L’occupazione russa della Galizia (1914-1915)

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La Galizia, in rosso, all’interno dell’Impero austro-ungarico. Opera di Ludovic Lepeltier-Kutasi – Opera propria, CC BY-SA 4.0. Fonte Wikimedia Commons

Chi segue questo blog sa bene che la Galizia e la sua storia sono un po’ una mia fissazione e che periodicamente torno a parlarne. Ho scritto la bozza di questo articolo l’anno scorso, ben prima dell’invasione russa in Ucraina, con l’intenzione di pubblicarla come post di riserva durante il periodo di superlavoro autunnale. Alla luce di quanto accaduto — e di certe interpretazioni date — ho però deciso di ampliare il testo cercando di approfondire le tematiche del nazionalismo ucraino e del panslavismo russo. Non sono sicuro di esserci riuscito in così poco spazio: se l’argomento vi interessa e se volete ulteriori approfondimenti lasciatemi un feedback nei commenti oppure contattatemi sui social.

Estrema marca di confine della monarchia asburgica, spesso definito in modo dispregiativo Halb-Asien — mezza Asia — dai funzionari viennesi, il Regno di Galizia e Lodomiria comprendeva parti delle attuali Polonia sud-orientale ed Ucraina occidentale. In base a criteri etnolinguistici il suo territorio può essere separato in due parti, con il corso del fiume San a fare da “spartiacque”: una porzione occidentale, abitata da una maggioranza di lingua polacca, ed una orientale, abitata in prevalenza da Ruteni, con l’eccezione dei centri principali, come L’viv o Przemysl in cui era presente una forte aliquota di abitanti di origine ebraica e polacca.

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Tomba di Ivan Franko a L’viv. Foto dell’autore.

La maggior parte dei ruteni era composta da contadini analfabeti — o allevatori come nel caso degli hutsuli e di altri sottogruppi etnici dei Carpazi — che lavoravano le terre possedute dalla szlachta, la piccola nobiltà feudale polacca. Non rappresentati nell’organo di autogoverno galiziano, la Camera dei deputati della Polonia galiziana o Sejm, erano oggetto di vessazioni e sistematica discriminazione. A partire dal XIX secolo, anche grazie al lavoro di autori come Ivan Franko e Taras Ševčenko, parte del popolo ruteno fu oggetto di un processo di risveglio nazionale, reclamando maggiori diritti e tutele a livello linguistico e culturale. Inizialmente restie a concessioni di alcun tipo, le autorità asburgiche permisero l’insegnamento scolastico della lingua ucraina nella porzione orientale della Galizia a partire dal 1890. Una decisione presa non tanto per un impeto di liberalismo, quanto per cercare di contenere l’influsso del movimento panslavista finanziato dal vicino Impero russo, rappresentato dai cosiddetti russofili, che vedevano nella Russia una sorta di potenza tutrice per tutti i popoli slavi. Le prime elezioni a suffragio universale maschile del 1907 sancirono l’ingresso nel Sejm di cinque deputati russofili a fronte di ben venti afferenti all’area del nazionalismo ucraino.

Nonostante il risultato piuttosto netto, le autorità austro-ungariche continuarono a guardare i ruteni con crescente sospetto. Allo scoppio del primo conflitto mondiale la Galizia venne dichiarata zona militare, con il conseguente passaggio di poteri dall’amministrazione civile a quella militare: venne stilata una lista di personalità ritenute di simpatie russofile, che furono arrestate e trasferite in altre regioni dell’impero; molto spesso di trattava di accuse senza alcun fondamento. L’andamento della campagna galiziana, che sin dalle prime settimane si dimostrò catastrofica per le truppe di Vienna, gettò l’intera linea di comando nel panico. Questo ben presto degenerò in autentica paranoia: l’intera popolazione ucraina fu accusata di essere la quinta colonna dell’esercito zarista e non mancarono esecuzioni sommarie di presunte spie o addirittura trasferimenti forzati di interi villaggi.

Il 4 settembre 1914 L’viv fu raggiunta dalle avanguardie russe, mentre una settimana dopo all’esercito austriaco fu ordinato di ritirarsi lungo la linea del fiume San, abbandonando di fatto la Galizia orientale al nemico. Per poter comprendere meglio le politiche di occupazione è il caso di aprire una piccola parentesi per gettare uno sguardo sulla situazione politica nella Russia di Nicola II.

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Nicola II nel 1912. Fonte Wikipedia

Di forti tendenze autocratiche, lo zar era influenzato tanto dal pensiero panslavista di Nikolaj Danilevskij, quanto dalle teorie del movimento Pochvennichestvo. Se il primo credeva nella necessità di riunire il mondo slavo in una confederazione ortodossa con a capo la Russia, il secondo era un movimento conservatore, ferocemente antilluminista e anti occidentale, che si rifaceva al trinomio autocrazia, ortodossia, nazionalismo che si era formalizzato nella prima metà dell’Ottocento. Lo zar portò quindi avanti un programma di russificazione nelle gubernija abitate da nazionalità non russe, come la Polonia o l’Ucraina. Questo clima fu ulteriormente esasperato dal tentativo rivoluzionario del 1905, che portò alla nascita del movimento ultranazionalista delle Centurie Nere e di un diffuso sentimento antisemita, alimentato dalla pubblicazione dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion e dall’idea che dietro ai rivoluzionari si nascondessero gli ebrei.

Non deve quindi stupire se il nuovo governatore militare, il conte Georgij Brobinskij, il 23 settembre annunciò solennemente ai dignitari e ai membri del clero polacco il seguente programma di governo: la regione era da considerarsi parte della Russia poiché abitata da ucraini, cioè da “piccoli russi”, e in quanto tale sarebbe stata amministrata attraverso lingua, leggi e sistemi russi. Gli orologi furono regolati sull’ora di San Pietroburgo, mentre fu adottato il calendario giuliano all’epoca in uso nell’Impero russo. I negozianti furono costretti a riscrivere le proprie insegne utilizzando l’alfabeto cirillico, mentre nelle vie targhe russe andarono a sostituire quelle polacche. Si passò, quindi, alla neutralizzazione dell’intellighenzia ucraina.

Sin dal 4 settembre l’arcivescovo di L’viv Andrej Šeptyc’kyj, a capo della Chiesa greco-cattolica e di fatto simbolo della causa nazionale ucraina era stato arrestato e trasferito in Russia. Seguirono gli arresti e la deportazione di tutte quelle personalità — medici, avvocati, preti ed insegnanti — che in tempo di pace avevano animato la vita culturale della regione e non erano incappate nella repressione asburgica. In contemporanea le autorità russe imposero la chiusura delle biblioteche, dei circoli di lettura, dei giornali e di qualsiasi altra pubblicazione in lingua ucraina.

Il passo successivo riguardò il sistema scolastico. Furono organizzati corsi di russo per gli insegnanti che sarebbero stati impiegati nella nuova rete di scuole statali in fase di costituzione. Questa avrebbe sostituito le scuole di lingua rutena e polacca, ad eccezione di alcune scuole private a L’viv frequentate dall’élite polacca, a patto che il programma scolastico fosse autorizzato e che fossero impartite almeno cinque ore settimanali di russo.

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Andrej Šeptyc’kyj, arcivescovo di L’viv. Fonte Wikipedia

Vi era infine la questione religiosa, particolarmente spinosa in una regione ed in un’epoca in cui la fede era un tratto distintivo della propria identità ancora più forte della lingua. L’appartenenza alla chiesa greco-cattolica era infatti ciò che più distingueva gli ucraini dai polacchi cattolici e dai russi ortodossi: andare a colpirla avrebbe velocizzato e reso più efficace il programma di russificazione. Da parte russa vi erano tuttavia vedute diverse a proposito. Se Brobinskij aveva in mente una azione morbida da attuarsi sul lungo periodo, il clero ortodosso, rappresentato dall’arcivescovo di Volinia e Zhytomyr Evlogij, propendeva per un approccio più duro e risolutivo.

A partire da febbraio 1915 le pressioni di Evlogij su Brobinskij portarono il governatore ad approvare un decreto che permetteva l’invio di un pope ortodosso in tutte quelle comunità in cui il sacerdote greco-cattolico se ne era andato, anche se ciò era richiesto da una minoranza dei fedeli. Iniziò quindi una sistematica campagna di terrore ai danni del clero ucraino, con arresti e uccisioni. Si ricorse anche all’inganno, convincendo i contadini analfabeti che tra le due dottrine non vi erano differenza di sorta dato che i riti erano simili. Ciononostante di millenovecentosei parrocchie galiziane, soltanto un centinaio intraprese la strada della conversione.

Ancora peggio, se possibile, andò alla consistente popolazione ebraica che si ritrovò a dover fronteggiare l’atavico antisemitismo dei cosacchi e delle autorità zariste. Il primo pogrom si verificò già il 14 agosto a Brody, cittadina di confine famosa per aver dato i natali allo scrittore Joseph Roth. Il 27 settembre anche L’viv fu teatro di un altro pogrom, di proporzioni ancora maggiori, ma in linea generale l’avanzata russa fu costellata di eventi di questo tipo: circa quattrocentomila ebrei fuggirono verso le regioni interne dell’Austria-Ungheria per sfuggire alla violenza del nemico.

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Zone di residenza all’inizio nel Novecento. Maggiore la percentuale di popolazione ebraica, più scuro è il colore. Fonte Wikipedia

L’idea dei militari russi, dal comandante in capo dell’esercito granduca Nikolaj sino ai responsabili dei singoli reparti, era quella di ripulire la Galizia sospingendo la popolazione ebraica al seguito del nemico in ritirata. Nella loro ottica ciò avrebbe protetto le truppe da azioni di spionaggio e dal diffondersi di propaganda sovversiva, oltre a facilitare l’assimilazione della regione e della sua popolazione alla nazione russa. Non mancarono, tuttavia, tentativi di deportazione ad est, verso le Zone di residenza situate ai confini dell’Impero. Nonostante l’opposizione delle autorità centrali, che non volevano un incremento della popolazione ebraica, furono circa cinquantamila gli ebrei galiziani deportati in Russia, mentre al momento della liberazione della provincia, tra la primavera e l’estate 1915, un numero analogo era pronto a subire lo stesso destino.

