Cristianesimo nel Giappone feudale tra evangelizzazione e persecuzione

Un samurai che snuda la lama della sua katana e si lancia nella mischia invoncando la protezione di Gesù Cristo e della Vergine Maria. Un daimyo, un grande feudatario, inginocchiato a capo scoperto in attesa di essere battezzato da un missionario europeo. Si tratta di immagini che si discostano leggermente dalla nostra idea di Giappone, eppure furono estremamente comuni tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, durante i decenni conclusivi del Sengoku jidai, il periodo degli stati combattenti.

L’arrivo, del tutto casuale, di alcuni mercanti portoghesi sulle coste dell’isola di Tanegashima, a sud del Kyushu, ebbe conseguenze durature. Il contatto con gli europei, infatti, non soltanto aprì le porte del Sol Levante alle merci provenienti dal Vecchio Mondo, inaugurando così una serie di fruttuosi scambi commerciali, ma permise l’introduzione delle armi da fuoco – per saperne di più clicca qui – e l’arrivo di missionari cattolici che si prodigarono fin da subito a diffondere il Verbo.

Giovanni III  ritratto da Cristovao Lopes.
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Durante il regno di Giovanni III d’Aviz, la Corona portoghese aveva affidato alla neonata Compagnia di Gesù il compito di evangelizzare i possedimenti coloniali nelle Indie Orientali, all’epoca composti da una serie di avamposti commerciali dislocati tra India, Molucche e Macao. A tal scopo il sovrano nominò responsabile niente meno che Francesco Saverio, uno dei fondatori dell’ordine gesuita. Costui, dopo aver organizzato l’apostolato missionario a Goa, raggiunse il Giappone nel 1549, sbarcando a Kagoshima, capoluogo della provincia di Satsuma, e operando fin da subito le prime conversioni.

In genere i giapponesi si dimostrarono tolleranti nei confronti della nuova fede, così come lo erano stati secoli prima nei confronti delle dottrine buddhiste. La diffusione del cristianesimo fu sicuramente aiutata da una serie di equivoci, nati da alcune somiglianze con il Dharma buddhista. L’idea di una rinascita in cielo, infatti, non era del tutto avulsa dagli insegnamenti della scuola della Terra Pura, mentre la figura di Cristo non appariva troppo diversa da quella di Amida. Perfino tra i samurai, la casta dei guerrieri, si diffuse una certa simpatia nei confronti di Ignazio de Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù: si trattava pur sempre di un soldato di Cristo e tra guerrieri vi è sempre stata una forma di mutuo rispetto.

Le conversioni riguardarono anche numerosi feudatari, i daimyo, presto imitati dai loro sottoposti. Nei feudi di Bungo e Amakusa, accadde addirittura che gli abitanti fossero obbligati a seguire la conversione del loro signore. In molti casi, però, queste furono dettate più da motivi economici che non prettamente religiosi: molti feudatari, infatti, credevano di poter ottenere accordi commerciali più vantaggiosi – ed un numero maggiore di armi da fuoco – se avessero abbracciato la fede degli europei. Non deve quindi sorprendere che in più di una provincia i missionari venissero allontanati quando non erano accompagnati da mercanti.

L’opera di evangelizzazione, tuttavia, non fu priva di resistenze, soprattutto da parte del clero buddhista una volta che emersero insanabili differenze dottrinali. Uno dei pensatori più interessanti in questo frangente è indubbiamente Suzuki Shosan (1579-1655). Egli interpretò la teologia cristiana alla luce della fede buddhista. Dio, il Deus dei portoghesi, altro non è un grande Buddha, al quale si attribuisce una libertà infinita e la creazione dell’universo. In questa ottica Cristo diventa una sua manifestazione personale, un avatar. Tuttavia la pretesa cristiana dell’adorazione di un solo Buddha appare illogica agli occhi dei fedeli shinto-buddhisti. Perchè mai abbandonare Amida, Kannon e gli innumerevoli kami a favore di un Dio che manda il Cristo in croce per espiare i peccati dell’umanità?

