Toccata e fuga a Varsavia (25-27 luglio 2018)

Lo skyline di Varsavia. Il Palazzo della Cultura e della Scienza è in primo piano
Foto dell’autore

Il mio arrivo a Varsavia non è dei migliori. Il volo da Leopoli decolla con un’ora di ritardo sulla tabella di marcia, mentre nella capitale polacca il traffico dell’ora di punta è tale da congestionare anche i grandi viali a quattro corsie: per coprire la distanza tra l’aeroporto, dedicato al celeberrimo compositore Chopin, e la stazione centrale impiego quasi un’altra ora, con l’autobus che procede a passo d’uomo lungo la carreggiata invasa da centinaia, se non migliaia, di veicoli. Il mio piano malefico, abilmente congegnato per recuperare un’ora sfruttando il fuso orario tra Ucraina e Polonia, è naufragato senza appello, lasciandomi in uno stato ibrido tra la frustrazione e l’insofferenza.

Non è lo stato d’animo adatto per partire all’esplorazione di una città, anzi il mio umore è nero, ma mi basta scendere dall’autobus per riprendermi completamente. In fin dei conti dopo tanti anni di attesa sono riuscito ad arrivare a Varsavia e non ho intenzione di farmi guastare l’esperienza. Per questioni pratiche, come i collegamenti da e per l’aeroporto e la rete del trasporto pubblico, ho scelto di pernottare in un albergo nella Nowe Miasto (Città Nuova), nella zona oggi conosciuta come “Centrum” data la sua centralità nell’attuale impianto urbanistico della metropoli. Il quartiere ha un aspetto particolare e ciò è dovuto sia alla ricostruzione ex novo a seguito delle distruzioni causate dalla seconda guerra mondiale, sia ad un rinnovato boom edilizio negli anni successivi al crollo del blocco sovietico, specialmente a partire dall’inizio del nuovo millennio.

Grattacieli a Varsavia
Foto dell’autore

L’aspetto incredibilmente moderno, i marciapiedi gremiti di persone che passeggiano davanti alle insegne luminose dei fast food e alle vetrine dei negozi delle grandi catene di abbigliamento creano uno strano contrasto, a mio avviso piacevole, con le porzioni della città ricostruite fedelmente all’originale. Lo skyline, che conta diversi grattacieli, non sfigurerebbe in qualche grande città nordamericana. Ecco, pur non essendoci mai stato, ho avuto quasi la sensazione di passeggiare per un quartiere di New York, Boston o Chicago. A riportarmi a Varsavia, però, c’è una presenza granitica, inquietante, avvertibile quasi in ogni angolo della città e che grava, almeno metaforicamente, anche su tutta la Polonia: il Palazzo della Cultura e della Scienza.

L’edificio in questione, oltre ad essere il più alto del Paese, è anche il più controverso. Venne infatti realizzato su ordine di Stalin nei primi anni Cinquanta, mentre Varsavia stava lentamente risorgendo dalle proprie ceneri. Costruito ad immagine e somiglianza dell’edificio principale dell’Università Statale di Mosca, è uno dei massimi esempi di architettura stalinista fuori dai confini dell’ex Unione Sovietica. Nelle intenzioni del leader sovietico il palazzo doveva essere un dono dell’URSS al popolo polacco, ma questi ultimi lo hanno sempre visto in modo radicalmente diverso. Dato il ruolo di Stalin nelle vicende polacche del Ventesimo secolo – e sullo stalinismo in Polonia potrei parlare per ore – la struttura è vista da parecchi come una vera e propria provocazione. Da qui tutta una serie di nomignoli, tra i quali il mio preferito è “Chuj Stalina“, letteralmente “cazzo di Stalin”, e ripetute proposte di abbattimento. Personalmente trovo inutile, se non addirittura dannoso, procedere ad una damnatio memoriae fuori tempo massimo: avrebbe avuto senso, forse, dopo il 1991, sull’onda emotiva del crollo del blocco sovietico, ma ora è decisamente troppo tardi. Ormai il palazzo è diventato una icona di Varsavia e abbatterlo sarebbe privare la città di una parte della propria storia e della propria identità. Si tratta di un discorso per certi versi molto simile a quello relativo al Monumento alla Vittoria di Bolzano, che è stato oggetto di un interessante progetto di storicizzazione, in grado di collocare l’edificio all’interno di una cornice storica, preservandone l’integrità strutturale e attenuando il più possibile la sua funzione propagandistica. È questo il grosso problema che l’architettura monumentale dei regimi pone ai contemporanei, data la subordinazione dell’estetica e della funzionalità alla funzione propagandistica. Un problema che, come sempre, andrebbe affrontato con la testa e non con la pancia ed il calcolo elettorale.

Nutro un amore incondizionato, una sorta di venerazione, per la letterature dell’Europa orientale, specialmente se yiddish. Partendo da questo presupposto, Varsavia è legata in maniera indissolubile ad Isaac Bashevis Singer che qui visse e qui ambientò una delle sue opere più famose, “La famiglia Moskat“, di cui ho portato con me una copia. Inutile dire che il giorno dopo, di primissimo mattino, mi sono messo gli scarponi ai piedi e sono uscito alla ricerca dei luoghi del romanzo e della vita dello scrittore. La prima tappa è, ad una decina di minuti scarsi dall’albergo, la via Krochmalna, dove la famiglia Singer visse per anni.

La via Krochmalna negli anni 30

Avete presente la sensazione di smarrimento che si prova quando le aspettative che nutrivate verso qualcosa vanno ad impattare contro la realtà oggettiva, andando in frantumi? Giunto all’incrocio tra la via e viale Jana Pawla II, una lunga teoria di anonimi edifici moderni mi segnala ciò che, forse, a livello incoscio avevo già preventivato: la via Krochmalna di Israel, Isaac ed Esther – anch’essa scrittrice, seppur meno conosciuta dei fratelli – non esiste più. Allo stesso modo non esistono più le vie dove Abram Shapiro si trascinava scialaquando denari non suoi e nemmeno le stanze dove il giovane Asa Heschel sfogliava una copia ormai consunta del Tractatus theologico-politicus di Spinoza. È la stessa Varsavia ebraica a non esistere più, ridotta – letteralmente – in cenere insieme a chi ne abitava le strade e le piazze.

Le tracce del passato sono tuttavia difficili da cancellare completamente e qualcuna di esse è sopravvissuta nei dintorni. La principale è senza dubbio la Sinagoga Nozyk, l’unica sinagoga del centro di Varsavia superstite, miracolosamente scampata alla distruzione perchè le autorità naziste decisero di sfruttarla come stalla e magazzino, prima e dopo la liquidazione del ghetto. L’edificio, inaugurato nel maggio del 1902, appartiene alla comunità ortodossa della capitale ed unisce elementi neorinascimentali ad altri neobizantini, manifestando quell’ecclettismo architettonico tanto in voga agli inizi del secolo scorso. A colpirmi, però, sono le misure di sicurezza che proteggono il luogo di culto ed un piccolo negozio kosher: non solo telecamere, ma anche blocchi di cemento per impedire l’accesso ai veicoli e sorveglianti armati, discreti ma comunque presenti e pronti ad intervenire. Non conosco nel dettaglio la situazione attuale delle comunità ebraiche polacche, ma di certo uno spiegamento di forze così imponente lascia presagire che essa sia tutt’altro che rosea. Non è un mistero che in questo angolo d’Europa l’antisemitismo non si sia mai del tutto sopito.

La Sinagoga Nozyk
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Sfruttando le informazioni contenute in alcuni pannelli affissi fuori dal perimetro di sicurezza della sinagoga, continuo la mia esplorazione alla ricerca dei resti del ghetto.  Dopo essermi imbattuto in un gruppo di edifici sopravvissuti alla guerra, purtroppo sigillati da delle impalcature per via di alcuni lavori di restauro, nel cortile interno di un condominio trovo uno dei pochi tratti rimasti in piedi del muro. A prima vista sembra un semplice muro di mattoni rossi, non particolarmente alto, sormontato da del filo spinato e lo si può scambiare facilmente per un’opera di delimitazione tra due proprietà. Eppure, una volta appurata la natura della barriera, non si può non avvertire una certa sensazione di disagio: è uno dei tratti rimasti ancora in piedi del muro che delimitava il Ghetto di Varsavia; stare da un lato o dall’altro di esso faceva la differenza tra la vita e la morte.

