L’occupazione russa della Galizia (1914-1915)

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La Galizia, in rosso, all’interno dell’Impero austro-ungarico. Opera di Ludovic Lepeltier-Kutasi – Opera propria, CC BY-SA 4.0. Fonte Wikimedia Commons

Chi segue questo blog sa bene che la Galizia e la sua storia sono un po’ una mia fissazione e che periodicamente torno a parlarne. Ho scritto la bozza di questo articolo l’anno scorso, ben prima dell’invasione russa in Ucraina, con l’intenzione di pubblicarla come post di riserva durante il periodo di superlavoro autunnale. Alla luce di quanto accaduto — e di certe interpretazioni date — ho però deciso di ampliare il testo cercando di approfondire le tematiche del nazionalismo ucraino e del panslavismo russo. Non sono sicuro di esserci riuscito in così poco spazio: se l’argomento vi interessa e se volete ulteriori approfondimenti lasciatemi un feedback nei commenti oppure contattatemi sui social.

Estrema marca di confine della monarchia asburgica, spesso definito in modo dispregiativo Halb-Asien — mezza Asia — dai funzionari viennesi, il Regno di Galizia e Lodomiria comprendeva parti delle attuali Polonia sud-orientale ed Ucraina occidentale. In base a criteri etnolinguistici il suo territorio può essere separato in due parti, con il corso del fiume San a fare da “spartiacque”: una porzione occidentale, abitata da una maggioranza di lingua polacca, ed una orientale, abitata in prevalenza da Ruteni, con l’eccezione dei centri principali, come L’viv o Przemysl in cui era presente una forte aliquota di abitanti di origine ebraica e polacca.

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Tomba di Ivan Franko a L’viv. Foto dell’autore.

La maggior parte dei ruteni era composta da contadini analfabeti — o allevatori come nel caso degli hutsuli e di altri sottogruppi etnici dei Carpazi — che lavoravano le terre possedute dalla szlachta, la piccola nobiltà feudale polacca. Non rappresentati nell’organo di autogoverno galiziano, la Camera dei deputati della Polonia galiziana o Sejm, erano oggetto di vessazioni e sistematica discriminazione. A partire dal XIX secolo, anche grazie al lavoro di autori come Ivan Franko e Taras Ševčenko, parte del popolo ruteno fu oggetto di un processo di risveglio nazionale, reclamando maggiori diritti e tutele a livello linguistico e culturale. Inizialmente restie a concessioni di alcun tipo, le autorità asburgiche permisero l’insegnamento scolastico della lingua ucraina nella porzione orientale della Galizia a partire dal 1890. Una decisione presa non tanto per un impeto di liberalismo, quanto per cercare di contenere l’influsso del movimento panslavista finanziato dal vicino Impero russo, rappresentato dai cosiddetti russofili, che vedevano nella Russia una sorta di potenza tutrice per tutti i popoli slavi. Le prime elezioni a suffragio universale maschile del 1907 sancirono l’ingresso nel Sejm di cinque deputati russofili a fronte di ben venti afferenti all’area del nazionalismo ucraino.

Nonostante il risultato piuttosto netto, le autorità austro-ungariche continuarono a guardare i ruteni con crescente sospetto. Allo scoppio del primo conflitto mondiale la Galizia venne dichiarata zona militare, con il conseguente passaggio di poteri dall’amministrazione civile a quella militare: venne stilata una lista di personalità ritenute di simpatie russofile, che furono arrestate e trasferite in altre regioni dell’impero; molto spesso di trattava di accuse senza alcun fondamento. L’andamento della campagna galiziana, che sin dalle prime settimane si dimostrò catastrofica per le truppe di Vienna, gettò l’intera linea di comando nel panico. Questo ben presto degenerò in autentica paranoia: l’intera popolazione ucraina fu accusata di essere la quinta colonna dell’esercito zarista e non mancarono esecuzioni sommarie di presunte spie o addirittura trasferimenti forzati di interi villaggi.

Il 4 settembre 1914 L’viv fu raggiunta dalle avanguardie russe, mentre una settimana dopo all’esercito austriaco fu ordinato di ritirarsi lungo la linea del fiume San, abbandonando di fatto la Galizia orientale al nemico. Per poter comprendere meglio le politiche di occupazione è il caso di aprire una piccola parentesi per gettare uno sguardo sulla situazione politica nella Russia di Nicola II.

