La “Stalingrado” austroungarica: l’assedio della fortezza di Przemysl (1914-1915) parte 3

Le fortificazioni di Przemysl nel 1915.
Foto presa da Wikipedia

Ormai consapevole dell’affievolirsi delle possibilità di salvare la città-fortezza, Kusmanek decise di propria iniziativa di intraprendere una serie di azioni volte a danneggiare il più possibile le fortificazioni in caso di sfondamento russo. Fu così che a partire dal 5 marzo i genieri della guarnigione iniziarono a stipare i forti di esplosivi e a minare tutte le infrastrutture di importanza strategica, in modo da impedire ai russi di servirsene dopo la resa. L’idea della resa – e conseguentemente della prigionia in Russia – era ormai stata tacitamente accettata da tutti a Przemysl, come emerge del diario del dottor Thomann che, il 5 marzo, scriveva di essere pronto ad un viaggio di sola andata a Tomsk, Irkutsk o Tashkent, tanto da avere già pronto il necessario.

Nonostante l’assenza dell’artiglieria pesante, rimasta impantanata lungo la strada da Sebastopoli al fronte, il 14 marzo i russi tentarono un assalto limitato nel settore settentrionale del perimetro difensivo, riuscendo ad occupare diverse posizioni esterne. Subito i difensori iniziarono a radunare truppe per un contrattacco, ma questo venne abortito sul nascere: la scarsità di cavalli avrebbe reso impossibile lo spostamento di un numero sufficiente di cannoni, costringendo così la fanteria ad andare all’assalto senza alcun tipo di appoggio.

Due giorni dopo, il comandante della guarnigione informò il comando supremo e lo stesso Kaiser Francesco Giuseppe della sua intenzione di tentare uno sfondamento verso est, in modo da tentare un ricongiungimento con le forze di Pflanzer-Baltin in Bukovina. L’idea era quella di sfondare le linee nemiche con un attacco deciso e una volta raggiunti i depositi russi di Mostys’ka e Sadowa Wisznia – rispettivamente da una quindicina e ad una ventina di chilometri da Przemysl – lanciare in battaglia anche le truppe rimanenti. Si trattava di un piano dettato da qualcosa di ancora più profondo della disperazione: una marcia di oltre cento chilometri, in condizioni climatiche sfavorevoli, su strade dissestate, con uomini malnutriti ed in preda allo sconforto, ma agli occhi di Kusmanek preferibile all’avventurarsi attraverso i Carpazi innevati.

Andrei Selivanov, comandante delle truppe russe assedianti.
Foto presa da Wikipedia

Kusmanek non sapeva, però, che i russi non solo potevano contare sulle informazioni raccolte dai contadini della zona, ma erano anche riusciti a violare il codice con cui gli austriaci proteggevano le loro comunicazioni radio. Questo permise a Selivanov di prendere le dovute contromisure con largo anticipo, tanto che i punti di raccolta delle truppe austriache si ritrovarono sotto il tiro di diverse batterie d’artiglieria accuratamente disposte, mentre nella notte tra 18 e 19 marzo i battaglioni si ammassavano pronti a partire all’assalto. Nonostante tutto questo, i riservisti della 23° divisione Honvéd riuscirono a penetrare le linee nemiche per un paio di chilometri, prima di essere investiti sul fianco dal contrattacco portato avanti da una divisione di cavalleria russa. Gli austriaci furono costretti a ritirarsi nuovamente in città, mentre i magiari lasciarono sul campo due terzi dei propri effettivi.

Galvanizzato dal successo e contando sulla prostrazione dell’avversario, Selivanov lanciò una serie di attacchi infruttuosi nell’arco dei due giorni successivi, spingendo gli assediati ad accelerare i preparativi della capitolazione. I genieri collegarono i detonatori alle cariche esplosive, mentre pennacchi di fumo che si levano verso il cielo testimoniarono la distruzione sistematica del denaro contante e dei documenti militari. Gli ultimi cavalli rimasti vennero macellati ed il 21 marzo i cannoni della fortezza esplosero gli ultimi colpi prima di essere danneggiati in maniera irreparabile dai loro serventi.

Due ore prima dell’alba del 22 marzo, due ufficiali austriaci si presentarono davanti alle linee russe, sventolando bandiera bianca, per parlamentare la resa. Selivanov, evidentemente non troppo contento di essere stato svegliato così presto e non aduso alla sottile arte della diplomazia, li fece arrestare e solo l’intervento diretto dello zar, via telefono, riuscì a sbloccare la situazione. Al sorgere del sole, mentre le trattative erano ancora in corso, una serie di fragorose esplosioni rese inutilizzabile la maggior parte delle opere fortificate maggiori, segnando di fatto la fine dell’assedio: la guarnigione di Przemysl si arrese dopo quasi sei mesi consegnando ai russi un bottino di oltre centomila prigionieri, tra cui nove generali e altri duemilaseicento alti ufficiali.

