sōseki viveva dentro di sé e qui ben rappresentato nelle differenze tra città e campagna, oltre che dall’adozione di diversi sistemi di valori tra lo studente ed il Maestro.

Sarà che ho letto il libro mentre sono stato costretto in casa per circa un mese — sì, la zona rossa qui è durata parecchio — ma mi è stato impossibile non provare una certa simpatia, a tratti quasi una affinità, con il Maestro. Amavo Sōseki prima e ora lo amo ancora di più, mentre Kokoro si è guadagnato un posto speciale tra i miei libri preferiti e nel mio cuore.

Letture del mese – Aprile ’21 (Alexander Watson – Il Grande Assedio Di Przemysl)

Da quando ho inaugurato questo blog, ormai sette anni fa, sono finito ad occuparmi principalmente di quella che è la mia più grande passione, ovvero la Storia. Nonostante ciò, mi sono reso conto che, tra i libri che consiglio ogni mese, la saggistica storica rappresenta una frazione a dir poco esigua sul totale. Decisamente imbarazzante per una persona che si fregia del titolo di aspirante storico, motivo per cui a partire da questo mese cercherò di invertire questa tendenza.

 

ALEXANDER WATSON – IL GRANDE ASSEDIO DI PRZEMYSL

 

Alexander_Watson-Il_Grande_Assedio_Di_PrzemyslL’impronunciabile città polacca di Przemysl occupa un posto d’onore su questo blog, sia come meta di viaggio che scenario dell’assedio più lungo della Grande Guerra. Ad esso nell’autunno scorso ho dedicato una serie di ben tre post con lo scopo di raccontare nel miglior modo possibile le vicende dei soldati austroungarici bloccati in città e quelle dei loro assedianti. Per farlo mi sono dotato di un buon numero di fonti, prevalentemente in lingua inglese, tra cui l’eccellente The Fortress: The Great Siege Of Przemysl di Alexander Watson. A marzo il mio libraio di fiducia mi comunica che Rizzoli ne ha pubblicato la traduzione in italiano e il sottoscritto non si è lasciato sfuggire l’occasione di acquistarne una copia cartacea.

Alexander Watson (1979) è uno storico britannico, docente di storia presso l’Ateneo londinese di Goldsmiths, nonché autore di diverse pubblicazioni di storia militare sulla prima guerra mondiale, in particolare nell’Europa centro-orientale. Insomma, se seguite questo blog da un po’ di tempo avrete già capito che si tratta di pane per i miei denti e che sull’argomento sono incredibilmente esigente.

Il Grande Assedio Di Przemysl racchiude in un unico volume due aspetti, a mio avviso fondamentali, e che purtroppo non sempre riescono a coesistere all’interno della stessa opera. L’aver adottato un taglio divulgativo, oltre a donare una certa freschezza e agilità al testo, permette di catturare l’attenzione del lettore, mentre in ogni capitolo viene dosato il giusto quantitativo di informazioni: né troppe, come ci si aspetterebbe da una pubblicazione specialistica, né troppo poche. Il tutto condito da un linguaggio chiaro e da uno stile di scrittura molto lineare e privo di quelle perifrasi che, pur stilisticamente molto belle, possono distrarre dal contenuto del testo. Leggendolo non si trova traccia di autoreferenzialità, quanto piuttosto il desiderio di raccontare una storia nel miglior modo possibile.

Il secondo aspetto, quello del rigore scientifico che in un’opera storica è essenziale, mi lascia più che soddisfatto. Il Grande Assedio Di Przemysl è infatti il frutto di un enorme lavoro di ricerca. Watson ha scandagliato a fondo archivi in Austria, Ungheria, Polonia, Ucraina e perfino Israele, oltre ad aver consultato una quantità enorme di altre fonti cartacee tra memorialistica, compresi numerosi diari di abitanti della città, e saggistica. Basti pensare che quasi un terzo delle pagine del volume è occupato da note e bibliografia. Non sarà Barbero, ma l’autore dimostra di essere un buon narratore e uno storico molto attento.

Altro aspetto accattivante è come il libro non si limiti a delineare gli eventi dell’assedio o più in generale della campagna galiziana. Watson dedica ampio spazio a delineare il contesto della Galizia dell’epoca, dove l’onda lunga del nazionalismo ottocentesco aveva portato ad un crescente clima di tensioni tra le componenti etniche – polacchi, ruteni ed ebrei – e ad un diffuso senso di sospetto reciproco tra alcune di esse e le autorità statali. A farne le spese furono soprattutto i ruteni – gli odierni ucraini per interderci – visti come quinta colonna russa dalle autorità austro-ungariche e la nutrita comunità ebraica, che subì un vero e proprio tentativo di pulizia etnica da parte zarista. 

Tradotto discretamente bene, corredato da diverse cartine – servono sempre in storia militare – e da un folto inserto fotografico, Il Grande Assedio Di Przemysl è un volume che offre uno sguardo a trecentosessanta gradi su un episodio incredibilmente drammatico di quell’enorme tragedia che fu la Grande Guerra. Personalmente mi sento di poterlo consigliare a chiunque sia interessato all’argomento, anche e soprattutto a coloro che sono privi di una formazione storica.