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Nicola II nel 1912. Fonte Wikipedia

Di forti tendenze autocratiche, lo zar era influenzato tanto dal pensiero panslavista di Nikolaj Danilevskij, quanto dalle teorie del movimento Pochvennichestvo. Se il primo credeva nella necessità di riunire il mondo slavo in una confederazione ortodossa con a capo la Russia, il secondo era un movimento conservatore, ferocemente antilluminista e anti occidentale, che si rifaceva al trinomio autocrazia, ortodossia, nazionalismo che si era formalizzato nella prima metà dell’Ottocento. Lo zar portò quindi avanti un programma di russificazione nelle gubernija abitate da nazionalità non russe, come la Polonia o l’Ucraina. Questo clima fu ulteriormente esasperato dal tentativo rivoluzionario del 1905, che portò alla nascita del movimento ultranazionalista delle Centurie Nere e di un diffuso sentimento antisemita, alimentato dalla pubblicazione dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion e dall’idea che dietro ai rivoluzionari si nascondessero gli ebrei.

Non deve quindi stupire se il nuovo governatore militare, il conte Georgij Brobinskij, il 23 settembre annunciò solennemente ai dignitari e ai membri del clero polacco il seguente programma di governo: la regione era da considerarsi parte della Russia poiché abitata da ucraini, cioè da “piccoli russi”, e in quanto tale sarebbe stata amministrata attraverso lingua, leggi e sistemi russi. Gli orologi furono regolati sull’ora di San Pietroburgo, mentre fu adottato il calendario giuliano all’epoca in uso nell’Impero russo. I negozianti furono costretti a riscrivere le proprie insegne utilizzando l’alfabeto cirillico, mentre nelle vie targhe russe andarono a sostituire quelle polacche. Si passò, quindi, alla neutralizzazione dell’intellighenzia ucraina.

Sin dal 4 settembre l’arcivescovo di L’viv Andrej Šeptyc’kyj, a capo della Chiesa greco-cattolica e di fatto simbolo della causa nazionale ucraina era stato arrestato e trasferito in Russia. Seguirono gli arresti e la deportazione di tutte quelle personalità — medici, avvocati, preti ed insegnanti — che in tempo di pace avevano animato la vita culturale della regione e non erano incappate nella repressione asburgica. In contemporanea le autorità russe imposero la chiusura delle biblioteche, dei circoli di lettura, dei giornali e di qualsiasi altra pubblicazione in lingua ucraina.

Il passo successivo riguardò il sistema scolastico. Furono organizzati corsi di russo per gli insegnanti che sarebbero stati impiegati nella nuova rete di scuole statali in fase di costituzione. Questa avrebbe sostituito le scuole di lingua rutena e polacca, ad eccezione di alcune scuole private a L’viv frequentate dall’élite polacca, a patto che il programma scolastico fosse autorizzato e che fossero impartite almeno cinque ore settimanali di russo.

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Andrej Šeptyc’kyj, arcivescovo di L’viv. Fonte Wikipedia

Vi era infine la questione religiosa, particolarmente spinosa in una regione ed in un’epoca in cui la fede era un tratto distintivo della propria identità ancora più forte della lingua. L’appartenenza alla chiesa greco-cattolica era infatti ciò che più distingueva gli ucraini dai polacchi cattolici e dai russi ortodossi: andare a colpirla avrebbe velocizzato e reso più efficace il programma di russificazione. Da parte russa vi erano tuttavia vedute diverse a proposito. Se Brobinskij aveva in mente una azione morbida da attuarsi sul lungo periodo, il clero ortodosso, rappresentato dall’arcivescovo di Volinia e Zhytomyr Evlogij, propendeva per un approccio più duro e risolutivo.

A partire da febbraio 1915 le pressioni di Evlogij su Brobinskij portarono il governatore ad approvare un decreto che permetteva l’invio di un pope ortodosso in tutte quelle comunità in cui il sacerdote greco-cattolico se ne era andato, anche se ciò era richiesto da una minoranza dei fedeli. Iniziò quindi una sistematica campagna di terrore ai danni del clero ucraino, con arresti e uccisioni. Si ricorse anche all’inganno, convincendo i contadini analfabeti che tra le due dottrine non vi erano differenza di sorta dato che i riti erano simili. Ciononostante di millenovecentosei parrocchie galiziane, soltanto un centinaio intraprese la strada della conversione.