Il ,muro del ghetto
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A partire dal 1940, i nazisti stiparono in una manciata di kilometri quadrati oltre mezzo milione di persone. Le condizioni all’interno del ghetto erano scientemente pensate per causare il più alto numero di vittime possibile. Le razioni alimentari previste della autorità naziste alla popolazione ebraica di Varsavia fornivano meno di 200 calorie al giorno, un ammontare ridicolo. Gran parte del cibo consumato all’interno del muro veniva introdotto clandestinamente, ma si trattava di operazioni molto pericolose, in quanto ogni ebreo sorpreso nella parte polacca della città veniva giustiziato seduta stante. Le condizioni igieniche disastrose provocarono lo scoppio di diverse epidemie di tifo, che fecero strage di individui debilitati dalla fame. Il tasso di mortalità raggiunse ben presto i duemila decessi al mese. Oltre al freddo, alla fame e alle malattie, gli ebrei di Varsavia dovevano temere le periodiche Aktionen, i grandi rastrellamenti con cui i nazisti iniziarono a svuotare periodicamente il ghetto, deportando gli internati a Treblinka e Majdanek.

Nella primavera del 1943 la popolazione del ghetto era ormai ridotta a meno di 70.000 unità, la maggior parte delle quali era impiegata nelle attività produttive che producevano beni di consumo destinati agli occupanti. La notizia della ripresa delle deportazioni scaldò gli animi e nell’aprile dello stesso anno scoppiò la rivolta. Himmler in persona ordinò la soppressione dell’insurrezione, la liquidazione del ghetto e la distruzione dello stesso, incaricando della missione Jürgen Stroop, che la portò a termine nel giro di un mese. Ciò che sappiamo degli avvenimenti all’interno del ghetto lo dobbiamo proprio a Stroop, che stilò un preciso rapporto di 75 pagine, corredato da un album fotografico, in cui descrisse dettagliatamente ogni azione e ogni massacro compiuto dalle unità sotto il suo comando. Nonostante la disparità di forze e di armamento, i ribelli contesero ai loro carnefici ogni singolo del palmo del ghetto. Consapevoli della fine che li attendeva, non lottarono per la vita, bensì per morire con dignità, come esseri umani e non da Untermenschen, come venivano considerati dai nazisti.

Galizia 2015. Settima tappa: Zakopane – Cracovia – ritorno (16-18 agosto)

Nelle strade di Cracovia Foto di Marzia Antinori

Krakow, storica capitale del Regno di Polonia prima che Sigismondo III spostasse il centro del potere a Varsavia nel 1609; Krakau, capoluogo della Galizia occidentale durante l’occupazione asburgica; Cracovia, ultima tappa del nostro viaggio transcarpatico. Questa città è probabilmente rimasta a lungo impressa nella memoria di mio bisnonno Josef. È nei dintorni della città, infatti, che nel gelido novembre del 1914, durante il disperato tentativo di respingere l’esercito russo diretto in Slesia, si ritrova con un congelamento di terzo grado ad entrambi i piedi. I medici riescono a salvare il sinistro, ma sono costretti ad amputare le dita del destro: un ultimo sacrificio officiato für Gott, Kaiser und Vaterland al capezzale dell’Impero morente; un sacrificio tutto sommato modesto, se comparato alle migliaia di uomini rimasti a guardare la luna sui campi di Galizia. Purtroppo, visto il poco tempo a nostra disposizione, la permanenza in città sarà ridotta all’osso, giusto un piccolo assaggio di un luogo saturo di Storia che meriterebbe una visita molto più approfondita.

La famosa banconota
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Salutiamo l’ostello, Zakopane e i Tatra affiggendo sulla pinboard del Goodbye Lenin una banconota su cui abbiamo segnato le tappe del nostro viaggio. Facciamo appena in tempo a salire sull’autobus che dal cielo plumbeo inizia a riversarsi una quantità inenarrabile di pioggia, che ci terrà compagnia, fortunatamente in dosi minori, per tutta la durata della nostra permanenza a Cracovia. Il nostro campo base, convenientemente situato a due passi da Stare Miasto, la Città Vecchia circondata da parchi che hanno preso il posto della cinta muraria, e da Kazimierz, un intrico di stradine che fino agli anni ’40 costituiva il cuore pulsante della comunità ebraica locale, si trova presso i Boomerang Apartments, una via di mezzo tra l’ostello e il mini appartamento a tema Australia: una piacevole coincidenza visto che a distanza di qualche mese Marzia si sarebbe trasferita down under. Il ragazzo alla reception si dimostra disponibilissimo e si offre di lasciarci usare la stanza come deposito per i bagagli anche il giorno successivo senza alcun costo aggiuntivo: in caso contrario saremmo stati costretti a girare carichi come muli fino alla partenza del notturno per Vienna, fissata per le 23.

Il memoriale dell’eccidio di Katyn
Foto dell’autore

Approfittando di un miglioramento delle condizioni meteo ci dirigiamo verso il cuore della Città Vecchia, la Rynek di Cracovia, la piazza più grande dell’intera Polonia. Facciamo il nostro ingresso costeggiando la collina di Wawel, su cui sorge l’omonimo castello. La leggenda vuole che in una grotta ai piedi del rilievo vivesse un terribile drago, Smok Wawelski, che terrorizzava la regione devastando le coltivazioni e divorando gli abitanti.  Un giorno, però, giunse da lontano il principe Krakus che, dopo aver sconfitto e ucciso il mostro, celebrò la vittoria fondando una città che prese il suo nome: Krakow, appunto. Appena prima di imboccare il rettilineo che conduce alla nostra meta, ci ritroviamo davanti il memoriale per le vittime del massacro di Katyn, probabilmente una delle pagine peggiori della storia sovietica. Dopo l’invasione tedesco-sovietica della Polonia, i sovietici si ritrovarono a gestire diverse migliaia di prigionieri di guerra, la maggior parte dei quali ufficiali che, in base al sistema di coscrizione vigente all’epoca, venivano reclutati tra l’intellighenzia polacca. Nella primavera del 1940, su ordine diretto di Berija, Stalin, Molotov e Vorošilov, l’NKVD procedette all’eliminazione sistematica dei prigionieri, il cui destino rimase ignoto per tre anni, fino all’aprile del 1943, quando i  nazisti si imbatterono per caso nelle fosse comuni contenenti i resti mortali di 4000 vittime, situate nella foresta di Katyn, nei pressi di Smolensk. La responsabilità del massacro venne scaricata sui tedeschi e solo negli anni ’90, con l’apertura degli archivi sovietici, la verità venne a galla. Singolare storia quella della Polonia del Novecento, un secolo di per sè saturo di sangue, ma che ad Est sembra essersi accanito con particolare ferocia. Non solo l’annientamento sistematico della vivace comunità ebraica e la deportazione di “elementi sospetti” verso le profondità kazake e siberiane, ma anche l’espulsione di milioni di tedeschi dalla Prussia e dalla Slesia, rimpiazzati da altrettanti polacchi espulsi dalle regioni occidentali di Bielorussia e Ucraina dopo la loro annessione da parte dell’URSS, e ancora lo spopolamento dei Carpazi con l’esodo forzato di lemki e boyko.

La Rynek è bella da mozzare il fiato. La piccola chiesetta di San Wojciech sembra un giocattolo dinanzi alla mole della basilica di Santa Maria, con le sue inconfondibili due torri campanarie, o al palazzo del tessuto che occupa la porzione centrale della piazza. Notiamo una serie di stand gastronomici e, avvicinandoci, veniamo a scoprire che è in corso il festival dei pierogi, piatto che per il sottoscritto ormai ha acquistato una rilevanza pari alla manna per gli ebrei in fuga dall’Egitto. I prezzi sono molto contenuti e le porzioni sufficienti a sfamare un reggimento di Alpini: abbiamo risolto il problema dei pasti. I dintorni della piazza e le gallerie del palazzo del tessuto traboccano di negozi di souvenir, luoghi che di solito non attirano la mia attenzione, ma ammetto che i gadget di Smok Wawelski mi ispirano simpatia, forse per la leggera somiglianza con Prezzemolo di Gardaland. Incontriamo anche l’equivalente polacco dei centurioni romani, ossia una coppia di ragazzi con uniforme e corazza degli ussari alati, gli stessi cavallerizzi che, al comando del re di Polonia Jan III Sobieski, si lanciarono dalla cima del Kahlenberg piombando sull’esercito nemico, liberando Vienna dall’assedio turco nel 1683.