Francesco Saverio.
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A peggiorare la situazione contribuì l’intransigenza di molti missionari. Lo stesso Francesco Saverio predicava l’esclusivismo religioso, secondo cui l’unica religione accettabile era quella cristiana. Il suo zelo gli costò l’espulsione dal feudo di Satsuma appena un anno dopo l’accoglienza calorosa che gli era stata accordata dal signore locale. Come se ciò non bastasse l’eccesso di zelo dei neoconvertiti provocò il danneggiamento e la distruzione di diversi santuari buddhisti, il che causò un profondo malcontento.

Tra alti e bassi, l’opera dei missionari fu coronata dal successo. Alla morte di Oda Nobunaga, nel 1582, in Giappone si trovavano 200 chiese ed oltre 250.000 fedeli, concentrati in prevalenza nei dintorni di Nagasaki, città-sede delle missioni commerciali portoghesi. L’opera dei missionari cristiani fu enormemente favorita dal signore del clan Oda. Nella sua opera di riunificazione del paese, infatti, si era trovato ad affrontare i potenti monasteri buddhisti e gli estremisti della lega Ikko-ikki. Convinto che la diffusione del Cristianesimo potesse arginare l’influenza dei suoi nemici, Nobunaga non si fece il minimo problema a fornire appoggio e protezione ai missionari cattolici.

Il suo successore, Toyotomi Hideyoshi, continuò con la politica di supporto ai cristiani, ma le cose cambiarono nel 1587. Tornato a Kyoto dopo aver sottomesso il dominio di Satsuma, il feudo più importante del Kyushu, e dopo aver incontrato i leader gesuiti a bordo di alcuni vascelli portoghesi, decretò l’espulsione di tutti i preti stranieri dal paese entro venti giorni, lasciando presagire la messa al bando della religione cristiana. I gesuiti furono accusati di aver fomentato l’odio contro i fedeli shinto-buddhisti, mentre ai portoghesi fu rinfacciato il rapimento di diversi giapponesi poi venduti come schiavi. L’applicazione del decreto fu quanto mai blanda. I missionari finsero di partire alla volta di Macao, ma in massima parte si nascosero nei dintorni di Nagasaki. I mercanti portoghesi, infine, poterono continuare i loro traffici esattamente come prima.

A cosa fu dovuto questo repentino cambio di atteggiamento? Dal suo palazzo di Kyoto, Hideyoshi non si era mai reso conto della reale situazione nel Kyushu. Il numero di convertiti era aumentato enormemente, mentre nell’importante centro di Nagasaki il potere effettivo era esercitato dai gesuiti e di conseguenza dai portoghesi, in virtù della consuetudine della corona portoghese di considerare l’evangelizzazione come un affare di Stato. Insomma, il reggente vide nella penetrazione del cristianesimo una minaccia al suo potere, oltre ad un potenziale cavallo di Troia per la conquista del paese. Numerosi feudatari, infatti, erano in contatto diretto con le potenze europee proprio tramite il clero cattolico. L’editto del 1587 è quindi da leggersi come una sorta di grave avvertimento.

Memoriale dei Ventisei Martiri del Giappone a Nagasaki.
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Un fatto ben più grave accadde dieci anni dopo a Kyoto. Ventisei cristiani – i cosiddetti “martiri di Nagasaki” – tra cui sette francescani spagnoli, accusati di essere entrati illegalmente nel paese e di aver fatto opera di proselitismo, vennero torturati e crocefissi sulla collina di Tateyama. Anche in questo caso si trattò di un segnale destinato agli europei, una vera e propria dimostrazione di forza. La corona spagnola aveva di recente preso possesso delle Filippine, avvicinandosi pericolosamente alle coste nipponiche, dopo che i missionari ne avevano convertito la popolazione. A differenza del Portogallo, la Spagna era una vera e propria superpotenza: una minaccia che non poteva essere sottovalutata.