Ancora peggio, se possibile, andò alla consistente popolazione ebraica che si ritrovò a dover fronteggiare l’atavico antisemitismo dei cosacchi e delle autorità zariste. Il primo pogrom si verificò già il 14 agosto a Brody, cittadina di confine famosa per aver dato i natali allo scrittore Joseph Roth. Il 27 settembre anche L’viv fu teatro di un altro pogrom, di proporzioni ancora maggiori, ma in linea generale l’avanzata russa fu costellata di eventi di questo tipo: circa quattrocentomila ebrei fuggirono verso le regioni interne dell’Austria-Ungheria per sfuggire alla violenza del nemico.

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Zone di residenza all’inizio nel Novecento. Maggiore la percentuale di popolazione ebraica, più scuro è il colore. Fonte Wikipedia

L’idea dei militari russi, dal comandante in capo dell’esercito granduca Nikolaj sino ai responsabili dei singoli reparti, era quella di ripulire la Galizia sospingendo la popolazione ebraica al seguito del nemico in ritirata. Nella loro ottica ciò avrebbe protetto le truppe da azioni di spionaggio e dal diffondersi di propaganda sovversiva, oltre a facilitare l’assimilazione della regione e della sua popolazione alla nazione russa. Non mancarono, tuttavia, tentativi di deportazione ad est, verso le Zone di residenza situate ai confini dell’Impero. Nonostante l’opposizione delle autorità centrali, che non volevano un incremento della popolazione ebraica, furono circa cinquantamila gli ebrei galiziani deportati in Russia, mentre al momento della liberazione della provincia, tra la primavera e l’estate 1915, un numero analogo era pronto a subire lo stesso destino.

Seppur limitata a circa un semestre, l’occupazione russa della Galizia sembra anticipare l’orrore che solo un quarto di secolo dopo bagnò di sangue le fertili pianure d’Ucraina. Da un lato la feroce persecuzione antisemita appare un tragico assaggio dell’Olocausto, dall’altro la negazione dell’esistenza di un popolo, di una lingua e di una cultura ucraine ricorda da vicino alcune delle giustificazioni addotte da Putin alla recente invasione.

 

BIBLIOGRAFIA

A. Watson, Il Grande Assedio Di Przemysl, Milano, Rizzoli, 2021 [leggi la recensione]

J. R. Schindler, Fall Of The Double Eagle: The Battle For Galicia And The Demise Of Austria-Hungary, Lincoln, Potomac Books, 2015

M. Rauchensteiner, Der Erste Weltkrieg Und Das Ende Der Habsburgermonarchie, Wien-Köln-Weimar, Böhlau Verlag, 2013

C. Mick, Lemberg, Lwów, L’viv 1914-1947: Violence And Ethnicity In A Contested City, West Lafayette, Purdue University Press, 2016

P. Bushkovitch, Breve storia della Russia. Dalle origini a Putin, Torino, Einaudi, 2013

Ivan III di Russia e come Mosca divenne la Terza Roma

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Retro del sigillo di Ivan III con l’aquila bicipite. Fonte Wikicommons

Questo post ha avuto una genesi particolare, ve lo dico fin da subito. L’idea di base si è materializzata tra le mie sinapsi durante la live di presentazione del nuovo EP dei Voland su Aristocrazia, precisamente durante l’ascolto del secondo brano Terza Roma. Tra i tanti epiteti di cui si fregia la città di Mosca, quello di Terza Roma è indubbiamente uno dei più altisonanti, oltre che il più interessante da raccontare: la sua comparsa, infatti, ha accompagnato alcuni degli eventi più gravidi di conseguenze per la storia russa e per quella europea. 

La nostra storia si svolge durante il XV secolo, periodo in cui il Granducato di Mosca aveva raggiunto una posizione di egemonia nei confronti degli altri principati russi. Ciò era stato possibile tanto per l’abilità politica dei sovrani moscoviti, quanto per il progressivo indebolimento del Khanato dell’Orda d’Oro — uno stato nato dalla frammentazione dell’Impero mongolo nel corso del XIII secolo, di cui Mosca era formalmente vassalla  — che già nel 1380 aveva subito una disastrosa sconfitta nella battaglia di Kulikovo ad opera di Dmitrij Ivanovič. È con l’ascesa al trono di suo nipote Vasilij II nel 1425 che la nostra narrazione ha inizio.