Mentre passeggiamo per le vie del centro, a Marzia viene la più bella delle idee: perchè non farci un tatuaggio per avere un ricordo indelebile del viaggio? Parte quindi la ricerca di uno studio di tatuatori, mentre evitiamo per un soffio di cadere nella rete di un gruppo di attraenti ragazze immagine di uno dei numerosi night club del centro. La stanchezza accumulata in montagna il giorno precedente si fa presto sentire e, accorgendoci di avere le gambe dure come il legno, decidiamo di rifugiarci dentro un bel pub in stile belga e di rimandare la ricerca all’indomani: il tatuaggio può aspettare, una bella birra gelata no! Il mattino dopo ci infiliamo nel primo studio che incontriamo sul nostro cammino – soltanto dopo ci accorgeremo che il centro è strapieno di tatuatori – e scopriamo di essere baciati dalla fortuna: la tatuatrice ha giusto una mezzora libera, per cui è ben felice di impugnare la macchinetta per noi. Ci indirizza anche verso la più vicina drogheria dove comprare pellicola, salviettine umidificate neutre e crema al pantenolo: al momento di pagare ci rendiamo conto dallo sguardo che la commessa ci ha scambiati per una giovane coppia con pargolo al seguito.

Il kaiser che fa capolino
Foto dell’autore

Dirigendoci verso il Barbacane, una delle ultime vestigia dell’antica cinta muraria nei pressi della porta Florianska, vedo un volto piuttosto familiare fare capolino dalle insegne di negozi e locali: è lui, il Kaiser Franz Josef che con i suoi favoriti osserva con sguardo malinconico la miriade di persone affaccendate lungo la strada. Scopro così l’esistenza di un pub a tema imperial-regio che, purtroppo per me, risulta essere chiuso. Il Barbacane è una possente postazione difensiva di forma circolare, che costituiva un passaggio obbligato per chiunque volesse entrare in città e che venne realizzato sul finire del XV secolo.

Mentre vaghiamo senza meta, ci ricordiamo che al Castello di Wawel è esposto uno dei dipinti più celebri di Leonardo da Vinci, la Dama con l’ermellino: sarebbe un vero peccato non ammirarlo! Lungo il tragitto, che ci farà attraversare per l’ennesima volta tutta la Città Vecchia, mi cade l’occhio su un piccolo negozio di dischi. Ormai sono anni che mantengo una consolidata tradizione, ovvero il tornare da ogni viaggio con almeno un vinile, per cui entriamo di corsa. Il locale è avvolto nella penombra e, come si addice ad ogni negozio specializzato in heavy metal, le pareti sono coperte da poster e bandiere di gruppi musicali. Il proprietario è un po’ lo stereotipo del metallaro attempato che sembra essere rimasto nel periodo a cavallo tra anni ’70 e ’80, mentre il suo assistente sulla ventina sembra un elfo a causa della statura e della cascata di capelli biondi che gli copre gran parte della schiena. Il vecchio alza lo sguardo con aria accigliata e vedendo che parliamo in inglese ci domanda da quale parte del vasto mondo proveniamo e alla nostra risposta esclama “Italia! Sconto!” annuendo con aria grave. Spulcio tutti i dischi del negozietto e, dopo aver superato la proverbiale indecisione che mi assale in luoghi come librerie, fumetterie e appunto negozi di dischi, decido di portare a casa il doppio LP di “Hammerheart” dei Bathory e due dei primi dischi dei polacchi Behemoth. Se io sono contento per gli acquisti, lo è anche il vecchio metallaro, dato che mi riempie di poster e di toppe da trve metalhead. Per nostra sfortuna al castello troviamo una coda interminabile e, come se ciò non bastasse a scoraggiarci, inizia a diluviare, motivo per cui ci rifugiamo nella prima caffetteria che troviamo.

La Rynek poco dopo il crepuscolo
Foto di Marzia Antinori

Nel resto della giornata ci comportiamo come normali turisti, con tanto di cena al festival dei pierogi, con Marzia che addenta uno stinco di maiale grande quanto la sua testa, mentre io mi delizio con dei pierogi saltati nel burro bollente grandi quanto la mia mano: un milione di calorie a morso, ma credetemi non me ne pento minimamente! Torniamo alla stanza, recuperiamo i nostri bagagli e, dopo aver salutato e ringraziato di nuovo l’amico dei canguri per la disponibilità, ci dirigiamo verso la stazione. Il notturno per Vienna ci attende solitario al binario, mentre gruppetti di giovani in viaggio con l’Interrail si avvicinano al capotreno per sapere se ci sono ancora posti liberi. Saliamo a bordo, carichi di bagagli come dei disperati, grazie ai biglietti arrivati per il rotto della cuffia il giorno della partenza e, arrivati al nostro scompartimento, arriva l’amara sorpresa: i nostri compagni di viaggio sono carichi tanto quanto noi ultimi arrivati, per cui, data la mancanza di spazio, ci toccherà occupare le cuccette con parte del bagaglio. Convinto di non essere capito da nessuno inizio ad imprecare come un mitologico incrocio tra uno scaricatore di porto veneto e un toscano inacidito, finchè il tizio nella cuccetta sotto di me mi chiede gentilmente di sollevare il lembo del lenzuolo che pendeva pericolosamente verso di lui. Indovinate in quale lingua me lo chiede? Figura di merda.

Il treno arriva a Vienna poco dopo l’alba, anche se con nostro rammarico scopriamo che il tempo non è dei migliori. Vienna caput mundi, la capitale dell’impero smisurato che le imperial-regie ferrovie collegavano con i più remoti e sperduti angoli della Bucovina e della Transilvania. Vienna, la città della Sezession, di Klimt e di Schiele. Vienna, la città da cui, secondo le saghe familiari tramandate oralmente, proverrebbe la famiglia di mia nonna, fuggita a gambe levate sul finire del Seicento dalle orde del Gran Turco. Sono schifosamente di parte, Vienna è uno di quei luoghi che mi è entrato nel cuore e che continuerà ad occuparne un pezzo fintanto che sarò vivo. Il nostro piano prevede una sosta di tre ore nella capitale austriaca, per cui vorremmo fare un giro in centro. Sfortunatamente il sottoscritto non è riuscito a chiudere occhio durante la notte, sia perchè ho viaggiato tutto il tempo in una posizione innaturale e scomodissima, sia per l’improvviso attacco di meteorismo del nostro compagno di viaggio ipersensibile agli altrui lenzuoli che ha rimbombato nelle mie orecchie per tutta la notte: il mio senso dell’orientamento smette di funzionare. Riusciamo a raggiungere la Stephansplatz e la mole del Duomo grazie alla metropolitana, ma poi iniziamo a vagare senza meta tra Opera, Albertinum e Karlskirche, mentre dal cielo iniziano a cadere secchiate di acqua che a malincuore ci costringono a tornare in stazione. Davvero un gran peccato.