Seppur limitata a circa un semestre, l’occupazione russa della Galizia sembra anticipare l’orrore che solo un quarto di secolo dopo bagnò di sangue le fertili pianure d’Ucraina. Da un lato la feroce persecuzione antisemita appare un tragico assaggio dell’Olocausto, dall’altro la negazione dell’esistenza di un popolo, di una lingua e di una cultura ucraine ricorda da vicino alcune delle giustificazioni addotte da Putin alla recente invasione.

 

BIBLIOGRAFIA

A. Watson, Il Grande Assedio Di Przemysl, Milano, Rizzoli, 2021 [leggi la recensione]

J. R. Schindler, Fall Of The Double Eagle: The Battle For Galicia And The Demise Of Austria-Hungary, Lincoln, Potomac Books, 2015

M. Rauchensteiner, Der Erste Weltkrieg Und Das Ende Der Habsburgermonarchie, Wien-Köln-Weimar, Böhlau Verlag, 2013

C. Mick, Lemberg, Lwów, L’viv 1914-1947: Violence And Ethnicity In A Contested City, West Lafayette, Purdue University Press, 2016

P. Bushkovitch, Breve storia della Russia. Dalle origini a Putin, Torino, Einaudi, 2013

Galizia 2015. Quarta tappa: L’viv – Przemysl (12 agosto)

Murales in quel di Leopoli. Foto dell'autore

Murales in quel di Leopoli.
Foto dell’autore

Twierda Przemysl. Festung Premissel. Fortezza di Przemysl. Sono tanti i nomi di questa impronunciabile cittadina di provincia, situata ad una manciata di km dal confine polacco – ucraino, ma tutti riconducono inevitabilmente al ruolo militare svolto durante il primo conflitto mondiale. La città, infatti, rappresentava un baluardo austro-ungarico a difesa dei passi carpatici, al di là dei quali si trova la piana pannonica e con essa Budapest. Prima di dedicarci a questo, però, vale la pena raccontare come siamo riusciti a raggiungerla partendo da L’viv. Sebbene i due centri siano separati da appena un centinaio di chilometri, il tragitto che ci ha portati da L’viv a Przemysl – e di conseguenza dall’Ucraina alla Polonia – è stato il segmento più avventuroso e rocambolesco del nostro intero viaggio in Europa Orientale, anche perchè le uniche informazioni in mio possesso erano estremamente frammentarie e non verificate, per cui mi sono dovuto ingegnare direttamente sul posto venendo meno, per una volta, alla mia organizzazione teutonica e al mio bisogno psicofisico di avere i biglietti in mano fin da prima della partenza. Non dovendo fare i conti con degli orari fissi, ne approfittiamo per un ultimo giro di saluto ad una città che mi ha rubato un pezzo di cuore e che rimarrà per sempre nei miei ricordi.

Chi ha già letto gli altri “capitoli” di questo racconto di viaggio saprà che sin dal nostro arrivo in Ucraina siamo stati ossessionati dall’acquisto di una buona chitarra ad un prezzo ragionevole, con tanto di disavventure con negozianti alquanto inquietanti: non possiamo andarcene da Leopoli senza tentare una ultima volta. Armato di pazienza e di una traballante connessione internet, inizio una meticolosa ricerca che ben presto porta ai risultati sperati: nelle immediate vicinanze dell’albergo, in una parallela di Svobody Prospekt, ce n’è uno. Si tratta di una rivendita ufficiale della Trembita, la locale industria produttrice di strumenti a corda, specializzata nella realizzazione di strumenti tradizionali come la bandura e di chitarre. Insomma, sembra essere il posto giusto per noi, per cui ci tuffiamo in strada verso la nostra terra promessa. Seguendo le indicazioni accuratamente trascritte sul mio fido quadernetto, attraversiamo un paio di vie costeggiate da palazzi gradevolmente decorati con sgargianti murales e in breve tempo raggiungiamo la nostra meta. Amara delusione: sotto l’insegna ci accoglie una vetrina ricoperta con pagine di giornale e un foglio ci informa che il negozio è stato trasferito in una nuova sede in una parte a noi ignota della città. Dannazione!

Tornando mestamente verso l’albergo, purtroppo assistiamo ad una scena che avremmo preferito non vedere. Sul marciapiede notiamo una vecchia babushka curva nel suo vestito nero, con uno scialle dello stesso colore a coprirle il capo e il volto segnato da rughe profonde. Insieme a lei un cane adulto, simile ad un pastore tedesco, e tre cuccioli che, ad occhio, avranno avuto non più di qualche mese. Improvvisamente la vecchia afferra i cuccioli e li infila sgarbatamente in un grosso sacco, quasi fossero delle palle di stracci, e imprecando si incammina verso chissà dove. Una ragazza prova ad intervenire, le due iniziano a parlare, ma a causa della barriera linguistica non capiamo nulla di quello che si stanno dicendo. Dal sacco inizia a gocciolare un liquido che chiazza l’asfalto: i cani, comprensibilmente spaventati e disorientati, devono aver rilassato la vescica. A posteriori abbiamo definito la scena come disturbante e, credetemi, lo è stato per davvero. Si è trattato di una delle cose più sgradevoli che mi è capitato di vedere dal vivo, senza il filtro distanziatore dello schermo TV o del PC, e ancora oggi, ad un anno di distanza, continuo a provare una decisa sensazione di fastidio a pensarci.

Per toglierci dalla mente questo brutto episodio decidiamo di tornare sulla Rynok : ci sembra il modo migliore per accomiatarci dall’ex capoluogo di Galizia e per bere un buon caffé nel locale descritto nel post precedente. Chi viaggia zaino in spalla sa bene che trascinarsi dietro tutto quel peso finisce col mettere un discreto appetito, per cui, oltre all’espresso, ordiniamo anche qualcosa da mangiare. Scorriamo la carta fino a quando non incontriamo lei, la regina incontrastata della pasticceria viennese, la Sachertorte. Non abbiamo bisogno di dirci nulla, basta solo uno sguardo per ordinarne una fetta a testa. Le nostre aspettative vengono ampiamente ripagate, dato che il dolce non ha nulla da invidiare a quello preparato nell’omonimo hotel viennese, sebbene amici residenti da anni nella capitale austriaca mi abbiano assicurato che la torta venduta dalla Konditorei Aida sia ancora piú buona: personalmente non ho ancora avuto occasione di fare un confronto, ma é una cosa in programma per la prossima trasferta austriaca. Mentre le mie papille gustative vanno in visibilio, non posso fare a meno di pensare a come sia incredibile che, a cento anni di distanza, nonostante la distanza e gli innumerevoli confini e barriere che sono state erette, nonostante gli sconvolgimenti del secolo breve, un pezzo di Mitteleuropa sia ancora vivo e pulsante in questo lembo di Ucraina.

Pienamente soddisfatti dall’esperienza gastronomica ci indirizziamo verso la stazione, luogo da cui dovrebbe partire la marshrutka diretta verso il confine con la Polonia. In realtá non ne ho la piú pallida idea, ma continuo ad ostentare sicurezza per non far preoccupare la mia compagna di viaggio. Ormai siamo a mattina inoltrata, quasi a mezzogiorno, e l’aria si é arroventata, rendendo il nostro spostamento ancora piú sfiancante. Il lungo viale che dall’Opera conduce alla nostra meta é piuttosto trafficato e ogni tanto vediamo passare qualche minibus letteralmente straripante di passeggeri, una visione tutt’altro che confortante e, ahinoi, profetica. A peggiorare la situazione, il nostro piano di fare scorte di vettovaglie per il viaggio naufraga miseramente, dato che tutti i produktyi che incontriamo lungo il cammino sembrano vendere soltanto vodka scadente, aringhe in salamoia e insaccati. Che stia accadendo anche in Ucraina quanto giá successo da noi, con i piccoli negozi di vicinato stritolati dalla concorrenza del moloch della grande distribuzione organizzata? Difficile dirlo, non avendo sufficienti elementi in mano. In ogni caso quello delle trasformazioni nell’ex mondo sovietico dopo il crollo dell’URSS é un tema che meriterebbe un approfondimento in una sede piú appropriata.

La scritta “Vokzal” ed il piazzale ingombro di veicoli sanciscono il nostro arrivo a destinazione… e per il sottoscritto il momento di mettere le carte in tavola.

– “Andre, ma ora quale dobbiamo prendere?”
– “Ehm… non lo so, sai?”

In meno di un secondo due iridi verdi mi si piantano negli occhi folgorandomi e scrutandomi nell’animo come solo l’occhio indagatore di Sauron sarebbe in grado di fare.

– “Cosa vorrebbe dire che non lo sai?”

Mi guardo attorno, osservando il piazzale arroventato dal sole d’agosto allo zenit e l’ingresso della stazione che sembra chiamarmi con canto di sirena promettendomi ombra e refrigerio.

– “Vuol dire che entriamo a chiedere informazioni!”