La morte di Hideyoshi (1598) e la battaglia di Sekigahara (1600) spianarono la strada a Tokugawa Ieyasu. Nonostante un’iniziale tolleranza nei confronti dei cristiani, Ieyasu non si fidava di loro. Anzi, il fatto che la dottrina cattolica fosse così diffusa proprio nei possedimenti dei principali tozama daimyo, i feudatari che a Sekigahara si erano schierati contro di lui e che ora erano esclusi dal governo del paese, lo spinse a mettere i cristiani sotto stretta sorveglianza. Il nuovo shogun, infatti, temeva non solo che i suoi ex nemici potessero rivolgersi alle potenze europee per sollevarsi contro il suo governo, ma anche che le conversioni di massa potessero spianare la strada ad una invasione spagnola.

Il punto di rottura giunse nel 1612. Gli spagnoli continuavano imperterriti ad inviare più missionari che mercanti, mentre la comparsa nel Pacifico delle flotte olandesi ed inglesi offrì allo shogun la possibilità di commerciare con nazioni meno bigotte e non legate a Roma. La persecuzione iniziò blandamente, sotto forma di editti che invitavano i cristiani alla moderazione. Ben presto, però, le misure dello shogunato divennero più drastiche.

Nel 1614 la repressione colpì soprattutto la zona di Nagasaki, con violenza maggiore rispetto al passato. Il 27 gennaio, Ieyasu promulgò un nuovo editto che prevedeva l’espulsione di tutti i missionari e preti stranieri, oltre a mettere fuorilegge il Cristianesimo. Per la prima volta i convertiti giapponesi erano in pericolo di vita a causa della loro fede. Dal canto loro i missionari europei, convinti di avere a che fare con una nuova versione dell’editto del 1587, fecero finta di lasciare il paese. Gli eventi successivi dimostrarono che si sbagliavano enormemente.

Statua della Madonna con le sembianze di Kannon.
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Nel 1618 il nuovo shogun, Tokugawa Hidetada, diede il via ad una persecuzione in grande stile. Ne furono vittime tanto i giapponesi convertiti, quanto i missionari stranieri. Se per questi ultimi le autorità nipponiche si limitavano alla deportazione fuori dal paese, i primi furono oggetto di vessazioni di ogni tipo. Tra chi decise di abiurare pubblicamente, in molti continuarono a praticare in clandestinità, diventando kakure kirishitan, letteralmente cristiani nascosti. Costoro apparivano in pubblico come devoti buddhisti, ma nel segreto delle loro abitazioni continuavano a celebrare i riti cattolici. Le preghiere vennero modificate in modo da assomigliare a canti buddhisti, mentre i santi e la Madonna iniziarono ad essere raffigurati come manifestazioni del Buddha stesso.

La situazione peggiorò ulteriormente con l’ascesa di Tokugawa Iemisu. I missionari sorpresi all’interno del paese vennero torturati a morte, mentre i carnefici escogitarono un metodo quasi infallibile, chiamato yefumi, per smascherare i kakure kirishitan: agli arrestati veniva intimato di calpestare una immagine sacra e in caso di rifiuto venivano suppliziati, insieme al resto della loro famiglia. La legge giapponese dell’epoca, infatti, non riconosceva il concetto di responsabilità individuale: per colpa delle azioni di un singolo le sanzioni potevano colpire tutto il suo nucleo famigliare e, nei casi più gravi, tutto il suo villaggio.

Tavoletta usata per lo yefumi.
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Nel 1637, la rivolta di Shimabara rappresentò l’ultimo colpo di coda dei convertiti giapponesi. Diverse migliaia di contadini appartenenti all’ex feudo cristiano di Arima, nel Kyushu settentrionale, si ribellarono al loro nuovo feudatario. La reazione dello shogunato fu spietata e la rivolta venne soffocata nel sangue, anche grazie all’aiuto offerto dalla flotta olandese, che bombardò con efficacia le roccaforti ribelli. La locale comunità cristiana venne passata a fil di spada e sostituita da coloni provenienti da altre parti del Giappone. Le autorità infine istituirono nella zona il sistema del teruake: ogni abitante venne affiliato ad un tempio buddhista che rilasciava un certificato di “ortodossia” e fedeltà al governo shogunale.