Mentre siamo in viaggio verso Innsbruck inizio a tirare le somme di questa nostra avventura galiziana. Dal punto di vista fisico è stato veramente impegnativo. Tutti e due soffriamo terribilmente il caldo e per la maggior parte del tempo, esclusa la piacevole parentesi carpatica, abbiamo dovuto sopportare temperature molto al di sopra dei 30 gradi, gravati dal peso di armi e bagagli durante gli spostamenti. È stato impegnativo anche dal punto di vista emotivo: non è facile viaggiare attraverso un paesaggio irrimediabilmente contaminato, ma questa consapevolezza l’ho raggiunta l’anno successivo, nel corso della mia seconda spedizione in solitaria, per cui preferisco aspettare e parlarne in maniera esaustiva al mio ritorno dai campi di battaglia di Verdun, dove mi recherò tra due settimane. Si è trattato anche di una esperienza formativa, dato che per la prima volta sono uscito dalla mia zona comfort e mi sono messo in gioco, facendo quello che a tutti gli effetti è un piccolo salto nel buio, andando in Ucraina quando tutte le persone sane di mente me lo sconsigliavano e senza l’ausilio di nessun tipo di guida: per quanto possa sembrare assurdo mi ha reso molto più sicuro di me e delle mie capacità, tanto che l’anno successivo sono partito all’avventura, nella Galizia polacca questa volta, senza aver pianificato tutto in maniera maniacale. Inoltre è stato l’inizio di un amore-ossessione smodato per quella che fu la Galizia e le regioni circostanti. Ho iniziato a documentarmi, a scavare oltre la crosta del mito – e su questo ci sarebbero moltissime cose da dire e probabilmente presto o tardi scriverò qualcosa a proposito – a confrontare la mia visione idealizzata con quella molto più cruda e meno tenera della realtà storica, ho iniziato a leggere e rileggere i cantori di questa terra, da Roth a Franzos passando per Franko e Wittlin. Infine per me questo viaggio e, soprattutto, la realizzazione di questo resoconto è stato un po’ un rito di passaggio verso l’età adulta. Sono sempre stato molto incostante nei miei interessi e finora mi è sempre capitato di lasciare a metà tutto ciò che iniziavo, per cui per me è difficile realizzare di aver finalmente portato a compimento un progetto, anche se per farlo ci sono voluti due anni. Mi rendo conto che da solo non ce l’avrei mai fatta e che buona parte del merito spetta a voi che leggete questo blog, a voi che mi avete ascoltato decantare le bellezze di Leopoli piuttosto che l’orrore di Rawa Ruska per l’ennesima volta senza sbuffare o alzare gli occhi al cielo, a voi che incuriositi mi avete tempestato di domande e a voi che mi avete incoraggiato. Non mi importa se ci conosciamo di persona o solo attraverso l’impersonale comunicazione digitale: grazie; grazie di cuore.

Galizia 2015. Sesta tappa: Przemysl – Zakopane (14-16 agosto)

A spasso nei boschi di Zakopane. Foto dell’autore

Premetto che non mi soffermerò a lungo sul viaggio e questo per due motivi. In primis perchè, specialmente nella tratta fino a Cracovia, tutto è andato liscio come l’olio e non ci sono stati eventi degni di nota e poi perchè ho avuto modo di visitare la regione compresa tra Przemysl e Cracovia nel corso della mia seconda “spedizione” galiziana, per cui ne parlerò in maniera approfondita quando racconterò di quel viaggio.

Ore 7.30 del mattino. Il treno arranca lungo la banchina della stazione di Przemysl, mentre noi ci domandiamo, timorosi, se questo sarà l’ennesimo viaggio della speranza privo di aria condizionata e generi di conforto. Saliamo a bordo dell’Intercity 38102 Kossak e, appena entrati nello scompartimento, veniamo accolti dalla fresca carezza dell’impianto di climatizzazione: deo gratias. Il nome del convoglio è evocativo, un enorme cavallo di ferro che divora la pianura polacca da Oriente verso Occidente, proprio come fecero i cosacchi dello zar un secolo fa e quelli dell’Armata Rossa una manciata di anni dopo. La realtà, tuttavia, è molto diversa dall’immaginazione e il treno, piuttosto che correre, sembra arrancare lungo la massicciata. La rete ferroviaria polacca, infatti, è oggetto di un ambizioso progetto di ammodernamento delle infrastrutture e di razionalizzazione delle stesse, il che comporta un depotenziamento – e talvolta la soppressione – delle linee secondarie e un susseguirsi ininterrotto di cantieri lungo le altre. La linea per Cracovia non fa eccezione ed il convoglio è costretto a muoversi alla mirabolante velocità di 50-60 km/h per non pregiudicare la sicurezza della miriade di operai affaccendati lungo i binari. Se non altro in questo modo è possibile godere al meglio del paesaggio che scorre fuori dal finestrino. La prima cosa che noto è il diverso uso del territorio: se in Ucraina prevalgono i campi coltivati, spesso intervallati da ampi spazi incolti e “selvaggi”, in questo angolo di Polonia prevalgono gli alberi. Su ambedue i lati siamo circondati da fitte e ordinate file di alberi che, a giudicare dalle dimensioni uniformi dei tronchi e dalla loro disposizione, presumo siano destinati alla produzione di legname.

Attraversiamo luoghi i cui nomi sono indissolubilmente legati alla Grande Guerra, come Jaroslav e, soprattutto, Tarnow, dove nella primavera del 1915 le forze austro-tedesche sferrarono una vittoriosa offensiva che costrinse le truppe zariste ad evacuare la Galizia e a ritirarsi ben oltre i confini del 1914. Se nelle Fiandre il fronte rimase sostanzialmente invariato per quasi tutta la durata del conflitto, salvo avanzate estremamente limitate, la caratteristica principale del fronte orientale è la sua enorme mobilità: nel corso dei 4 anni di guerra, la prima linea oscillò avanti e indietro per centinaia di km, una cosa impensabile sul fronte occidentale, dove al costo della vita di migliaia di uomini si poteva avanzare di poche centinaia di metri. Il motivo principale di questa mobilità risiede soprattutto nell’enorme estensione della linea del fronte, dal Baltico alla Bukovina – e dalla fine del 1916, con l’entrata in guerra della Romania, fino alla costa del mar Nero – che rendeva impossibile una concentrazione di fuoco paragonabile a quella presente in Europa occidentale: basti pensare che in Galizia l’esercito austroungarico poteva schierare un fucile ogni due metri, mentre sull’Isonzo si arrivava a tre fucili per metro. A questo va poi aggiunto lo stato primitivo della rete viaria, specialmente in territorio russo, che rendeva impossibile l’afflusso in tempo utile di rinforzi e riserve in caso di sfondamento nemico, costringendo quindi i comandanti a far arretrare l’intera linea del fronte per evitare danni ben maggiori.

A poche file di sedili da noi, viaggia una giovane madre con la figlioletta. La bambina avrà avuto sui quattro-cinque anni e, come tutti i bambini della sua età, si mette a osservare con un misto di curiosità e timidezza gli altri passeggeri, camminando per il vagone, senza tuttavia allontanarsi troppo. Tutto questo finchè a Tarnow non sale a bordo una suora che va a sedersi dietro alla bambina. Appena la piccola si accorge della sua presenza inizia ad emettere versi gutturali degni dei Cannibal Corpse o di qualche gruppo grind marcio: Satana ha le sembianze di una graziosa bimbetta bionda con le guance paffutelle.

Segnaletica montana. Foto dell’autore

La periferia di Cracovia si annuncia con un susseguirsi di capannoni industriali e casermoni popolari in stile sovietico che improvvisamente si sostituiscono alla campagna. Dopo una decina di minuti il treno inizia a rallentare mentre entra nella stazione centrale di Cracovia.  L’edificio è enorme e ci accoglie con la sua babele di scale mobili, schermi su cui compaiono messaggi promozionali e attività commerciali di ogni genere, dal fast food al negozio di abbigliamento. Di mio ho un grosso, grossissimo problema con il concetto moderno di “grande stazione”. A mio parere sono troppo asettiche, troppo simili le une alle altre, del tutto prive di qualsiasi identità, probabilmente a causa del loro cambio di funzione: se in origine erano nodi nella rete dei trasporti, ora sono diventate grandi centri commerciali con a margine la possibilità di prendere il treno e, come ben sappiamo, il centro commerciale è il non-luogo per eccellenza. Si tratta bene o male degli stessi motivi alla base della mio idiosincrasia per le grandi città, spinti però al parossismo. Non ho mai fatto mistero di preferire i piccoli centri, quella provincia che a volte può essere soffocante e opprimente con i suoi innumerevoli difetti, ma al tempo stesso scrigno che conserva il genius loci e l’identità di luoghi e popolazioni: questo viaggio, così come quello successivo, non hanno fatto altro che confermare tutto ciò.