Avvolto in una penombra crepuscolare, oppresso da una cappa di calore che ti si appiccica addosso come una seconda pelle, l’atrio é semi deserto: come appare diverso rispetto al giorno del nostro arrivo, mentre pullulava di vita, ora che sembra la stazione di una cittá fantasma! Con la coda dell’occhio noto, sulla destra, un cartello che sembra indicare la presenza di un ufficio informazioni, per cui seguiamo la freccia ed ecco che dietro l’angolo si materializza uno sportello. Ci avviciniamo e dall’altra parte del vetro troviamo una ragazza sulla ventina intenta a farsi gli affari propri messaggiando al telefono con un ventilatore puntato in faccia. Mi schiarisco la voce. Nulla. Riprovo con piú energia, ma ottengo lo stesso identico risultato, per cui opto per una strategia diversa. Parto in quarta con uno squillante “excuse me” e finalmente la ragazza si volta verso di me con un moto di insofferenza ed uno sguardo traducibile in “ma vuoi davvero farmi lavorare?”. Sfoggio il mio sorriso brevettato da paraculo e spiego il mio problema. Lei si addolcisce e, posseduta dal demone della gentilezza, inizia a spiegarmi in un perfetto inglese tutto quello che devo fare: dobbiamo uscire sul piazzale, andare a destra e cercare il minibus giallo diretto a Shehyni. Per non sbagliare prende un foglietto su cui scrive il nome della localitá in cirillico e me lo consegna. Grazie ignota impiegata delle ferrovie ucraine, mi hai salvato la vita!

Inside the marshrutka. Foto dell'autore

Inside the marshrutka.
Foto dell’autore

La marshrutka altro non é che un vecchio minibus da una ventina di posti che, in barba ad ogni norma di sicurezza ed omologazione, sono magicamente aumentati a quasi trenta. Da parte sua l’autista sembra la versione post sovietica di Mr. Crocodile Dundee: sguardo di chi la sa lunga, catena d’oro al collo, camicia di cotone completamente sbottonata che lascia in bella mostra un fisico asciutto e cotto dal sole e sigaretta al lato della bocca. In altre parole nel mio cervello inizia a lampeggiare la gigantesca scritta “AVVENTURA”. L’uomo ci fa cenno di salire a bordo e al mio tentativo di pagare risponde con un eloquente gesto della mano ad indicare che, per espletare queste formalitá, c’é tutto il tempo del mondo. Ci sistemiamo sul fondo del mezzo, nei posti che sembrano piú comodi e con maggior spazio dove posare i nostri ingombranti zaini. Nella scatola di latta il calore é intollerabile, tanto che Marzia crolla spossata non appena tocca il sedile, mentre io, nonostante stia grondando sudore, sono eccitato come un ragazzino che si trova a Gardaland per la prima volta e continuo a guardarmi intorno impaziente di partire per la Polonia. Il tempo di fumare una sigaretta ed ecco che l’autista viene ad incassare. Una manciata di grivne, un pugno di Goleador a testa, ecco a quanto ammonta l’obolo per questo Caronte del terzo millennio, traghettatore di anime lungo lo Stige d’asfalto che fende la pianura galiziana come un lungo nastro nero. Partenza!

Leaving L'viv. Foto dell'autore

Leaving L’viv.
Foto dell’autore

Man mano che ci allontaniamo da Leopoli e dai centri commerciali che assediano la sua periferia, seguendo una superstrada nuova di zecca, infrastruttura di servizio realizzata per gli Europei di calcio del 2012 ospitati proprio in Ucraina e Polonia, il mezzo si riempie di passeggeri. Lo fa in fermate sperdute nel nulla, a volte apparentemente non segnate da nessun cartello, spesso poste su strade laterali, tortuosi tratturi che fendono la fertile campagna ucraina dipartendosi dal percorso principale, dove il minibus sfreccia a folle velocitá con i portelli spalancati per impedirci di asfissiare, sollevando nubi di polvere e sobbalzando pericolosamente sulle numerose buche. A salire a bordo sono soprattutto anziani, muti guardiani di questa terra da cui le nuove generazioni fuggono sedotte dalle luci della grandi cittá e dalle promesse di una vita migliore in Unione Europea, Fata Morgana distante appena qualche decina di chilometri. Tra tutti mi colpisce un uomo di etá indefinibile, ma sicuramente oltre l’ottantina, seduto in uno dei primi posti. Mi piace immaginarlo come uno dei custodi della memoria del luogo, un testimone degli sconvolgimenti che si sono abbattuti su questa fetta d’Europa durante il secondo atto del suicidio del continente, una di quelle voci preziose che si stanno lentamente spegnendo una dietro l’altra. Forse era troppo piccolo per ricordarsi del settembre del ’39, quando Stalin pugnaló alle spalle la Polonia giá ferita a morte dalla Wehrmacht, annettendo le attuali province occidentali di Bielorussia e Ucraina, ma quasi certamente si deve ricordare di Barbarossa, coi panzer tedeschi a divorare la pianura diretti ad Est, dei pogrom contro ebrei e polacchi, del ritorno dell’Armata Rossa vittoriosa nel ’44 e con essa del NKVD. Chissá quali storie potrebbe raccontare questo vecchio e chissá se c’é qualcuno pronto ad ascoltarle e a trascriverle prima che la sua voce si spenga per sempre.

Lost in Galizia. Foto dell'autore

Lost in Galizia.
Foto dell’autore

Guardando fuori dal finestrino mi sento catapultato in uno dei romanzi di Roth – per altro galiziano di Brody – o di Singer, come se il tempo si fosse cristallizzato conservando un mondo che non esiste piú, spazzato via dalla stupiditá dell’uomo. I campi coltivati riarsi dal sole, i piccoli villaggi costituiti da una manciata di isbe ad un piano circondate dall’orto a sua volta racchiuso da una staccionata, i riflessi dorati e delle cupole a cipolla delle piccole chiese ortodosse, cosí minute da sembrare modelli in scala. L’unica nota ucronica rispetto al mondo descritto da quelli che sono due tra i miei autori preferiti, é l’immancabile monumento ai caduti della Grande Guerra Patriottica, ossia la Seconda Guerra Mondiale nei paesi dell’ex URSS: una statua di pietra bianca che raffigura un soldato mentre poggia l’elmetto su uno scudo sul quale sono riportati dei caratteri in cirillico e le date 1941-1945. La sensazione di viaggiare nel tempo raggiunge il suo apice quando, attraversando l’ennesimo ammasso di casupole, ci troviamo a superare un carretto trainato da un cavallo, con le redini tenute saldamente da un vecchio: una scena di vita campagnola che sembra uscita dal 1915 e non dal secolo successivo.

Piú ci avviciniamo alla Polonia, piú il paesaggio cambia. La monotonia della pianura viene spezzata dal corrugarsi della terra in una serie di piccole colline, apparentemente insignificanti, ma rilevanti dal punto di vista militare. Sebbene siano alte solo poche decine di metri, queste piccole alture permettono di dominare il territorio circostante dalla loro sommitá, rendendole di fatto ottimali alla realizzazione di una linea difensiva. D’altro canto possono anche essere sfruttate da un esercito inseguitore per celare i propri movimenti e lanciare fulminei attacchi contro il nemico, ed é proprio quello che accadde nel settembre del 1914. Immagino lungo questa strada i resti della Terza e della Quarta Armata, decimate nella difesa di Leopoli e nella disfatta di Rawa Ruska. Immagino decine di migliaia di uomini in grigio-azzurro con il morale sotto i tacchi in fuga, a piedi, verso il San e le fortificazioni di Przemysl, mentre alle loro calcagna ci sono i cosacchi dello zar, instancabili cavallerizzi della steppa, pronti a lanciarsi in un turbinio di sciabole contro i gruppi di sbandati per poi ritirarsi dietro le colline. In questo inferno, sinistro presagio di altre ritirate, ancora piú sanguinose, avvenute soltanto un trentennio dopo, c’é anche il mio bisnonno.

Non é soltanto il paesaggio naturale a cambiare, ma anche quello umano. I grumi di casupole lasciano il posto a veri e propri paesi di modeste dimensioni, tanto da essere dotati di piccole stazioni degli autobus. In uno di questi, a breve distanza dal confine, vengo sorpreso dalla mole della Sala del Regno dei Testimoni di Geova, notevolmente piú grande della chiesa. Mentre ripartiamo un altro minibus va in panne ed i passeggeri, una dozzina di donnoni con braccia grandi come tronchi, scendono per spingerlo fino alla vicina fermata. Da quanto tempo siamo in viaggio? Credevo che il tragitto sarebbe durato poco piú di un’ora, ma guardando l’orologio scopro che abbiamo abbondantemente superato le due ore. Gli altri passeggeri non mostrano segni d’insofferenza, nemmeno quando l’autista mette le quattro frecce e scende per andare a comprare le sigarette: a quanto pare nulla di insolito, anche se mi rendo conto di aver bisogno di sgranchire le gambe. Perso in questi pensieri mi accorgo a malapena che, in lontananza, appare una lunga colonna di camion e con essa il profilo della dogana. La marshrutka svolta su una stradina laterale e in un paio di minuti ci troviamo in una piccola stazioncina costruita in legno: finalmente siamo arrivati a Shegyni!

Nella mia ingenuitá mi ero convinto che il grande ostacolo di questo viaggio sarebbe stato entrare e uscire dall’Ucraina, mentre non avevo nemmeno preso in considerazione eventuali difficoltá sul lato polacco della frontiera: d’altra parte siamo sempre in Unione Europea, no? Ingenuo. Saranno proprio i doganieri polacchi a farmi provare sulla pelle il vero significato di “confine”. Il controllo ucraino é poco piú di una formalitá. Il soldato in servizio ci parla in un ottimo inglese, chiedendoci se abbiamo qualcosa da dichiarare e se la permanenza in Ucraina é stata di nostro piacimento. Prende i nostri passaporti, appone il timbro di uscita e ci saluta augurandoci tutto il bene del mondo per il proseguimento del nostro viaggio. Usciamo dalla porta e ci troviamo nella “terra di nessuno”, circondati su due lati da due alte recinzioni metalliche che ci costringono ad un lungo percorso obbligato, reso tortuoso dalla presenza di alcuni edifici di servizio, senza nessuna possibilitá di riparo dal sole cocente. Vediamo piú di una persona intenta a nascondersi bottiglie di vodka e pacchetti di sigarette sotto ai vestiti. Si tratta degli abitanti dei villaggi della zona che praticano contrabbando su piccola scala, rivendendo in Polonia vodka e sigarette ucraine, nel tentativo di guadagnare qualche grivna extra per mantenere la famiglia. Avvicinandoci alla dogana polacca il percorso si sdoppia: a destra si snoda una lunghissima fila di persone, mentre a sinistra ci attende la desolata corsia riservata ai possessori di un passaporto comunitario. Grazie alla fortuna di avere in tasca il pezzo di carta “giusto” in pochi minuti raggiungiamo la nostra meta, la Polonia. A separarci solo una porta a vetri. Chiusa. Provo ad attirare l’attenzione delle persone all’interno, ma non ottengo nessun risultato se non quello di innervosirmi. Mentre sono lí per lí dal lanciare terribili maledizioni nell’oscura lingua di Mordor, sento una mano posarsi abbastanza rozzamente sulla mia spalla. Dal nulla é spuntata una colossale versione slava di Rambo, a dir poco inquietante nella sua divisa total black con pistola ben visibile nella fondina sulla coscia. Come se nulla fosse inizia a parlarmi a macchinetta in polacco, idioma notoriamente riconosciuto come lingua franca in tutto il Sistema Solare, rimanendo sorpreso dal mio non aver compreso mezza parola del suo discorso, cosa che probabilmente avrá intuito dal mio sguardo vacuo. Dopo un rapido controllo ai nostri passaporti, prende la radio e comunica ai colleghi all’interno di aprire la porta per farci entrare.