Ulteriore conseguenza della rivolta, su scala molto più grande, fu l’inaugurazione della politica del sakoku, ossia dello stato chiuso. Agli stranieri venne proibito l’accesso al suolo giapponese – nel 1640 degli ambasciatori portoghesi vennero decapitati per essere approdati – con l’unica eccezione degli olandesi, cui era permesso l’attracco a Nagasaki. Come se ciò non bastasse a diverse migliaia di cittadini nipponici residenti all’estero, tra cui molti cristiani che si erano rifugiati nelle Filippine per sfuggire alle persecuzioni, fu impedito il rientro in patria.

Le persecuzioni contro i kakure kirishitan proseguirono ancora per qualche decennio, con intensità calante. Le ultime crocefissioni sono attestate intorno al 1660. Il culto clandestino riuscì tuttavia a sopravvivere ben celato agli occhi delle autorità e, quando a seguito della Restaurazione Meiji, nella seconda metà dell’Ottocento venne ristabilita le piena liberta di culto, diverse migliaia di cristiani nascosti poterono tornare a praticare alla luce del sole.

 

BIBLIOGRAFIA

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L’introduzione delle armi da fuoco in Giappone

Ashigaru mentre impugnano dei tanegashima

Analogamente a quanto accaduto in Europa qualche secolo prima, l’introduzione delle moderne armi da fuoco nel Giappone feudale ebbe un impatto epocale sulla conduzione della guerra e sulla stessa storia dell’arcipelago. Nonostante la vicinanza con la Cina, luogo dove nacque la polvere da sparo, e l’intenso scambio culturale e commerciale con essa, le armi da fuoco giunsero nel Sol Levante da molto più lontano, ovvero dalla colonia portoghese di Goa, in India. Ad onor del vero, dal Celeste Impero erano giunti in Giappone i cosiddetti “teppo“, letteralmente “bastoni di ferro”, delle rudimentali armi del tutto simili agli ingombranti archibugi europei del XV secolo, che tuttavia non ebbero mai un grande utilizzo, proprio a causa delle loro dimensioni e della difficoltà nell’utilizzo.

È il 1543 e l’arcipelago giapponese è sconvolto da quasi un secolo dalle violenze del Sengoku Jidai, l’età degli Stati Combattenti: lo shogunato Ashikaga che esercitava il potere sin dal 1336 è in una crisi irreversibile e non riesce più a tenere a bada i vari daimyo, i signori feudali, che iniziano a combattere tra di loro per ottenere la supremazia. Un giorno, una giunca cinese diretta ad Okinawa è costretta ad ormeggiare a Tanegashima, all’estremità settentrionale dell’arcipelago delle Ryukyu, per sfuggire ad una violenta tempesta. A bordo dell’imbarcazione vi è una compagnia di avventurieri portoghesi e tra il loro equipaggiamento fanno bella mostra di sè anche alcuni archibugi. Il signore dell’isola, Tanegashima Tokitaka, intuisce immediatamente le potenzialità di queste nuove armi e, non si sa se con le buone o con le cattive, riesce ad ottenerne alcuni esemplari che invia immediatamente al suo miglior fabbro, con l’intenzione di replicarle per equipaggiare il proprio esercito. Gli armaioli di Tanegashima, però, non riescono a replicare lo scodellino, la parte dell’arma in cui la polvere da sparo entra in contatto con la miccia accesa, generando così lo scoppio che lancia il proiettile fuori dalla canna dell’arma. Il problema verrà risolto soltanto l’anno successivo, quando i portoghesi torneranno sull’isola con un loro armaiolo da mettere al servizio del feudatario.