Il complesso ospita anche la stazione delle autocorriere, dove ci rechiamo dopo esserci rifocillati per prendere l’autobus per la tappa successiva del nostro viaggio: Zakopane. La città è incastonata tra le cime dei monti Tatra, la porzione più elevata dei Carpazi, ed è una meta abbastanza rinomata tra i polacchi, specialmente d’inverno. La Capitale d’Inverno della Polonia, come spesso viene chiamata, compare anche in alcune delle mie opere preferita: qui si svolgono alcuni dei capitoli finali dell’immenso “La famiglia Moskat” di Singer ed è a Zakopane che il padre dell’autore di “Maus” viene venduto alla Gestapo dai passatori polacchi a cui si era affidato nella speranza di sfuggire all’Olocausto raggiungendo l’Ungheria. La storia della città durante la seconda guerra mondiale è piuttosto interessante, a cominciare dal fatto che nel dicembre del 1939 e febbraio del 1940, in una delle ville padronali della grande borghesia polacca, si tennero due vertici di alto livello tra funzionari della Gestapo e del NKVD sovietico per organizzare la “pacificazione” della Polonia.

Giusto per rendere il viaggio più “interessante”, il nostro Polskibus arriva con oltre un’ora di ritardo. Durante l’attesa gli altoparlanti diffondono annunci rigorosamente in polacco, mentre nessuno sembra in grado di spiegarci la situazione, cosa che ci mette in un leggero stato di tensione. Usciamo da Cracovia e, dopo giorni di pianura, il terreno inizia ad incresparsi in modo quasi impercettibile, per poi salire vistosamente, mentre l’autobus inizia ad arrampicarsi sui contrafforti dei Carpazi. Il paesaggio fuori dal finestrino assume caratteristiche sempre più familiari, sebbene l’architettura delle abitazioni sia molto caratteristica: sono di legno e presentano un altissimo tetto spiovente, in modo da far scivolare a terra la neve che in inverno cade copiosa. Siamo nella terra dei Gorale, etnonimo che indica i Polacchi delle montagne. Durante l’occupazione della Polonia, la follia della catalogazione razziale operata dai nazisti considerava i Goralenvolk, così venivano chiamati in tedesco, un gradino sopra al resto dei polacchi e pertanto assimilabili alla razza ariana dopo un adeguato processo di germanizzazione. Il tentativo di ingraziarsi i Gorale fu un totale insuccesso, visto che soltanto poche decine di loro aderirono alla causa nazionalsocialista, mentre la stragrande maggioranza partecipò più o meno attivamente alla resistenza.

La cena del bifolco sudtirolese. Foto di Marzia Antinori

Il nostro campo base è il Goodbye Lenin, filiale montana dell’omonimo ostello “ostalgico” di Cracovia, ospitato in una antica fattoria restaurata allo scopo. Si tratta di una sistemazione rustica, lontana dal centro di Zakopane, in una posizione relativamente isolata, tanto che il taxi ci scaricherà a circa 500 metri di distanza vista l’impossibilità di avvicinarsi ulteriormente, ma vicinissima ad uno degli ingressi del Tatra National Park che intendiamo visitare l’indomani. La struttura è veramente carina, anche se ci sono molti meno riferimenti “sovietici” rispetto alla casa madre, e i ragazzi dello staff si prodigano per consigliarci le migliori escursioni da fare in giornata. Lungo la strada principale, a circa un km in direzione del centro, troviamo una piccola trattoria dove vengono servite abbondanti porzioni di piatti della tradizione casareccia, accompagnati da ottima birra alla spina, ad un pretto più che modesto. Con nostra grande sorpresa le due signore che si alternano tra cucina e servizio ai tavoli parlano inglese.

Il mattino dopo il tempo non è dei migliori. Nubi plumbee avvolgono le cime più alte dei Carpazi e il rimbombare del tuono in lontananza sembra sconsigliare di mettersi in marcia. Aspettiamo un paio di ore per decidere il da farsi, ma la voglia di camminare è veramente tanta, per cui azzardiamo e, dopo esserci allacciati gli scarponi, alle 10 in punto ci incamminiamo verso la cresta di confine, a qualche km verso sud. Per poter accedere al parco nazionale dobbiamo pagare un piccolo obolo, non più di un paio di zloty. Sul momento, da acceso sostenitore del diritto all’accesso libero e alla libera fruibilità dei beni naturali, rimango un po’ perplesso, ma ragionandoci su mi rendo conto che al costo di un caffè – tariffa polacca, non italiana – si può contribuire alle spese di gestione del parco, rendendolo di fatto accessibile in sicurezza a tutti. Mi rendo conto di aver aperto una parentesi enorme e di averla liquidata in modo sbrigativo, ma credo che questa non sia la sede adatta per sviscerare una questione di primaria importanza, almeno per me, come questa.

Passeggiando intorno a Zakopane. Foto dell’autore

Il primo tratto del cammino è terrificante. Sono in corso importanti lavori di rimboschimento a seguito di una tempesta di vento che ha abbattuto decine di migliaia di alberi sui Tatra, per cui il terreno reso morbido dall’elevata umidità è stato letteralmente sconvolto dal passaggio dei veicoli pesanti necessari all’opera, rendendo necessaria una discreta prudenza per evitare storte e distorsioni. Per fortuna dopo circa un km ci ritroviamo nuovamente immersi nella foresta, mentre il sentiero inizia a salire. La nostra prima tappa è un rifugio, dove intendiamo fermarci per pranzare, e per raggiungerlo decidiamo di seguire la strada più breve. In poco tempo il sentiero si trasforma in una ripida rampa di ghiaino che massacra le gambe, ma nonostante la nostra mancanza di allenamento riusciamo a procedere a passo spedito, anche se in alcuni tratti ci ritroviamo madidi di sudore e con il fiato corto.  Giungiamo su una piccola cresta e, mentre fotografiamo il paesaggio, il sole decide di fare finalmente capolino tra le nubi, riaccendendo i colori sulle vette e facendoci tirare un sospiro di sollievo per quanto riguarda la situazione meteo. Solo in questo momento ci rendiamo conto che i sentieri della zona pullulano di escursionisti, tanto che in alcuni punti sembra di essere sulla riviera romagnola durante l’alta stagione. Per nostra fortuna abbiamo scelto un percorso non particolarmente battuto, anche se nell’ultima tratta incrociamo diversi gruppi di vacanzieri.

Il rifugio ed i fiori. Foto dell’autore

Il rifugio compare adagiato in una conca invasa dai fiori che sembrano voler sommergere le casupole di legno del soccorso alpino. Il posto pullula di persone, tra escursionisti – a quanto pare anche in Polonia a Ferragosto si fanno le gite – e spettatori di una gara di nordic running che si sta svolgendo in zona. La cucina, per nostra fortuna, è organizzatissima, così che riusciamo a mangiare in tempi umani e a prendere un caffè prima di riprendere la marcia verso la nostra meta, la forcella di confine, nella speranza di trovare meno affollamento. Dopo una mezzora di cammino raggiungiamo un impianto di risalita e, oltre ad apprezzare la pace e la bellezza del paesaggio, mi accorgo che il paesaggio sta cambiando nuovamente. Gli alberi ad alto fusto sono stati sostituiti da macchie di arbusti nani, mentre al posto dell’erba compaiono sempre più spesso muschi e licheni. Poco più in alto troviamo una serie di piccoli laghi di origine glaciale, alcuni dei quali non più grandi di uno stagno. Ci fermiamo un momento lungo la riva dello specchio d’acqua più grande, sia per riprendere un po’ di fiato e inebriarci con l’aria pura della montagna, sia per fotografare i germani che lo hanno eletto a loro dimora. Dopo pochi minuti di cammino incontriamo una coppia che procede in direzione contraria alla nostra. Che il mondo sia piccolo è un detto comune, ma in questo caso anche una grande verità, visto che i due sono romani e sono anche i primi italiani che incrociamo in oltre una settimana di viaggio. Scambiamo alcune parole e ci informiamo sulle condizioni del sentiero. Il ragazzo, in apparenza piuttosto provato, ci mette in guarda dicendo che poco oltre la strada si fa parecchio impegnativa. In effetti dal basso si vede una striscia che ripida si insinua tra le rocce, ma decidiamo di proseguire. Siamo ben oltre la linea della vegetazione, circondati da nuda roccia, e armati di determinazione e buona volontà ci incamminiamo, a nostra insaputa, verso il dramma. In un punto piuttosto esposto inizio a sentire le ginocchia molli, mentre la testa gira e la vista si appanna, escludendo completamente la visione periferica. Il battito cardiaco aumenta vertiginosamente e con esso la respirazione, mentre lungo la schiena inizia a scendere sudore freddo. Sto avendo un principio di attacco di panico. Ci fermiamo un secondo e discutiamo brevemente su cosa fare: non voglio rovinare l’escursione, ma so di non essere nemmeno in grado di continuare in sicurezza con le gambe che possono cedermi in qualsiasi momento. Decido, quindi, di fermarmi sul posto, mentre Marzia proseguirà fino alla meta.