Alle pareti noto diversi cartelloni con scritte a caratteri cubitali tanto in ucraino, quanto in polacco, corredate da simboli molto poco equivocabili, tra cui spicca su tutti un panino sbarrato. Pur non comprendendo la forma del messaggio, ne e conosco la sostanza, ossia il divieto di introdurre all’interno dell’Unione Europea qualsiasi cibo non confezionato. Paolo Rumiz nel suo “Transeuropa Express” descrive molto bene le conseguenze di questa normativa, mentre é in viaggio sul treno che lo sta portando a Kalinigrad, l’ex Königsberg oggi enclave russa sul Baltico stretta tra Polonia e Lituania: ogni panino, salume, formaggio “non conforme” deve essere consumato al momento oppure deve essere gettato. Proprio cosí, quella stessa Unione Europea che stanzia consistenti fondi per lanciare campagne contro lo spreco alimentare, lascia marcire ogni anno tonnellate di cibo perfettamente commestibile davanti all’uscio di casa. Per fortuna non ho dovuto assistere ad una scena del genere, mi avrebbe spezzato il cuore.

Il controllo alla dogana é brutale. Veniamo controllati uno ad uno da una inflessibile agente bionda che parla solo polacco. Quando mi chiede – “Vodka? Vino? Tabak?” – se ho qualcosa da dichiarare tiro fuori dallo zaino la bottiglia di vino acquistata a Leopoli, ma non basta. Dopo aver indossato un paio di guanti in lattice inizia a frugare in ogni tasca, in ogni busta, addirittura anche nella biancheria sporca, alla ricerca di chissá cosa. A Marzia arriverá a contare le sigarette nel pacchetto. Dopo lo zaino tocca a me. Devo svuotare le tasche ed essere controllato scrupolosamente con un piccolo metal detector, nemmeno stessi prendendo l’aereo, e solo dopo aver passato questa ennesima prova sono ammesso al suo cospetto: l’uomo che controlla i passaporti. Mi trovo davanti ad un ometto che, tronfio nel suo gabbiotto, ha tutto l’aspetto di un grigio funzionario. Mi osserva con aria di sufficienza, quasi mi stesse studiando, sfoglia con aria ostentatamente annoiata tutte le pagine del mio passaporto, mi domanda per l’ennesima volta il motivo del viaggio. Vedo che prova piacere nell’esercitare su di me quella briciola di potere che dai piani alti é rotolata fino alla sua postazione, si sente appagato mentre mi tiene sulle spine facendomi perdere tempo. Piccolo, grigio uomo.

È ormai tardo pomeriggio quando mettiamo piede nel territorio della repubblica polacca e, non avendo toccato cibo dal mattino, abbiamo un discreto appetito. Intorno a noi un florilegio di bandiere comunitarie sembra sbattere in faccia ai vicini l’appartenenza al club dell’Europa ricca. Passiamo di fronte ad un mercatino improvvisato, un paio di bancarelle di fortuna su cui sono esposte pile di vestiti e qualche piccolo elettrodomestico, mentre cerchiamo un kantor dove cambiare le grivne che abbiamo in tasca in zloty, la valuta locale. Compiuta l’operazione ci infiliamo nel primo locale che sembra offrire del cibo. Il posto non sembra male e dalla cucina si spande un buon profumo, ma la ragazza dietro al bancone sembra accoglierci con ostilitá: é taciturna, ha uno sguardo tagliente e metodi sbrigativi. Marzia ordina un hamburger che le viene servito accompagnato da una montagna di cipolla fritta, mentre io ripiego su una porzione di frikty, visto che le patatine fritte sono l’unica pietanza priva di carne sul menú.

La stazione di Przemysl. Foto dell'autore.

La stazione di Przemysl.
Foto dell’autore.

Con lo stomaco pieno posso iniziare a pensare a come raggiungere Przemysl, distante solo una manciata di chilometri. Non facciamo in tempo a raggiungere la statale che un minibus, questa volta piuttosto moderno, si ferma sul ciglio della strada. Dall’abitacolo spunta un tizio corpulento che, come tutti i polacchi incontrati fino a questo momento, parla velocissimo, facendoci cenno di salire a bordo. Incollato su uno dei finestrini vedo un foglio con la scritta “Medyka -> Przemysl”, per cui saliamo di buon grado sul mezzo insieme ad un altro paio di passeggeri. Due zloty a testa e si parte a tavoletta, anche questa volta con le porte spalancate per far circolare un po’ di aria, in direzione della cittá-fortezza. Scendiamo davanti alla stazione ferroviaria, il nostro albergo é ad una cinquantina di metri. Abbiamo un disperato bisogno di fare una doccia, ma la consapevolezza di essere arrivati basta a metterci di buon umore: Festung Premissel, sono qui per te.

Galizia 2015. Terza tappa: L’viv (10-12 agosto) parte seconda

Cimitero militare di Huijce. Foto presa da wikipedia

Cimitero militare di Huijce.
Foto presa da wikipedia

I cimiteri, talvolta, possono raccontarci la storia di un luogo molto meglio di tanti libri di testo. La storia istituzionalizzata può essere piegata ad assecondare interessi politici, diventando foriera di storture, rimozioni o addirittura negazioni – come nel caso della storiografia turca che nega il genocidio degli Armeni o quella giapponese per quanto riguarda lo stupro di Nanchino – perdendo la sua natura di disciplina rigorosa e finendo inevitabilmente per svilirsi, riducendosi al ruolo di strumento ausiliario del potere. Peggio ancora la storia può diventare mitologia e agiografia, creatrice di miti nazionali e narrazioni tossiche utili a dividere i popoli e a creare nemici interni ed esterni, spesso con risultati tragici. Attualmente processi di questo tipo sono in corso in Polonia ed in Ucraina, con la riscrittura di interi capitoli di storia del ventesimo secolo e con la riabilitazione di personaggi definibili, nella migliore delle ipotesi, come “impresentabili”, segno tangibile di come quelle forze che squassarono la Galizia e l’Europa intera un secolo fa non sparirono con la fine del primo conflitto mondiale, ma continuarono a scorrere sottotraccia per riemergere ciclicamente, come un fiume carsico, nel corso dei successivi cento anni. Il modo migliore per cercare di seguire il percorso sotterraneo di queste forze, in Galizia, è passeggiare nei cimiteri, leggendo quello che lapidi e monumenti funebri hanno da dirci: il mutare dei nomi, delle lingue, le aree abbandonate da decenni ci parlano di esodi, deportazioni e sostituzione di popolazioni, mentre le steli in onore ai caduti ci suggeriscono che i conti aperti dall’omicidio di Sarajevo non si conclusero con la dissoluzione dell’imperial-regia compagine, ma continuarono per diversi anni in una miriade di conflitti su scala regionale, come la guerra polacco-sovietica, la guerra polacco-cecoslovacca, la guerra polacco-ucraina e altre ancora.

Non è difficile imbattersi in queste testimonianze in Galizia. Qui i cimiteri spuntano come funghi dopo la pioggia, siano essi un pugno di lapidi fuori da una chiesetta sperduta nella campagna o sacrari militari alle pendici dei Carpazi. Nell’ultimo post ho accennato brevemente alla battaglia di Rawa Ruska e alla sonora batosta che l’esercito zarista inflisse a quello asburgico. In fase di pianificazione avevo programmato di fermarmi sul vecchio campo di battaglia prima di attraversare la vicina frontiera con la Polonia e di visitare il cimitero dei Kaiserjäger a Huijce, un minuscolo villaggio sperduto nella campagna ucraina. In quasi ogni paesino sudtirolese c’è un monumento o una stele che commemora i caduti della Grande Guerra e in ognuno di essi c’è una sfilza di nomi con accanto un generico “Galizien” ad indicare il luogo di morte: se mio bisnonno fosse stato tra di loro adesso non sarei qui. Inoltre, parlando con amici e conoscenti ho scoperto che più d’uno ha avuto nonni, bisnonni o altri parenti che hanno combattuto sul fronte orientale, talvolta lasciandoci la pelle. Una serie di validissimi motivi per far visita a questi poveri diavoli strappati alla loro vita di montagna per essere mandati al macello in un paesaggio alieno dall’imperizia degli alti comandi imperial-regi. C’è poi un altro motivo per passare in questo angolo d’Europa, in quanto Rawa Ruska è uno di quei luoghi in cui agli orrori del primo conflitto mondiale sono andati a sovrapporsi anche quelli del secondo. Negli anni ’40 la cittadina ucraina era, così come lo è oggi, un importante snodo ferroviario situato sulla linea che univa Lublino e Leopoli. La quasi totalità degli ebrei della Galizia orientale, gli stessi Ostjuden descritti da Roth, transitarono di qui a bordo dei treni diretti al campo di sterminio di Belzec, oggi situato ad una manciata di chilometri dalla frontiera polacca. Per qualche settimana ho provato a spulciare blog e forum vari nella speranza di carpire notizie utili a scoprire come raggiungere la cittadina, ma alla fine mi sono dovuto arrendere di fronte a muri di testo in cirillico e ad una pressocchè totale mancanza di informazioni. Il colpo di grazia alla mia determinazione, infine, è giunto quando ho scoperto che il valico di frontiera è chiuso da almeno una decina di anni al traffico privato. Peccato.