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Vasilij II. Fonte Wikicommons

L’inizio del suo regno non fu per niente facile. Succeduto a soli dieci anni a suo padre Vasilij I, si trovò costretto a fronteggiare l’aperta ribellione di suo zio e dei due figli di questo che ne contestavano il diritto a regnare. Il lungo periodo di torbidi che ne seguì, passato alla storia con il nome di grande guerra feudale, anziché indebolire lo stato, contribuì invece a rafforzarlo accentrando il potere nelle mani del sovrano moscovita. L’appoggio compatto dei boiardi e dei proprietari terrieri fu determinante per la vittoria del legittimo regnante e nonostante le alterne fortune — nel 1445 fu catturato, accecato ed esiliato fuori Mosca — nel 1450 Vasilij aveva ormai il pieno controllo del Granducato. Il suo primo atto fu quello di esiliare tutti i sostenitori dei suoi nemici, confiscando le loro terre ed infine sopprimendo tutte le signorie che fino a quel momento erano state di fatto semi-indipendenti: l’unico potere possibile a Mosca doveva essere quello del suo sovrano. Per tutta la durata del conflitto l’Orda d’Oro, uscita profondamente scossa dallo scontro con Tamerlano, si limitò ad alcuni sporadici interventi che ebbero un impatto relativamente marginale sul corso degli eventi: di lì a qualche anno si sarebbe disgregata in una serie di khanati indipendenti, cessando di esistere.

Ancora più importanti, se possibile, furono gli eventi sul piano religioso. Sin dal 1325 Mosca ospitava la sede del metropolita, ossia del capo spirituale della chiesa ortodossa russa, dipendente dal patriarcato ecumenico di Costantinopoli. Col tempo il clero russo iniziò a provare una certa insofferenza nei confronti dei metropoliti di origine balcanica inviati da una città che era sì la Seconda Roma, ma era anche lontanissima e sempre più debole. Il desiderio di autocefalia, ossia il riconoscimento della propria indipendenza formale, andava infatti di pari passo con il progressivo disfacimento di quello che fu il possente Impero bizantino, ormai ridotto alla sola Costantinopoli e ad una manciata di possedimenti in Grecia e nell’Egeo.

Di fronte alla minaccia rappresentata dagli Ottomani, che già nel corso del secolo precedente erano passati sulla sponda europea dello stretto dei Dardanelli, l’imperatore Costantino XI Paleologo tentò una mossa tanto azzardata quanto disperata. Nella speranza di ottenere l’aiuto occidentale per contenere la marea ottomana, costui si disse pronto a prendere in considerazione una nuova unione tra la Chiesa di Roma e quella ortodossa. Nel 1439, nel contesto del concilio di Firenze, su pressione imperiale i vescovi greci accettarono le imposizioni cattoliche sia riguardo alla supremazia papale, sia su questioni dottrinali che minavano alla base le fondamenta teologiche dell’ortodossia. Come si può facilmente intuire la capitolazione di Firenze causò un acceso malcontento in Grecia, soprattutto in seno alle comunità monastiche, mentre a Mosca le cose andarono oltre. In un sinodo del 1443 i vescovi russi non solo rifiutarono di sottomettersi a Roma, ma deposero il metropolita e ne elessero uno nuovo, Iona vescovo di Rjazan’, e lo posero sotto la protezione di Vasilij II. Avendo nominato autonomamente il proprio vertice senza consultarsi con Costantinopoli, che riconobbe lo stato di fatto soltanto nel 1589, la chiesa russa aveva ottenuto l’autocefalia.

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Ivan III di Russia. Fonte Wikicommons

Vasilij II morì nel 1462 e a succedergli fu il figlio Ivan III, già da tempo associato al potere come co-reggente. Egli proseguì la politica paterna di unificazione nazionale, dimostrando buone capacità militari unite ad un certo grado di cautela: muovendosi per passi graduali attaccò i vicini soltanto in presenza di circostanze particolarmente favorevoli. A farne le spese furono dapprima Novgorod, sottomessa definitivamente nel 1478, e successivamente Tver’, capitolata nel 1485. L’influenza moscovita iniziò ad affermarsi anche su Rjazan’ e Pskov, che pur restando indipendenti divennero via via sempre meno autonomi fino ad essere annessi nel corso del secolo successivo. Inoltre nel 1480, sulle rive del fiume Ugra, la ritirata delle truppe tatare di fronte all’esercito moscovita sancì la fine di oltre due secoli di sudditanza, aprendo la strada alla futura espansione verso est che per il momento si concretizzò con le pesanti ingerenze di Ivan negli affari interni del khanato di Kazan’, scosso da una serie di lotte dinastiche.