La vista dall’alto. Foto dell’autore

Amo la montagna, probabilmente più di qualsiasi altro luogo. Non si tratta soltanto di una questione identitaria da montanaro e non è nemmeno una questione di preferenza a livello di paesaggio o di ambiente, sebbene riconosca che tutti questi fattori giochino un ruolo importante in questo amore. Per me la montagna è innanzitutto una sfida. Una sfida nei confronti di un ambiente che, seppur sempre più spesso snaturato e ridotto a balocco per turisti senza alcuna preparazione, rimane comunque “selvaggio” e che pertanto richiede una certa attenzione e, soprattutto, un enorme rispetto. Rispetto che al visitatore occasionale spesso manca, con tutti i rischi del caso. La montagna, poi, è una sfida anche verso me stesso. Come avrete probabilmente capito ho dei grossi problemi con l’altezza e con il vuoto, per cui andare in montagna per il sottoscritto è anche cercare di superare limiti e paure, evitando però di oltrepassare la linea del buonsenso. A volte esco vincitore da questo confronto, mentre altre, come in questo caso, torno a casa scornato e con la coda tra le gambe, sebbene il tutto sia lenito dalla consapevolezza di averci comunque provato. Mentre penso a questo, aggrappato ad un masso come un rapace, mi godo quello che per me è uno degli spettacoli più belli del mondo, un qualcosa in grado di ripagare tutti gli sforzi e tutta la fatica, quello che è il premio finale di ogni escursione: la vista che spazia dall’alto.

Le casette e i fiori. Foto dell’autore

Assorto nei miei pensieri non mi accorgo dello scorrere del tempo e quando Marzia è di ritorno ci rendiamo conto che è davvero tardi. Il sole inizia ad essere basso all’orizzonte e le ombre si allungano sul fondovalle: abbiamo ancora un paio di ore prima che scenda la notte e siamo drammaticamente lontani dall’ostello. Iniziamo a scendere il più velocemente possibile e in breve superiamo il laghetto dei germani e l’impianto di risalita. Raggiungiamo la conca del rifugio, ormai completamente deserta e immersa nelle ombre, e iniziamo a salire verso la cresta dove incontriamo alcune persone che, come noi, cercano di affrettarsi. Rimango colpito da alcuni ragazzini che corrono come schegge impazzite sulla ghiaia, mentre mi chiedo come facciano a non cadere in terra e a non sputare i polmoni. Beata gioventù. Davanti a noi abbiamo la parte più impegnativa del percorso, la cresta e la ripida rampa di ghiaino, che richiede una certa dose di prudenza per essere percorsa senza rischiare di farsi del male, per cui siamo costretti a moderare la velocità. A conferma delle insidie celate nel terreno instabile, una ragazza scivola e cade rovinosamente. Ci fermiamo ad aiutarla e, constatato che non si è fatta male, riprendiamo la discesa. Guardiamo l’orologio, controlliamo la posizione del sole e nella nostra mente si affaccia una eventualità che non avremmo mai voluto prendere in considerazione: non riusciremo ad uscire dal bosco prima che faccia buio.

Scendendo dalla montagna, più o meno vittoriosi

Arrivati ai piedi della rampa, mentre le ombre si fanno sempre più fitte, incrociamo diversi partecipanti alla gara di running. Vedendoci ci farfugliano qualcosa e a nostra volta rispondiamo farfugliando qualcosa di simile. Soltanto in seguito scopriremo che si tratta di un saluto. Ecco un’altra cosa che adoro della montagna, incontrare un perfetto sconosciuto e salutarlo con naturalezza. Provate a farlo a Milano o a Roma. Il tempo ormai inizia a stringere, il sole inizia a nascondersi dietro le cime dei Carpazi e tra il fitto degli alberi filtra ormai pochissima luce, costringendoci a rallentare ulteriormente. Imbocchiamo l’ultimo tratto del sentiero quando il sole è dietro l’orizzonte già da diverso tempo e sulla volta celeste si accendono le prime stelle: ormai è notte e nel bosco le tenebre sono talmente fitte che non riusciamo a vedere i nostri piedi. Per fortuna con me ho il frontalino che avevo comprato per fare luce durante l’esplorazione, mai avvenuta purtroppo, dei forti a Przemysl. Il fascio di luce non è potentissimo, ma è sufficiente ad illuminare il terreno davanti a noi, permettendoci così di avanzare in sicurezza. Avvertiamo un po’ di tensione, alcuni pipistrelli svolazzano a pochi centimetri dalle nostre teste, Marzia è piuttosto preoccupata e continua a guardarsi intorno nel timore che qualche animale feroce possa avvicinarsi, mentre io cerco di sdrammatizzare. All’improvviso, ad una trentina scarsa di metri davanti a noi, il fascio di luce finisce su due piccole sfere luminescenti. Si tratta di una piccola volpe, la prima che riesco a vedere a distanza così ravvicinata, e mi fa strano riuscire a vederla a così poca distanza dal centro abitato. Non faccio in tempo a dire “guarda che carina la volpe” che al mio fianco erompe il grido “OHMIODIOCOSACAZZOÈQUELLO” che, oltre a spaventare il sottoscritto, fa scappare a gambe levate il piccolo carnivoro. Fortunatamente stemperiamo la tensione con una risata liberatoria e, in una manciata di minuti, raggiungiamo la strada e con l’essa l’uscita dal parco. Siamo sopravvissuti alla grande impresa montana dell’anno! Con le gambe distrutte arranchiamo fino all’ostello per preparare gli zaini: domani partiremo per Cracovia, ultima tappa del nostro viaggio prima del rientro in Italia.

PS. Le foto fanno abbastanza schifo perchè la mia povera fotocamera ha deciso di suicidarsi durante il viaggio. Vai e insegna agli angeli che anche le compatte possono fare foto decenti.

 

Galizia 2015. Quinta Tappa: Przemysl (12-14 agosto)

Il sistema di fortificazioni di Przemysl.