Scorcio del centro. Foto dell'autore

Scorcio del centro.
Foto dell’autore

La sera leoni, la mattina… beh, direi che ci siamo capiti. Il nuovo giorno ci trova rattrappiti in posizione fetale a maledirci per la notte di bagordi, con un retrogusto di morte in bocca, un livello di idratazione pari a quello del lago d’Aral e le tempie che martellano quanto l’artiglieria sovietica in quel di Stalingrado. Facendo appello a forze che non credevo di possedere riesco ad alzarmi e, guardandomi allo specchio, mi rendo conto di avere le fattezze delle figure raffigurate nelle tele di Munch. Bravo Andrea, complimenti vivissimi. Ad ogni modo è inutile piangere sul latte versato, abbiamo una città da esplorare! Scendiamo nella caffetteria dell’albergo per fare colazione e assumere la nostra dose quotidiana di caffeina, sostanza essenziale per cercare di riassumere fattezze umane. Optiamo per l’unica opzione dolce, complice anche la seducente dicitura “coffee mug” – so di suonare blasfemo, ma a me il caffè nero alla tedesca non dispiace affatto – e sul nostro tavolo si materializzano due generose porzioni di un dolce dalle sembianze intermedie tra una omelette e una crepe, il tutto accompagnato da una generosa dose di smetana, la versione locale della panna acida, leggermente diversa dalla creme fraiche francese e dalla sour cream anglosassone, ma ugualmente buona. Il dolce è ripieno di ricotta e uvetta, cosa che mi ricorda fin dalla prima forchettata il nostrano Topfenstrudel: la somiglianza tra la cucina di casa e quella galiziana è incredibile, nonostante ci siano mille chilometri di distanza ed evidentissime differenze culturali.

Corroborati dalla deliziosa – e altrettanto pesante – colazione contadina, puntiamo verso la Rynok, la piazza che durante la permanenza a Leopoli è stata un po’ il centro del nostro mondo. Seduto ai piedi della Dimora Nera troviamo un ragazzo con degli espositori. Incuriositi ci avviciniamo per curiosare e scopriamo che si tratta di “steampunk magnets” autoprodotti a partire da vecchi francobolli, monete e materiali di recupero come ingranaggi, lenti fotografiche e così via. L’idea ci piace tantissimo, così come i soggetti raffigurati che spaziano da personaggi storici come Alessandro Magno a Star Wars e South Park. La mia attenzione, però, viene calamitata da un lavoro enorme dedicato a Juri Gagarin, il primo cosmonauta sovietico ad andare nello spazio… e a tornare. Provo a chiedere il prezzo, ma il ragazzo mi guarda con l’aria di chi la sa lunga e con un sorriso beffardo stampato sulle labbra mi dice che il pezzo non è in vendita, in quanto facente parte della sua collezione privata. Ne nasce una bella chiacchierata storica, che partendo dai “vecchi tempi” approda all’attualità e all’enorme svalutazione della grivna che, a suo dire, ormai non ha più alcun valore, motivo per cui potrei acquistare un bel magnete a sole mille grivne. L’idea non mi dispiacerebbe, solo che non ho tale somma in tasca, per cui propongo di andare a prelevare e tornare nel giro di una decina di minuti. Il ragazzo non mi sembra particolarmente convinto, per cui ci salutiamo. Peccato.

Confondersi con l'arredo urbano per evitare di farsi travolgere. Foto dell'autore

Confondersi con l’arredo urbano per evitare di farsi travolgere. Foto dell’autore

Restiamo in centro per fare un po’ di foto e qualche ripresa, cercando di evitare gli autoctoni che, a quanto pare, sembrano incapaci di aggirare eventuali ostacoli posti sul loro percorso e finiscono col travolgerci e coprirci di insulti. Purtroppo riusciamo a produrre soltanto un fiume di orribili ed irripetibili blasfemie e, come se ciò non bastasse, col passare delle ore l’aria inizia ad arroventarsi, amplificando tragicamente i postumi che ci attanagliano, tanto che ad un certo punto decidiamo di rientrare in albergo sventolando bandiera bianca. Su un angolo della piazza, però, notiamo un via vai di persone che entrano ed escono da un palazzo. Incuriositi ci avviciniamo e facciamo la conoscenza con quello che poi è diventato il locale dove ho lasciato il cuore, ovvero la Lviv Coffee Mining Manufactor (L’vivs’ka Kopal’nja Kavi in ucraino), ovvero la locale industria del caffè. Il locale occupa l’intero piano terra dell’edificio, compresi vari livelli sotterranei, con tanto di negozio e caffetteria. All’ingresso siamo accolti da un tostacaffè delle dimensioni di una betoniera, dentro il quale due nerboruti operai gettano badilate di preziosi chicchi, in modo da permettere ai visitatori di vedere con i propri occhi una delle fasi fondamentali nella realizzazione di un buon caffè. Considerate le nostre precarie condizioni psico-fisiche optiamo per sederci e ci azzardiamo ad ordinare un caffè: mai scelta migliore, visto che si è trattato di un espresso migliore rispetto a tanti bevuti in Italia. La cosa può apparentemente stupire e/o risultare inaccettabile per buona parte degli italiani, tuttavia la cultura del caffè in Europa nasce a Vienna, dopo l’assedio turco del 1683, quando nella capitale austriaca venne aperto il primo cafè e questo eccellente espresso non è altro che una delle tante piccole impronte imperial-regie disseminate qua e là per la cultura galiziana.

Decido di non potermene andare a mani vuote da un posto del genere, per cui mi lancio a testa bassa nello shop alla ricerca di qualcosa di carino ed ecco che davanti ai miei occhi si materializza una lunga teoria di macinini a mano, un oggetto che ho sempre voluto avere, memore dell’infanzia passata a giocare con quello di mia nonna. Chiedo ad un commesso di indicarmi quale sia la miscela di chicchi più forte tra le numerose presenti in negozio e lui mi mostra un bel barattolo rosso e nero: benissimo, sono due dei miei colori preferiti e sono anche abbinati! Soddisfatti e rinfrancati dalla caffeina ci incamminiamo verso l’albergo. Arrivati sotto l’edificio notiamo, dall’altra parte della strada, un banchetto di Pravyi Sektor, un movimento ultranazionalista che ha giocato un ruolo importante negli scontri di piazza Maidan a Kiev e che al momento dispone di alcuni reparti armati impiegati nel Donbass contro i separatisti filorussi. I militanti sono tutti giovanissimi: nonostante le mimetiche e i capelli rasati donino loro un aspetto marziale, si vede benissimo che si tratta di ragazzini ancora imberbi, quasi sicuramente minorenni. Sono combattuto, da un lato vorrei attraversare la strada per cercare un confronto, per fare loro qualche domanda sulla situazione ucraina e provare a capire cosa si trova dentro le loro teste, dall’altro mi rendo conto che gente come loro cerca di aprirmi la testa da una quindicina di anni a questa parte. Incrocio per un attimo il loro sguardo e vedo occhi d’un azzurro così intenso da sembrare ghiaccio, ma a raggelarmi il sangue è quello che vedo oltre le iridi, un abisso di fanatismo e di indottrinamento: lo stesso sguardo delle Waffen SS  nelle foto d’epoca del secondo conflitto mondiale. Nella migliore tradizione nietzscheana sento di essere scrutato a mia volta da quella voragine in un crescendo di disagio, mentre nella mia mente va formandosi la sensazione che spettacoli del genere non potranno che diventare più comuni. Mi si serra lo stomaco, per cui saliamo in camera.

Anche qui non riesco a fare a meno di sbirciare dalla finestra, per cui cerco di distrarmi studiando gli acquisti della giornata a partire dal caffè. Osservo attentamente la confezione e trovo la scritta “banderivs’ka“, ossia “banderista”. Sgrano gli occhi stupefatto, mi giro verso la mia compagna di viaggio ed esordisco con: “Marzia, ho come l’impressione di aver comprato un caffè fascista“.  Facciamo un piccolo passo indietro.

Caffè fascistissimo. Foto dell'autore

Caffè fascistissimo.
Foto dell’autore

Banderista è un aggettivo riconducibile a Stepan Bandera, personaggio assai discutibile elevato al rango di eroe nazionale dai nazionalisti ucraini, specialmente nelle regioni occidentali del paese, dove è oggetto di una vera e propria venerazione. Nato in Galizia fu attivo fin da giovanissimo nelle fila dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini (OUN), di cui diventò ben presto il leader.  Imprigionato dal governo polacco per aver orchestrato l’omicidio di un ministro, venne liberato in seguito all’occupazione tedesca della Polonia. Collaborò con i nazisti, organizzando gruppi mobili che avrebbero accompagnato le colonne della Wehrmacht durante le fasi iniziali dell’attacco all’URSS che, in ossequio alle clausole del patto Molotov-Ribbentrop, aveva annesso la porzione orientale dello stato polacco, Leopoli compresa. Arrestato dai nazisti a seguito dell’Atto di proclamazione dello stato ucraino e per questo deportato a Sachsenhausen, venne nuovamente liberato per guidare l’Esercito Insurrezionale Ucraino (UPA), braccio militare dell’OUN che raccoglieva l’eredità dei gruppi mobili organizzati da Bandera all’inizio della guerra. Dopo aver combattuto contro la Wehrmacht, l’UPA divenne strumento dei tedeschi contro l’Armata Rossa e i partigiani polacchi dell’Armia Krajowa, secondo il modello già applicato nei Balcani con i cetnici serbi e altre formazioni collaborazioniste. L’UPA si distinse, soprattutto in Volinia, per la feroce persecuzione ai danni della popolazione polacca ed ebraica, con il chiaro intento di ripulire la regione da tutti i non ucraini. Ritorniamo al 2015. Spiego alla mia perplessa amica quanto scritto qui sopra e in tutta risposta ricevo una fragorosa risata: la giusta punizione per non aver controllato l’etichetta prima dell’acquisto.