L’unione dei due centri principali della Russia medievale — Novgorod e Mosca — ebbe conseguenze epocali. Non solo il termine Rossija subentrò al più antico Rus’ nei testi scritti, ma lo stesso Ivan iniziò ad essere chiamato con l’appellativo di Gosudar, ossia sovrano, al posto del consueto Gospodin, o signore: il Signore di Mosca divenne così Gran Principe di tutte le Russie. 

Occorre a questo punto fare una piccola digressione sia spaziale che temporale. Torniamo per un secondo a Costantinopoli, che nel 1453 era assediata dall’esercito ottomano al comando del sultano Maometto II. Nonostante il disperato tentativo di Costantino, dal resto d’Europa non giunse alcun aiuto, se non uno sparuto contingente genovese. Troppo poco per impedire l’inevitabile: il 29 maggio 1453 i giannizzeri espugnarono le mura teodosiane e nel bagno di sangue che ne seguì trovò la morte lo stesso imperatore. Il titolo imperiale o, meglio, la pretesa al trono passò così nelle mani di suo fratello Tommaso e ai suoi discendenti.

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Ricostruzione facciale forense di Zoe Paleologa. Fonte Wikicommons

Torniamo di nuovo a Mosca. Legato in prime nozze a Maria di Tver’ che gli diede un figlio, Ivan si risposò nel 1473 con Zoe (o Sof’ja) Paleologa, una delle figlie di Tommaso che nel frattempo era morto in esilio a Roma. La nuova consorte portò in Russia l’opulenta e meticolosa etichetta delle cerimonie di corte bizantine, oltre alle sue insegne regali, prima fra tutte l’aquila bicipite che è ancora oggi simbolo del paese. Con lei fece la sua comparsa anche una concezione autocratica del potere: se fino a quel momento le grandi famiglie nobiliari ed i boiardi avevano goduto di una certa autonomia e di una grande influenza esercitata attraverso la duma, il consiglio del gran principe, Ivan iniziò ad eroderne sistematicamente i privilegi, tentando di ridurli a meri esecutori della volontà del sovrano.

Caduta Costantinopoli e venuta meno la dipendenza dal suo patriarcato ecumenico, Ivan si convinse, anche in virtù del suo legame con Zoe, che Mosca dovesse ereditare il ruolo di Bisanzio, divenendo così la Terza Roma. Tale idea fu ulteriormente rafforzata dalla ritirata mongola sul fiume Ugra, che da più parti venne salutata come un segno divino: unica terra ortodossa libera dal giogo degli infedeli, circondata da cattolici — polacchi e svedesi — da un lato e da musulmani — tatari — dall’altro, la Russia era stata scelta da Dio per ergersi a bastione in difesa dell’unica vera fede, quella ortodossa.

Per rendere Mosca degna del ruolo assegnatole da Dio e dalla Storia, Ivan varò un importante progetto edilizio, che portò alla realizzazione del suo monumento più famoso, universalmente riconosciuto come simbolo del potere russo: il Cremlino. A onor del vero la città aveva già una sua fortezza, ma il sovrano decise di ampliarla, edificando al suo interno nuove cattedrali ed un palazzo residenziale. I lavori furono affidati ad architetti ed ingegneri italiani che utilizzarono come modello per il progetto il Castello Sforzesco di Milano. Nonostante i pesanti interventi che nel corso dei secoli successivi ne hanno cancellato il carattere rinascimentale, l’impianto della struttura è rimasto bene o male inalterato.

Ivan III morì nel 1505, dopo un regno durato più di quattro decenni, il più lungo dell’intera storia russa. Nel corso dei secoli successivi i suoi successori stringeranno un legame ancora più stretto con la chiesa russa, che dal 1589 avrà a Mosca un proprio patriarca e non più soltanto un metropolita, e faranno proprie le ambizioni imperiali bizantine con tutte le conseguenze del caso. Ne riparleremo in futuro.

 

BIBLIOGRAFIA

P. Bushkovitch, Breve storia della Russia. Dalle origini a Putin, Torino, Einaudi, 2013

G. Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Torino, Einaudi, 2014