Un anello di 45 km di diametro, con 44 forti di diverse dimensioni progettati in modo da coprirsi i fianchi a vicenda, con all’interno una seconda cerchia di fortificazioni, nel caso in cui il nemico fosse riuscito in qualche modo a sfondare la linea difensiva. Questa la fortezza di Przemysl, una delle più grandi in Europa, posta a metà strada tra L’viv e Cracovia a difesa dei valichi carpatici e della pianura ungherese di là da quelli. Una superba opera di ingegneria militare, imprendibile sulla carta, che si trasformò suo malgrado nel teatro della più grave sconfitta patita dall’imperial-regio esercito durante il primo conflitto mondiale. Przemysl rappresenta anche l’allegoria perfetta dell’Impero e del suo disfacimento. Nella città fortezza cappellani militari cattolici operavano a fianco di pope ortodossi, di imam bosniaci e rabbini ashkenaziti, gli ordini venivano tradotti in undici lingue diverse e la truppa che difendeva i forti era composta da soldati ungheresi, bosniaci, italiani, slovacchi, romeni e ucraini che combattevano spalla a spalla. Poi, con il perdurare dell’assedio, arrivò la fame. I cavalli della guarnigione vennero macellati una volta che non fu più possibile nutrirli, nel tentativo di reintegrare le misere razioni destinate alle truppe e di prolungare la difesa della fortezza, ma ormai il tempo giocava a favore degli assedianti. Le razioni sempre più misere iniziarono ad influire pesantemente sul morale e sulla coesione tra i soldati. Iniziarono le contese per il cibo con tanto di scontri, anche violenti, tra gruppi di diversa nazionalità. Gli appartenenti alle minoranze nazionali iniziarono a domandarsi che senso ci fosse nel soffrire così tanto per un Impero lontano, mentre gli ufficiali austriaci e magiari iniziarono a dubitare dei loro sottoposti. Ogni tentativo di soccorso venne respinto dai russi che nel frattempo avevano fatto affluire l’artiglieria pesante con cui presero a martellare le postazioni nemiche, fino a quando non arrivò il marzo del 1915. Il 22, dopo il fallimento di una ultima sortita, il comandante della piazzaforte ordinò di far saltare i forti prima di consegnare la città ai russi. Oltre 110.000 uomini, emaciati e con gli occhi arrossati, resi mezzi folli dalla fame, iniziarono la lunga marcia verso i campi di prigionia situati nelle profondità dei possedimenti zaristi. Per la duplice monarchia si trattò di un durissimo colpo, tanto sul piano prettamente militare quanto su quello del prestigio internazionale e del morale dell’opinione pubblica. Non è un caso, quindi, che questa piccola città di provincia sia stata inclusa nel nostro itinerario e che ci sia ritornato anche l’anno successivo.

L’albergo è di fronte alla stazione ferroviaria, scelta non casuale visto che il giorno della partenza dovremo alzarci molto presto, ed è convenientemente vicino al centro, giusto un paio di minuti a piedi. Ha però un unico, enorme difetto: è sprovvisto di aria condizionata. Fatta una doccia decidiamo di andare ad esplorare la cittadina: visto che in ogni caso ci toccherà sudare le canoniche sette camicie, allora è preferibile farlo all’aria aperta.

Vista dalla Rynek. Foto dell’autore

La Rynek è un piccolo gioiello, pieno di verde e di aiuole fiorite su cui si affacciano bei palazzi liberty dalle facciate color pastello, sovrastati dalle cupole barocche delle numerose chiese cattoliche di rito greco e latino. La religione cattolica riveste un ruolo preponderante nella società polacca e questo non è testimoniato soltanto dal numero e dall’opulenza delle chiese, ma anche dai riferimenti a religiosi vittime delle persecuzioni naziste e staliniste contro il clero e, soprattutto, dall’onnipresente figura di Giovanni Paolo II. L’ex pontefice, infatti, è oggetto di una vera e propria venerazione e monumenti a lui dedicati sono spuntati come funghi in ogni angolo del paese. Przemysl, naturalmente, non fa eccezione con la sua statua posizionata in un angolo della piazza e i nugoli di suore che sciamano lungo la strada. Alla ricerca di un tabaccaio e di un bancomat raggiungiamo il fiume San. Attraversarlo mi lascia una strana sensazione addosso. Se oggi il fiume scorre placido verso nord per confluire nella Vistola, le cronache di un secolo fa lo dipingono come rosso del sangue dei soldati uccisi in combattimento. Il reparto del mio bisnonno, il 4° reggimento Tiroler Kaiserjäger, ha combattuto sulle sue rive subendo perdite elevatissime, soprattutto durante l’offensiva autunnale per soccorrere la città assediata. Le truppe tirolesi si attestarono sulla riva orientale del San qualche decina di chilometri a nord di Przemysl e mantennero la posizione prima di essere sloggiate dalla schiacciante superiorità numerica del nemico per essere sospinte fino alle porte di Cracovia.

Il monumento ai caduti della guerra polacco-sovietica. Foto dell’autore

Mentre attraversiamo il ponte, noto alla nostra sinistra, poco più in basso rispetto a noi, quasi a livello del corso d’acqua, un monumento dedicato ai caduti della guerra sovietico-polacca. A differenza di quanto accaduto in Occidente, sul fronte orientale il collasso dei quattro imperi (russo, austro-ungarico, tedesco e ottomano) ebbe strascichi molto più lunghi e meno pacifici, con una serie di guerre che insanguinarono la regione fino alla prima metà degli anni ’20. La più duratura e sanguinosa fu senza ombra di dubbio quella che vide contrapposte da un lato la neonata repubblica di Polonia che, animata dal desiderio di ricostituire una Grande Polonia, invase Lituania, Bielorussia e Ucraina, e dall’altro la Russia bolscevica, all’epoca in lotta su tutti i fronti contro le armate bianche. L’esercito polacco, guidato da Pilsudski, già comandante della legione polacca durante la prima guerra mondiale, occupò in breve tempo Vilnius, Minsk e Kiev, salvo essere travolto dalla controffensiva sovietica che portò l’Armata Rossa fino alle porte di Varsavia. Qui si svolse la battaglia che decise le sorti del conflitto, conosciuta dalla storiografia polacca con il nome di “miracolo della Vistola”: nonostante tutti considerassero la Polonia sul punto di crollare, Pilsudski ordinò un audace attacco che isolò gran parte dell’esercito nemico costringendolo alla resa. La vittoria consentì alla Polonia di sedersi al tavolo delle trattative tenendo il coltello dalla parte del manico, riuscendo così a ottenere Vilnius e tutta l’ex Galizia austroungarica.

Dopo aver fatto il pieno di zloty al primo bancomat disponibile, facciamo dietrofront per tornare nuovamente in centro. Lungo la strada scorgo su un muro una scritta antisemita. Non capisco cosa ci sia scritto, ma il simbolo dell’uguale seguito dalla parola “Jude” e gli adesivi di Blood & Honour sui lampioni risultano inequivocabili. In questo angolo d’Europa il fanatismo cattolico ha sempre viaggiato di pari passo all’antisemitismo, ma è tristemente ironico vedere riferimenti ad organizzazioni dichiaratamente naziste in uno dei paesi che ha patito maggiormente a causa del nazismo e della sua politica genocida nei confronti delle popolazioni slave. Fino al 1939 a Przemysl sorgevano quattro sinagoghe e una parte consistente della cittadinanza era di origine ebraica. Dove sono, ora, gli ebrei di Przemysl? Dove sono i hassidim di Singer con i loro cappelli di pelliccia? Spariti. Kaputt. Vernichtet. Passati per il camino. I sopravvissuti al lungo sonno della ragione che ha colpito l’Europa nella prima metà degli anni ’40 abbandonarono in massa il paese dopo il pogrom di Lodz, datato 1946. Vedere quelle scritte è come ricevere un pugno nello stomaco.

L’autore con il suo amico bronzeo. Foto di Marzia Antinori

Nuovamente sulla Rynek mi imbatto in una statua del buon soldato Sc’veik, personaggio nato dalla penna dello scrittore ceco Jaroslav Hašek. Il romanzo è una critica feroce contro la follia della guerra e l’ottusità della società del tempo: ciò che emerge dalla satira di Hašek è che la condizione di “idiota notorio” del povero Sc’veik è nulla se confrontata all’ottusità della burocrazia militare e all’insensatezza della guerra, tanto da portare il lettore a domandarsi chi sia realmente il pazzo. Purtroppo per noi l’opera è rimasta incompiuta a causa della morte prematura dello scrittore, stroncato dalla tubercolosi nel 1923, ma nonostante questo ebbe un successo enorme, come testimoniano i numerosi riferimenti al buon Sc’veik che compaiono qua e là tra Praga e la Polonia. Mi siedo a fianco della statua e mi faccio scattare una foto che, attualmente, è una delle mie preferite tra quelle che mi ritraggono. Il sole ormai è tramontato, la stanchezza inizia a farsi sentire e l’indomani ci aspetta una sfacchinata non indifferente, per cui andiamo a riposare.