Il mio piano di viaggio per questo pomeriggio prevede una visita al cimitero monumentale di Lychakiv, il modo migliore per comprendere a pieno la storia recente di questa città. Realizzato sul finire del Settecento per volontà degli Asburgo, in circa quaranta ettari di superficie ospita le spoglie dell’antica intellighenzia cittadina e dei caduti di tutte le guerre del ventesimo secolo. Può sembrare incredibile, ma nello stesso camposanto si possono trovare a breve distanza macellati e macellai, vittime della repressione operata dal NKVD e caduti sovietici della Grande Guerra Patriottica, caduti asburgici e zaristi della prima guerra mondiale, militari polacchi e volontari ucraini inquadrati nelle Waffen SS. Non sto scherzando. Nell’areale dedicato all’Esercito Nazionale Ucraino, formazione collaborazionista creata all’inizio del 1945, si trova un monumento in memoria della 14° divisione delle Waffen SS “Galizien” che è ancora oggi oggetto di culto da parte dei nazionalisti. Si tratta, insomma, di un luogo particolare che, a mio avviso, merita di essere visitato, nonostante la sua posizione decentrata renda necessaria una discreta scarpinata per raggiungerlo. Passiamo le ore più calde della giornata a sonnecchiare in camera e, una volta arrivate le quattro del pomeriggio, ci armiamo di coraggio e partiamo alla volta della nostra meta. Non avendo pranzato e patendo terribilmente il gran caldo, decidiamo di prendere un milkshake per ovviare ai due problemi in un colpo solo: errore fatale. Sul momento le bevande ci rinfrescano e contribuiscono  a placare i morsi della fame, ma in una decina di minuti accade l’irreparabile. L’emicrania che ha accompagnato Marzia fin dal risveglio peggiora improvvisamente diventando insopportabile, mentre il mio stomaco è in subbuglio come la Pietrogrado del 1917. Proviamo a resistere stoicamente, ma dopo qualche centinaio di metri gettiamo la spugna: siamo appena a metà strada e proseguire nella camminata in queste condizioni sarebbe una inutile tortura, per cui non ci resta che tornare in albergo con la coda tra le gambe. Quando si viaggia gli imprevisti sono all’ordine del giorno e da un certo punto di vista è un bene che sia così. Ogni imprevisto può diventare un aneddoto da raccontare e in un report di viaggio può aiutare a spezzare quella che spesso diventa una tediosa successione di eventi, inoltre spinge il viaggiatore ad elaborare soluzioni, che a loro volta possono offrire delle esperienze nuove, come in questo caso. Per rientrare al “campo base” prendiamo una scorciatoia, anzichè ripercorrere a ritroso la strada dell’andata. Questa via alternativa, che passa attraverso scorci di Leopoli che altrimenti non avremmo mai visto, ci porta davanti ad uno dei tanti mercati coperti della città. Da una delle entrate riusciamo a scorgere una bancarella carica di frutti, ma la cosa più interessante non si trova dentro la struttura, bensì sul marciapiede antistante la stessa. Lungo la via, infatti, ci sono numerose babushke che dalle campagne vengono in città a vendere le eccedenze dell’orto, nel tentativo di rimpolpare le misere pensioni. Sui teli posati sull’asfalto vedo cetrioli, pomodori e altri ortaggi, mentre sui volti delle nonnine, incorniciati da foulard variopinti, leggo la fatica di una vita passata a lavorare nei campi.

Verso la periferia della città. Foto dell'autore

Verso la periferia della città. Foto dell’autore

Collassiamo appena entrati in camera. Dopo un paio d’ore riapro gli occhi e, rinfrancato dalla dormita, decido di fare una passeggiata. Punto una traversa di Svobody Prospekt e punto verso la periferia, camminando senza fretta. Guardandomi intorno osservo il cambiare degli elementi architettonici man mano che mi allontano dal centro. I palazzi barocchi e art nouveau lasciano spazio a palazzi più recenti e in qualche stradina laterale compaiono i primi palazzi in stile sovietico che, nonostante l’aspetto leggermente cadente, non risultano sgradevoli alla vista. Sono talmente preso dallo studio delle facciate dei palazzi che non mi accorgo del pericolo incombente se non quando me lo trovo davanti ed è ormai troppo tardi per fuggire. Davanti a me si materializza una giovane coppia, abbigliata con sobria eleganza, che inizia a parlare a macchinetta in ucraino sventolandomi una serie di volantini sotto il naso. Cerco di defilarmi facendo capire loro che non sono in grado di comprendere una singola parola del discorso, ma la ragazza non demorde e, anzi, si anima di un furore apostolico e inizia a parlare in un inglese smozzicato sbattendomi il volantino davanti agli occhi. La scritta “Watchtower International” toglie ogni dubbio sulle reali intenzioni della coppia: sono Testimoni di Geova e il sottoscritto è riuscito a diventare il gentile da convertire anche a centinaia di chilometri da casa. Inizio a ripetere come un mantra che non sono assolutamente interessata ad abbracciare una nuova fede, mentre intimamente inizio a rimpiangere le politiche antireligiose sovietiche, finchè la ragazza non si arrende mandandomi letteralmente all’inferno accompagnando il tutto con uno sguardo disgustatissimo. Grazie mille, in effetti preferisco la compagnia dei peccatori a quella dei probiviri.

Verso la periferia della città, parte seconda. Foto dell'autore

Verso la periferia della città, parte seconda. Foto dell’autore

Quella con gli zelanti religiosi non è l’unica “disavventura” della serata. Dopo cena, infatti, decidiamo di salutare Leopoli andando a bere qualcosa di rigorosamente analcoolico in un locale vicino all’albergo. Ci sediamo al tavolo, ordiniamo da bere e iniziamo una estenuante attesa. Dopo una ventina di minuti la mia pazienza è giunta al limite, tanto che propongo senza mezzi termini – e senza successo – di andare a dormire. Complice la mancanza del posacenere, attacchiamo bottone con il ragazzo seduto al tavolo di fianco al nostro. Si chiama Aleksej, è di Kiev, fa il carpentiere e dimostra fin da subito un “discreto” interesse per Marzia, tanto che una volta chiarito il tipo di rapporto che ci lega inizia a sorridere semi inebetito con gli occhi a cuore, mentre io mangio la foglia e inizio a ridere sotto i baffi. La conversazione è rugginosa, lui parla poco inglese e noi nessuna parola di ucraino. Provo ad azzardare qualche parola di russo, ma vengo fulminato da uno sguardo glaciale che vale più di mille parole, per cui desisto da ulteriori tentativi. Il tenebroso di Kiev ha occhi solo per la mia amica e tra un sorso di birra – i propositi di una serata analcoolica sono venuti meno nel momento in cui il nostro nuovo amico ha ordinato tre birre – e una fumata di narghilè il tempo vola e ben presto ci vediamo costretti a rincasare. Aleksej ci accompagna fin sotto l’albergo e la delusione che si può leggere nei suoi occhi quando scopre che la serata avrà un epilogo diverso da quanto sperato è immensa. Ammetto di essere una persona orribile, ma ho trovato questo miscuglio di delusione – di lui – e imbarazzo – di lei – estremamente divertente.

Con la delusione del bel tenebroso di Kiev si conclude il nostro ultimo giorno di permanenza a Leopoli e in Ucraina. Il giorno successivo partiremo alla volta della Polonia e della Festung Premissel, la città-fortezza di Przemysl, teatro della più grande sconfitta dell’esercito austro-ungarico durante il primo conflitto mondiale. Un viaggio a dir poco avventuroso a bordo di uno sgangherato minibus. Al prossimo post.

 

Galizia 2015. Terza tappa: L’viv (10-12 agosto) parte prima

Vista della ratusha, il municipio di Leopoli. Foto dell'autore

Vista della ratusha, il municipio di Leopoli.
Foto dell’autore

Questo terzo post è stato un vero e proprio parto. Per mesi sono stato a fissare il foglio bianco senza riuscire a dare una forma coerente ai pensieri che si affollavano nella mia mente. Necessario, quindi, lasciar sedimentare, lasciare alla razionalità lo spazio fino a quel momento occupato dalla troppa emotività. Perchè, a ben vedere con il senno del poi, Leopoli, la L’viv odierna, la Lwow polacca, la Lemberg imperial-regia di mio bisnonno e degli Ostjuden galiziani, è troppo ricca di Storia e storie per poter essere digerita in poco tempo.

Scendiamo dal treno poco dopo le sei del mattino, ancora storditi dalla lunghezza del viaggio notturno e dal ritrovarci catapultati in una realtà che immaginiamo lontanissima dalla nostra. Sopra di noi l’ennesima volta in ferro battuto, così simile a quella di Budapest Keleti, quasi a voler sottolineare l’eredità asburgica di questa parte d’Ucraina, mentre lungo i binari orde di pendolari si affrettano a salire e scendere dai convogli in sosta. Non possiamo dedicare troppo tempo all’esplorazione dell’edificio, per cui cerchiamo di guadagnare il più velocemente possibile l’uscita. Giunti nell’atrio ci affacciamo sul piazzale antistante e veniamo accolti da un marasma di minibus che occupano tutto lo spazio disponibile. Si tratta delle famigerate “marshrutke“, minibus a nove posti diffusissimi come mezzo di trasporto pubblico in tutti i paesi del blocco ex sovietico. Viaggiare a bordo di questi scomodi ma economici veicoli è un’esperienza unica, ma di questo parleremo nel prossimo capitolo di questa nostra avventura galiziana.