All’epoca l’isola di Tanegashima era un feudo vassallo del clan Shimazu, che dal castello di Hyuga controllava la parte meridionale del Kyushu, la più meridionale delle grandi isole che compongono l’arcipelago giapponese. Fu in virtù di questo legame di vassallaggio che gli Shimazu furono il primo grande clan ad entrare in possesso dei Tanegashima-teppo, gli archibugi di derivazione portoghese, e ad utilizzarli nel corso del vittorioso assedio del castello di Kijiki, nel 1549. Pur trattandosi di uno scontro piuttosto marginale, fu il primo impiego documentato di armi da fuoco moderne in Giappone. In breve tempo anche gli altri signori feudali iniziarono ad interessarsi a questo nuovo tipo di armamento e tra coloro che compresero fin da subito le potenzialità dell’archibugio vi fu il giovane Oda Nobunaga, che già nel 1550 impressionò i propri rivali facendo sfilare ben 500 archibugieri in formazione.

Ashigaru in posizione dietro a degli scudi di legno

Ben presto la corsa alle armi da fuoco assunse proporzioni colossali, tanto che nei 10 anni successivi vennero prodotti qualcosa come 300.000 archibugi. Gli armaioli nipponici, inoltre, riuscirono a migliorare ulteriormente il modello portoghese, sia attraverso la realizzazione di calibri più grandi e con maggior potere di penetrazione, sia con l’introduzione di una custodia laccata in grado di proteggere il meccanismo di sparo dall’acqua, rendendo di fatto possibile l’uso delle armi da fuoco anche sotto la pioggia. L’afflusso di un così massiccio numero di archibugi si riflesse inevitabilmente sui campi di battaglia. Fino a quel momento, infatti, il peso principale degli scontri era sostenuto dalla casta militare dei samurai che affrontandosi in una serie di duelli singoli determinava l’andamento della battaglia. A rimpolpare le fila degli eserciti vi era poi una massa informe di contadini coscritti, gli ashigaru, truppe armate alla leggera, poco addestrate, molto poco fedeli e che di fatto sopravvivevano grazie al saccheggio sistematico dei territori che attraversavano. Nell’ultimo periodo, inoltre, la cavalleria ebbe un ruolo crescente, soprattutto grazie alle innovazioni apportare dal clan Takeda, fino al punto di diventare padrona del campo di battaglia. L’arrivo dei Tanegashima-teppo rivoluzionò tutto questo. Pur essendo notevolmente lenti da caricare – un arciere poteva scoccare 15 dardi nel lasso di tempo necessario ad un archibugiere per ricaricare dopo aver sparato – erano estremamente facili ed intuitivi da utilizzare, tanto da richiedere un addestramento minimo, diventando così l’arma d’elezione della fanteria leggera. Di conseguenza il numero di ashigaru sul campo di battaglia aumentò vertiginosamente, portando alla dilatazione delle forze schierate e alla necessità di elaborare nuove tattiche per gestire le truppe al meglio. Lo stesso addestramento degli ashigaru migliorò notevolmente, trasformandoli da soldati dal morale scarso a formazioni disciplinate in grado di sostenere l’urto della battaglia. L’aumento del ruolo degli archibugieri sul campo di battaglia ebbe l’effetto opposto su quello dei samurai: le maestose armature e le katane dei seguaci del Bushido, la via del guerriero, nulla potevano contro le palle sparate in un mare di fiamme e fumo dalle armi portate dai nanban, i mercanti stranieri. L’unica minaccia per gli ashigaru era costituita dalla cavalleria.