Suonando lungo il San. Foto dell’autore

Anche a Przemysl ho compiuto un enorme errore di valutazione. I forti meglio conservati si trovano tutti ad una discreta distanza dal centro, almeno una decina di chilometri. In condizioni normali non sarebbe certo una distanza insormontabile, ma la prospettiva di dover camminare per ore sotto il sole cocente, senza poterci proteggere dall’afa, non è affatto incoraggiante. Discutiamo sul da farsi e alla fine conveniamo che rischiare il colpo di calore non è cosa saggia, per cui ci limiteremo agli immediati dintorni del centro. Dopo aver fatto colazione in una bella caffetteria notiamo, in una strada laterale, quello che ha tutta l’aria di essere un negozio di strumenti musicali:  finalmente! I proprietari, non più giovani, si dimostrano gentilissimi e fanno di tutto per metterci a nostro agio, arrivando addirittura ad accordare e a farci provare tutte le chitarre presenti in negozio. Per poco più di 100 euro esco con una chitarra acustica che in Italia avrei pagato almeno il doppio e, anche se sul momento non mi rendo conto che portarla fino a Merano si trasformerà in un incubo logistico, mi sento felice come un bambino a Natale. Scendiamo lungo l’argine del San per trovare un po’ di refrigerio e per suonare qualche canzone, ma quello che vedo mi smorza l’entusiasmo. Il lungofiume è costellato di lattine di birra vuote, sacchetti di plastica e altra spazzatura di vario tipo. Alcune coppie di germani nuotano nell’acqua chiazzata qua e là da spesse macchie di schiuma verdognola, mentre poco più a valle, oltre il ponte della ferrovia, un gruppo di abitanti della città fa il bagno nel fiume, mentre io cerco di evitare qualsiasi contatto con l’acqua che mi pare piuttosto insalubre. Vedere un ambiente naturale, anche se inserito in un contesto urbano e quindi fortemente antropizzato, in condizioni di degrado e inquinamento a causa dell’incuria della gente mi lascia sempre l’amaro in bocca. Poco distante da noi un uomo dai folti baffi e dal ventre rotondo da bevitore di birra si siede su una roccia e inizia a bere la prima delle numerose lattine di birra che ha con sè. Sono ragionevolmente sicuro che, una volta vuote, siano rimaste sull’argine del fiume.

Bunker della Linea Molotov. Foto dell’autore

La riva orientale del San è costellata da una serie di bunker di cemento armato, alcuni dei quali molto ben conservati. Si tratta dei resti della Linea Molotov, realizzata dai sovietici dopo la spartizione della Polonia nel 1939 per proteggere i nuovi confini da un possibile attacco tedesco. Przemysl si trovava proprio sulla linea del confine e, fino all’estate del 1941, la città fu divisa in una Przemysl tedesca e in una Przemysl russa: il confine era segnato proprio dal fiume San. Singolare come in questo angolo d’Europa la Storia abbia deciso di manifestarsi con forza negli stessi luoghi, quasi fossero catalizzatori di energie invisibili e ignote. Nonostante l’ingente investimento, la Linea Molotov non riuscì nemmeno a rallentare l’attacco iniziale dell’Operazione Barbarossa: le fortificazioni erano presidiate da un numero insufficiente di soldati e la superiorità della Wehrmacht in termini di capacità strategica e tattica era a dir poco soverchiante. I combattimenti in città si protrassero per qualche giorno, ma al momento della capitolazione delle truppe sovietiche le avanguardie dei Panzerkorps erano già ad est di Leopoli.

C’è un luogo che voglio vedere assolutamente: il cimitero militare. Situato ad una manciata di chilometri dal centro è un obiettivo decisamente più fattibile rispetto al Burek o al Salis Soglio (due delle fortificazioni meglio conservate, ad un tiro di schioppo dal confine ucraino), per cui decidiamo di pranzare e di aspettare che passino le ore più calde del pomeriggio. La cucina nella Galizia polacca è strana o, meglio, è il frutto del sincretismo tra diverse tradizioni gastronomiche che crea una situazione a dir poco imperial-regia. Piatti chiaramente ungheresi compaiono nei menù dei ristoranti tipici al fianco del borsch ucraino o della classica Wienerschnitzel, mentre ricette della tradizione yiddish si accompagnano ad uno dei piatti nazionali polacchi, i pierogi. I pierogi sono dei ravioli, fin troppo simili agli Schlutzkrapfen pusteresi, e sono la salvezza dei vegetariani visto che la maggior parte dei ripieni è a base di verdure. Inutile dire che l’anno successivo, quando sono ritornato in Polonia, i pierogi hanno costituito parte integrante della mia dieta, con conseguenze nefaste sul mio girovita.

Cimitero austroungarico. Foto dell’autore

Il cimitero militare di Przemysl, anche se sarebbe meglio usare il plurale, sorge al margine del cimitero cittadino che si inerpica sul fianco di una collina che a sua volta culmina nel cosiddetto Kopiec Tatarski, una altura che secondo la tradizione è il tumulo funerario di un principe tataro. I cimiteri polacchi sembrano pullulare di vita e, spesso, sono molto più curati delle città dei vivi, segno di un profondissimo rispetto per i propri defunti. Purtroppo la sezione principale del cimitero austroungarico, così come quello tedesco, è chiusa al momento del nostro arrivo, per cui possiamo visitare soltanto quella più piccola, dominata da una grande croce lignea, sotto la quale si trova una targa trilingue (tedesco, ungherese e polacco) che ricorda i morti dell’esercito austroungarico. Croci di pietra solitarie e prive di iscrizioni, decorate con nastrini coi colori nazionali magiari e con il giallo-nero imperiale, sono disposte in file ordinate . Il luogo emana al tempo stesso un senso enorme di pace e di solennità. A poca distanza due croci ortodosse e una grande targa in cirillico ricordano i caduti russi, mentre il cimitero militare germanico richiama la disciplina prussiana, con le sue ordinate fila di slanciate croci di ferro brunito. È strano vedere gli ex nemici riposare fianco a fianco nel loro sonno eterno, ricorda il livellamento egalitario della morte che non fa distinzione alcuna, anche davanti alle innumerevoli vittime sacrificali inghiottite dal moloch della guerra un secolo fa. I sacrari militari sovietici costellano l’Europa da Mosca a Berlino, ma è molto più difficile trovare cimiteri militari russi risalenti alla prima guerra mondiale. Quasi tutti si trovano in Galizia. I bolscevichi considerarono la Grande Guerra come una guerra imperialista combattuta per volere del regime zarista, così in preda al furore iconoclasta spianarono con i bulldozer tutti i cimiteri nelle zone sotto il loro controllo. Quale fosse la colpa, una colpa così grande da giustificare la damnatio memoriae, dei poveri fantaccini mandati a morire, lo sanno soltanto loro. Isolato rispetto al resto del complesso, si trova una struttura che ricorda un bunker, apparentemente abbandonato. Si tratta del cimitero militare germanico della seconda guerra mondiale. Il camposanto è inequivocabilmente meno curato rispetto a quello della Grande Guerra, segno evidente che, nonostante una cristiana pietà per i morti, certe ferite fanno ancora fatica a rimarginarsi, nonostante siano passati settanta anni.

Il sole lentamente si abbassa sull’orizzonte e dalla città dei morti ci godiamo la vista sulla città dei vivi e sulla campagna circostante. Immagino la stessa scena un secolo fa, con il fragore delle artiglierie, il fumo della cordite, il crepitare delle mitragliatrici e delle scariche di fucileria. Senza dubbio il paesaggio che vediamo è uno di quelli che Martin Pollack definirebbe “paesaggio contaminato”. Lentamente torniamo verso la città e ci mettiamo alla ricerca di un posto dove cenare. Per una volta decidiamo di dare sfogo alla nostra voglia di piccoli lussi borghesi e ci accomodiamo in un bel ristorante sulla Rynek. Sicuri di non essere capiti da nessuno ci lanciamo in battute di dubbio gusto e in commenti poco edificanti sui presenti, finchè al momento dell’ordinazione la cameriera non ci dice, in perfetto italiano: “tranquilli ragazzi, potere anche parlare in italiano“. Momento di imbarazzo. Ci guardiamo come si guarderebbero due bambini sorpresi con le mani nella marmellata e assumiamo una colorazione tendente all’amaranto. Sì, siamo riusciti a farci riconoscere anche in Polonia. Poco male, il giorno dopo, di prima mattina, partiremo alla volta di Zakopane, località montana in mezzo ai monti Tatra: Carpazi, stiamo arrivando!