Turismo molesto nella Rynok. Foto di Marzia Antinori

Turismo molesto nella Rynok.
Foto di Marzia Antinori

La stazione è in una posizione piuttosto decentrata, per cui dovremo affrontare una discreta camminata per raggiungere l’albergo, dal nome emblematicamente imperial-regio di “Hotel Wien”, strategicamente posizionato all’estremità meridionale della Svobody Prospekt, la via principale del centro storico. Arrivando di prima mattina, possiamo godere di qualche ora di tregua dal caldo soffocante che caratterizza le estati continentali, per cui iniziamo a muoverci a passo spedito, corroborati dall’aria fresca che aiuterà a svegliarci. L’impressione è quella di muoversi in un mondo “altro” rispetto a quello a cui siamo abituati, un mondo che sembra trasudare un’aura di decadenza post-sovietica. Attenzione, decadenza e non degrado, perchè nonostante l’aspetto cadente di alcuni edifici, l’impressione generale è quella di un certo ordine e pulizia, sensazione che diventa sempre più forte mano a mano che ci avviciniamo al centro. Ad un certo punto ci imbattiamo in un gruppo di donne intente a ramazzare il selciato e, mentre passiamo loro accanto, una signora di mezza età ci rivolge la parola, prima in ucraino e poi in un inglese impeccabile, offrendoci un tour della città con suo marito nei panni di guida. Evidentemente Leopoli è una città a vocazione turistica – cosa di cui avremo conferma nel corso della nostra permanenza – e i suoi abitanti cercano di integrare i miseri stipendi reinventandosi come guide turistiche. Colti alla sprovvista decliniamo la gentile offerta, anche perchè stanchi e affamati, ma col senno del poi mi rendo conto che si è trattato di un errore madornale: chissà quanto sarebbe stata più ricca la nostra esperienza se avessimo accettato!

Il teatro dell'Opera al tramonto. Foto dell'Autore

Il teatro dell’Opera al tramonto.
Foto dell’autore

Il sole illumina di una luce dorata le strade e le facciate dei palazzi quando raggiungiamo l’Opera, situata all’estremità settentrionale di Svobody Prospekt. È un sole che è estraneo, un sole che ricorda Samarcanda e la Via della Seta, totalmente diverso da quello delle Alpi, che qui mi pare scialbo e pallido. Non potendo fare il check-in in albergo prima di una certa ora, ne approfittiamo per esplorare il centro. L’impronta asburgica è facilmente avvertibile, con le facciate dei palazzi e l’impianto urbanistico che danno l’impressione di trovarsi a Vienna o a Budapest e non in Ucraina. Per quanto possa sembrare assurdo mi sento più a casa qui, nell’anticamera della steppa euroasiatica, piuttosto che a Verona o a Milano. Attraverso l’intrico di vie e viuzze raggiungiamo la Rynok, la piazza centrale, dove un tempo si svolgeva il mercato, circondata su quattro lati da edifici rinascimentali restaurati di recente, ognuno con le sue peculiarità. Tra tutti si distingue la cosiddetta “dimora nera”, un tempo abitazione di un ricco mercante fiorentino. Oggi le bancarelle che circondano la ratusha, il municipio, non vendono più generi alimentari, bensì souvenir, segno della presenza di un buon flusso turistico. Ad una prima impressione, però, si tratta di un turismo diverso da quello occidentale, almeno in apparenza più rispettoso delle consuetudini locali e non invadente: spero che Leopoli non debba mai subire il triste destino di quelle città che hanno svenduto la loro anima al moloch dell’industria turistica e del turismo di massa diventando un grande parco giochi per visitatori mordi e fuggi, sarebbe un dolore enorme da sopportare, pari al vedere Venezia violata quotidianamente dalle grandi navi da crociera. Curiosando tra negozietti e bancarelle la mia attenzione viene monopolizzata da una finta targa automobilistica realizzata sulla falsariga delle targhe degli stati americani: “Galicia State – Lemberg”. Inutile dire che l’ho comprata senza pensarci due volte.

Souvenir tamarri in casa dell'autore.

Souvenir tamarri in casa dell’autore.

Leggere Lemberg è come fare un tuffo indietro di un secolo, al tempo in cui la capitale della Galizia austriaca si ritrovò al centro dei primi violentissimi combattimenti tra l’armata zarista e quella della duplice monarchia. Il comando austriaco peccò di imprudenza, sottovalutando l’esercito russo, nella convinzione di trovarsi di fronte lo stesso colosso dai piedi di argilla duramente sconfitto dai giapponesi in Manciuria appena un decennio prima. Il realtà i russi, approfittando del mese intercorso tra la dichiarazione di guerra e l’inizio effettivo dei combattimenti, riuscirono a completare la mobilitazione in modo incredibilmente rapido ed efficace, riuscendo così ad assicurarsi la piena superiorità numerica lungo tutto il fronte. Il piano della k.u.k. Armee – l’imperial-regio esercito – era estremamente semplice: il grosso delle truppe avrebbe attaccato a nord, in direzione di Lublino, agendo in concerto con le truppe tedesche di stanza nella Prussia Orientale, in modo da tagliare fuori il saliente polacco, mentre ad est un numero più contenuto di uomini avrebbe tenuto impegnate le riserve russe puntando verso il centro dell’Ucraina. Il piano, in apparenza ben strutturato, faceva in realtà affidamento su troppe variabili che, come spesso accade in questi casi, non si verificarono. In primo luogo, come già accennato, l’esercito zarista godeva di una schiacciante superiorità numerica lungo tutto il fronte, dal Baltico al mar Nero, eventualità che gli austriaci non avevano nemmeno preso in considerazione, mentre l’esercito tedesco, duramente impegnato sulla Marna e sull’Aisne, aveva lasciato il fronte orientale completamente sguarnito in modo da inviare il maggior numero possibile di uomini nel mattatoio occidentale.

Una serie di grossolani errori da parte russa consentirono agli imperial-regi di prevalere a Krasnik e a Komarov su di un nemico numericamente più consistente, aprendosi in questo modo la strada verso Lublino e, al contempo, di confermare l’apparente debolezza dell’esercito zarista. Ad est, tuttavia, le cose andarono molto diversamente fin da subito. I russi, superato il confine e conquistata la città di Ternopil, intercettarono le forze austroungariche lungo il corso del fiume Złota Lipa, infliggendo loro una sonora sconfitta e constringendo gli imperial-regi a trincerarsi lungo un altro corso d’acqua, il Gniła Lipa. Sottovalutando l’entità delle forze nemiche, il comando della k.u.k. Armee ordinò di lanciare il contrattacco, con l’unica conseguenza di logorare le truppe, già in forte inferiorità numerica, che collassarono sotto la spinta del rullo compressore russo. Per evitare la capitolazione di Leopoli, lasciata sguarnita dalle truppe in ritirata, i comandi imperial-regi ordinarono alla quarta armata, impiegata nel settore di Lublino, di ripiegare verso sud in modo da organizzare una nuova linea di difesa. Si trattò di un errore fatale. Gli austriaci vennero intercettati da soverchianti forze nemiche a Rawa Ruska, una sessantina di chilometri a nordovest di Leopoli. Gli scontri imperversarono per una settimana e si conclusero in un massacro che dissanguò gli austroungarici: interi reparti, tra cui un intero reggimento di Kaiserjäger, vennero spazzati via e la stessa quarta armata scampò per miracolo all’annientamento; il fronte crollò e fu ordinata la ritirata generale che ben presto si trasformò in una rotta disordinata. I russi, che nel frattempo erano entrati a Leopoli il 3 settembre, lanciarono all’inseguimento del nemico orde di cosacchi che fecero strage dei reparti sbandati, impedendo agli austriaci di organizzare una linea di difesa sul fiume San e infliggendo un colpo mortale al prestigio e al morale delle truppe austroungariche. Per rendersene conto è sufficiente leggere il diario del celebre filosofo Ludwig Wittgenstein, volontario in Galizia a bordo di un pattugliatore fluviale, che l’13 settembre scrisse: “Oggi, alle prime ore del mattino, abbiamo abbandonato la nave con tutto il carico […] i russi ci stanno alle calcagna. Ho assistito a scene atroci. Non chiudo occhio da trenta ore, mi sento debolissimo e non c’è da sperare in nessun aiuto esterno“. La situazione era talmente caotica che Paolo Rumiz, nel suo “Come cavalli che dormono in piedi”, parla di intere tradotte, cariche di truppe spostate in fretta e furia dal fronte serbo a quello galiziano, intercettate e catturate dai russi alla stazione di Stryi. Gli imperial-regi arretrarono fino ai Carpazi, dove allestirono una improvvisata linea di difesa che, però, venne forzata in più punti dai russi, che entrarono vittoriosi a Bartenfeld, all’epoca Regno d’Ungheria, arrivando così a minacciare Budapest e la stessa Vienna, prima di essere respinti. Nel frattempo, nella piazzaforte di Przemysł, oltre centomila uomini rimasero isolati dietro le linee nemiche. Da qualche parte in questo enorme dramma umano c’era anche il mio bisnonno, la ragione che mi ha spinto a intraprendere questo viaggio.