Ritratto di Oda Nobunaga

Ancora nel 1572, sul campo innevato di Mikatagahara, la cavalleria dei Takeda fece scempio degli archibugieri di Tokugawa Ieyasu, travolgendoli con una carica a ranghi serrati mentre questi ricaricavano le loro armi dopo aver sparato una prima salva. Tokugawa, che aveva riposto ogni speranza di vittoria contro un nemico tre volte superiore proprio nei nuovi armamenti, subì una cocente sconfitta e si narra che riuscì a mettersi in salvo con soli cinque uomini. La supremazia della cavalleria sulla fanteria veniva nuovamente confermata con il sangue e nessun uomo sembrava essere in grado di metterla in discussione. Un uomo, certo, ma un demone? Da semplice strumento per impressionare nemici e alleati, i Tanegashima-teppo erano diventati, nelle mani di Oda Nobunaga, uno straordinario mezzo per imporre il proprio potere militare e, conseguentemente, perseguire il Tenka Fubu (letteralmente “una sola insegna militare sotto il cielo”, dove con Tenka si può intendere il Giappone) a scapito degli altri signori feudali. Per ironia della sorte anche i suoi più acerrimi nemici, gli Ikko-ikki, un gruppo eterogeneo di contadini, monaci guerrieri e piccola nobiltà decaduta che si opponeva al potere dei grandi feudatari, arrivando a controllare vaste aree dell’Honshu, si rivelarono estremamente abili nello sfruttare le nuove armi da fuoco. Nel corso del decennale conflitto che vide affrontarsi i due schieramenti, lo stesso Nobunaga fu vittima di quelle armi micidiali che tanto amava. A Nagashima, ad esempio, le raffiche degli Ikko-ikki inflissero enormi perdite all’esercito del clan Oda che, dopo un temporale improvviso, si ritrovò con oltre il 90% degli archibugi resi inservibili dall’acqua: fu per un soffio che la ritirata non si trasformò in una rotta disordinata sotto l’incalzante fuoco nemico.

Raffigurazione della battaglia di Nagashino

Il canto del cigno della cavalleria avvenne due anni dopo, nella piana ai piedi del castello di Nagashino, in una battaglia che vide confrontarsi il clan Takeda, maestri nell’arte della guerra a cavallo, ed il clan Oda. In questa occasione Nobunaga riuscì a schierare il favoloso numero di 3000 archibugi, una concentrazione di fuoco mai vista prima nel Sol Levante. Memore della sconfitta subita dal suo alleato Ieyasu a Mikatagahara, decise di schierare i suoi archibugieri disponendoli su tre file, in modo da garantire un fuoco costante, proteggendoli con un contingente di lancieri e palizzate di legno. Quando i Takeda lanciarono i loro cavalieri all’attacco, confidando in una facile vittoria, il loro impeto venne spezzato da un uragano di fuoco. Quale eresia! Nobili guerrieri macellati da poveri contadini illetterati, inaudito! Fu in tutto e per tutto una versione nipponica della carica francese a Crecy, 229 anni prima: il fiore della nobiltà francese trafitto da una miriade di frecce, i cronisti dell’epoca riferirono che il sole ne fu oscurato, scoccate da cinquemila arcieri gallesi al soldo del re inglese. Sebbene a Nagashino i combattimenti continuarono ad infuriare per ore, era ormai chiaro a tutti che una forza di ashigaru ben addestrata ed equipaggiata poteva dominare il campo di battaglia. Da questo momento in poi molti cavalieri decisero di iniziare a combattere appiedati, come normali samurai, mentre le unità di cavalleria si trasformarono da punte offensive da lanciare contro il fronte nemico per spezzarlo, a unità più leggere, utili ad aggirare i fianchi del nemico e a rastrellare gli avversari in fuga.

Le armi da fuoco giocarono un ruolo importante anche nell’epica battaglia di Sekigahara, del 21 ottobre 1600. Si trattò di uno scontro immane, che vide impegnati sul campo circa duecentomila uomini, una enormità per il Giappone dell’epoca, appartenenti a pressocché tutti i clan principali e a moltissimi clan minori. Si trattò dell’ultimo grande scontro del Sengoku Jidai e consacrò la vittoria di Tokugawa Ieyasu, il vecchio alleato di Oda Nobunaga, che diede vita allo shogunato Tokugawa che resse il paese fino alla Restaurazione Meiji del 1869.