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La “Dimora Nera”. Foto dell’autore

Ritorniamo nel 2015 e ad altri eventi che, nonostante l’apparente comicità, si sono rivelati carichi di pathos e dramma per il nostro uomo-ansia, cioè il sottoscritto. Al nostro arrivo in Ucraina siamo del tutto sprovvisti di valuta locale a causa dell’impossibilità di reperirla in Italia. Una delle probabili cause è l’enorme svalutazione della grivna ucraina nel corso dell’ultimo anno, che è passata da un giorno all’altro dalle dieci alle venticinque grivne per un euro. Certo, magari sarebbe stato carino se in banca avessero evitato di ridermi in faccia. Ad ogni modo ci fermiamo al primo bancomat ed è qui che inizia la tragedia: la mia carta non viene accettata. Riprovo ed il verdetto è sempre lo stesso. Prime imprecazioni in turkmeno. Marzia cerca di calmarmi, ricordandomi che continuando così finirò col morire giovane, prova ad usare la sua carta e ottiene lo stesso risultato. Imprecazioni in accadico e maledizioni nella lingua oscura di Mordor. Con me, fortunatamente, ho anche la carta di credito, ma mi è stato caldamente consigliato di usarla solo nei terminali di banche internazionali, onde evitare il rischio di clonazione e furto di dati, per cui mi rassegno e iniziamo a cercare un kantor, un cambiavalute, dove cambiare gli ultimi venti euro in contanti che ho in tasca. Ne troviamo uno a poca distanza dall’Opera e, una volta completata l’operazione, ne approfittiamo per fare colazione.

Con lo stomaco pieno e un po’ di caffeina in corpo riesco a guardarmi attorno con maggiore lucidità. In una piazzetta incontriamo un mercatino delle pulci e pieni di entusiasmo ci lanciamo alla ricerca di oggetti risalenti al periodo sovietico. Passando tra le bancarelle, però, l’entusiasmo lascia ben presto spazio alla delusione: di materiale “sovietico” non c’è traccia, salvo componenti di vecchie macchine fotografiche made in URSS e qualche spilletta gettata alla rinfusa su un tavolino.  Non manca, invece, un sacco di paccottiglia dal “vago” sapore patrioteggiante e antirusso, tra cui merita una menzione la carta igienica raffigurante il presidente russo Vladimir Putin. Noto anche molta altra merce dall’aspetto molto meno innocente, come mazze chiodate marchiate con il tryzub, il tridente simbolo nazionale ucraino, varia oggettistica con chiari rimandi all’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini, responsabile di vari crimini contro l’umanità durante il secondo conflitto mondiale, fino ad arrivare a magliette con simboli e motti inequivocabilmente nazisti. Ripenso a quanto visto nel corso della mattinata, alle ragazze con i vestiti abbinati in modo da formare i colori della bandiera ucraina, alle magliette riportanti motti nazionalisti indossate da ragazzini di forse dodici anni. Ripenso alla sfilza di manifesti che invitano la gioventù ucraina ad arruolarsi nelle milizie di Svoboda, movimento neonazista protagonista degli scontri in piazza Maidan a Kiev, e di Pravyi Sektor, altro movimento ultranazionalista. Mi rendo conto che dopo cent’anni i venti di guerra continuano a sferzare impetuosi questo angolo d’Europa, venti sospinti da quelle stesse forze che un secolo fa hanno portato il Vecchio Mondo a suicidarsi affogando in un’orgia di sangue e morte. Mi sento intrappolato in un incubo gattopardesco, in cui tutto è cambiato per restare immutato nella sostanza. Davanti ad un mondo sempre più difficile da comprendere ci si chiude a riccio intorno alla propria identità che diventa un vessillo da sventolare con ostilità di fronte al “nemico” e al “diverso”. Alle frontiere ritornano i reticolati ed il filo spinato, alla Cortina di Ferro si sostituiscono altri muri non meno crudeli. Anche il potere è ritornato a concentrarsi nelle mani di una manciata di individui, una nuova aristocrazia, non più di cappa e di spada, ma finanziaria. Sarò pessimista, ma vedo il baratro aprirsi di nuovo sprigionando lezzo di morte. Certo è che a soli sei mesi di distanza un viaggio del genere incontrerebbe molti più ostacoli e ho la netta sensazione che la situazione non potrà che peggiorare. Peccato.

Svobody Prospekt. Foto dell'autore

Svobody Prospekt.
Foto dell’autore

L’albergo è esattamente come me lo aspettavo, ovvero un trionfo di classico e di atmosfera da belle epoque. La camera, situata al primo piano, si affaccia sulla Svobody Prospekt offrendo così un ottimo punto di osservazione per scrutare l’umanità di Leopoli. Lo sferragliare dei tram sui binari e la calma dei passanti, così diversa dalla frenesia e dalla perenne fretta che caratterizza la nostra quotidianità, mi trasmettono un senso di pace che lentamente mi conquista. Stremati dalle fatiche del viaggio e dal sonno arretrato, crolliamo tra le braccia di Morfeo per risvegliarci dopo qualche ora nel tardo pomeriggio. Non abbiamo ancora fame, per cui decidiamo di continuare la nostra esplorazione, puntando questa volta nella direzione opposta a quella presa durante la mattina.  Ad un certo punto la nostra attenzione viene catturata da una vetrina: oltre il vetro, nascosta nella semioscurità, riusciamo a scorgere l’inconfondibile sagoma di una balalaika. Il negozio sembra chiuso, ma proviamo comunque a spingere la porta che, con nostra sorpresa, si apre. La pochissima luce ed il silenzio tombale ci lasciano perplessi, finchè dalle tenebre non spunta il proprietario, un ometto calvo e con un paio di occhialetti tondi calati sul naso, che non risponde al nostro saluto e si limita a fissarci da una discreta distanza senza proferire parola. Lui ci guarda, noi lo guardiamo e indichiamo lo strumento. Il soggetto non reagisce. Dopo qualche minuto di assurdo teatrino decidiamo a malincuore di andarcene e ci rituffiamo in strada. Il tardo pomeriggio di Leopoli è torrido, illuminato dai raggi obliqui del Sole che arroventano le pietre: non è il caldo estremo di Budapest, ma ci crea comunque non pochi problemi, tanto che non vedo l’ora di rinfrescarmi sui Carpazi.

Scorcio del centro. Foto dell'autore

Scorcio del centro.
Foto dell’autore

A furia di camminare i morsi della fame iniziano a farsi sentire, per cui decidiamo di cenare al pub-ristorante annesso all’albergo. Da buon sudtirolese amante della birra, decido di provare una birra locale, la “Bilyi Lev” (Leone bianco, dall’animale simbolo di Leopoli), una Weissbier non filtrata che trovo molto gradevole, tanto da farne il bis. Al momento di aprire il menù, però, inizia il mio dramma alimentare. Con sommo divertimento della mia compagna di viaggio, scopro che la maggior parte dei piatti sono a base di carne, per cui mi trovo costretto a ripiegare su una insalata e su una porzione gigante di patatine fritte. Quello che di norma è un semplice contorno diventerà parte integrante della mia dieta durante questa spedizione galiziana, tanto che dopo dieci giorni mi ritroverò con un discreto numero di chili in più. Per concludere la cena in bellezza decidiamo di assaggiare la vera vodka: non si può viaggiare in questo angolo di mondo senza provare il distillato di grano nella sua espressione più verace! Svuotiamo i bicchierini da shot in un sorso e il liquido, apparentemente insapore e fresco in bocca, inizia ad irradiare un piacevole calore una volta giunto allo stomaco. Osserviamo i tavolini intorno a noi e vediamo che agli autoctoni la vodka viene servita in bicchieri leggermente più grandi in modo che possa essere sorseggiata. Cerchiamo di spiegare alla cameriera, in un misto di inglese, tedesco e gesti, che vorremmo altri due bicchieri un po’ più grandi e dopo un paio di minuti questa ritorna con due bicchieri da tavola pieni fino all’orlo. È l’inizio della fine. Ci alziamo da tavola completamente ubriachi e come due perfetti imbecilli ci tuffiamo nella L’viv by night senza avere una meta precisa in testa. L’alcool altera le nostre percezioni, mostrandoci una città che sembra completamente differente da quella vista durante il giorno. Ci fermiamo davanti ai chioschi che vendono tabacchi rimanendo folgorati dall’eleganza delle sigarette russe di cui facciamo scorta. Allo stesso modo entriamo nei produktyi, piccoli negozi alimentari a conduzione familiare, dove osserviamo rapiti le merci esposte e in cui ho la brillante idea di comprare una bottiglia di vino che non ho ancora assaggiato. Non credevo che l’Ucraina avesse una produzione vinicola degna di nota – questa è la mia deformazione professionale che parla – oltre a qualche vigneto in Crimea. Guardando l’etichetta e facendo qualche ricerca, invece, scopro che in tutta la fascia collinare al confine con l’Ungheria e la Romania ci sono aree vinicole di tutto rispetto.

Vista delle cupole di Leopoli dal tumulo dell'Unione di Lublino. 1914 (?) Foto dell'Archivio di Stato austriaco

Vista delle cupole di Leopoli dal tumulo dell’Unione di Lublino. 1914 (?)
Foto dell’Archivio di Stato austriaco

Come falene attratte dalla luce di una lampadina puntiamo dritti al tumulo dell’Unione di Lublino, situato nei pressi del Castello, in una posizione dominante sul resto della città. Ai tempi della guerra fredda le gallerie sotterranee del maniero, oggi sigillate da colate di cemento, ospitavano uno dei tanti centri di ascolto del KGB, mentre oggi le sue stanze accolgono i ricchi ospiti di un albergo di lusso.  Il tumulo è  una collina artificiale, eretta sul finire del XIX secolo su concessione degli Asburgo per celebrare i 300 anni dell’Unione di Lublino, atto formale del 1589 che portò alla fusione tra regno di Polonia e granducato di Lituania e alla conseguente nascita della grande Confederazione Polacco-Lituana, all’epoca la compagine territoriale più estesa d’Europa.  È curioso vedere una traccia così vistosa di storia polacca nel centro di una città che attualmente è la culla del nazionalismo ucraino, ma in fin dei conti Leopoli è stata una città polacca per la maggior parte del proprio passato. Passato su cui ritorneremo nel prossimo post, visto che lo spettacolo offerto dalle cupole barocche illuminate dalle luci elettriche è l’ultimo ricordo nitido che ho della serata.