La notizia della resa si diffuse rapidamente in tutto il mondo, minando in modo serio il prestigio ed il morale della Duplice Monarchia e delle sue forze armate. Nei primi mesi di guerra l’Austria-Ungheria aveva perso sul solo fronte galiziano oltre un milione di uomini tra morti, feriti e dispersi. Per completare questa macabra contabilità, vanno poi aggiunte le perdite sul fronte balcanico, numericamente inferiori ma comunque pesanti, dove la piccola Serbia aveva saputo resistere caparbiamente.

I resti della cittadella fortificata di Przemysl nel 2016.
Foto dell’autore

Ma quale fu la reale portata dell’assedio di Przemysl? Come e quanto influì questo episodio sull’andamento della guerra? Innanzitutto bisogna chiedersi cosa spinse Conrad a riporre così tante speranze su di una fortezza che nel 1914 era, come abbiamo visto nella prima parte, già obsoleta, tanto più che nella storia recente in nessun assedio – da Sebastopoli durante la guerra di Crimea a Port Arthur durante la guerra russo-giapponese – i difensori avevano giocato un ruolo risolutivo nell’andamento di un conflitto. Considerando che Conrad era un entusiasta sostenitore del ruolo offensivo delle truppe sul campo, la decisione di tenere a tutti i costi la città sul fiume San risulta incomprensibile, per cui possiamo ipotizzare che si sia trattato di una questione di onore/principio, non troppo dissimile dall’ossessione di Hitler per la conquista di Stalingrado nel 1942.

Le ripetute offensive sui Carpazi causarono perdite notevolmente superiori al numero di prigionieri catturati dai russi dopo la resa della città-fortezza, senza portare alcun tipo di beneficio agli assediati. Anche in questo caso la responsabilità è da ascrivere a Conrad e alla sua ossessione per arrivare a Przemysl seguendo la strada più breve. Le offensive carpatiche furono pianificate in modo superficiale ed eseguite in modo ancora peggiore, mandando le truppe al massacro in inutili assalti frontali attraverso passaggi obbligati facilmente difendibili dai russi. La conformazione del terreno, inoltre, rendeva impossibile alle diverse unità di supportarsi a vicenda, riducendo le offensive ad una serie di piccoli attacchi locali facilmente rintuzzabili. Non è un caso che l’unico successo austriaco avvenne più ad est, in Bukovina, dove gli ampi spazi pianeggianti si prestavano meglio ai movimenti di un ampio numero di truppe. Kusmanek lo aveva intuito, come testimonia il piano disperato elaborato poco prima della resa, Conrad era semplicemente troppo ottuso per farlo.

Cimitero militare russo a Przemysl.
Foto dell’autore

D’altro canto è innegabile che le operazioni di assedio tennero impegnate per diversi mesi una intera armata russa che, sebbene composta di unità di riserva, avrebbe potuto avere un ruolo determinante altrove. Penso, ad esempio, al tentativo di sfondamento verso Cracovia di dicembre 1914 culminato nella battaglia di Limanowa in cui gli austriaci riuscirono, sebbene in leggera inferiorità numerica, a respingere i russi, oppure ai contrattacchi di Brusilov sui Carpazi dove dopo le fallimentari offensive di gennaio e febbraio le linee austriache erano tenute da una manciata di uomini demoralizzati e flagellati dal gelo. Non è un caso che dopo la resa, l’XI armata russa venne smembrata e parte delle truppe inviata a nord per contenere la pressione tedesca, mentre il resto degli reparti venne spedito proprio in Bukovina per ricacciare indietro le formazioni di Pflanzer-Baltin, segno che perfino nella STAVKA c’erano menti più aperte di quelle dell’AOK austriaco. Mettendo da parte le congetture, certo è che l’assedio costò ai russi circa centomila uomini, di cui una metà nel corso gli attacchi insensati di Dimitriev nel settembre 1914.

La notizia della riconquista di Przemysl in un giornale  austriaco.
Foto presa da Wikipedia

La vittoria russa fu comunque effimera, dato che nel maggio dello stesso anno un poderoso attacco austro-tedesco, l’offensiva di Tarnow-Gorlice, riuscì a sfondare le linee zariste causando una reazione a catena che portò al crollo dell’intera linea del fronte. Con la Grande Ritirata, la Russia fu costretta ad abbandonare l’intero saliente polacco, compresa Varsavia, parte della Lituania e gran parte della Galizia austriaca. Anche Przemysl fu interessata da un nuovo assedio, il terzo, ma la sistematica distruzione delle fortificazioni ordinata da Kusmanek impedì ai pochi reparti russi di stanza in città di resistere per molto tempo.

 

[parte 1] [parte 2]

BIBLIOGRAFIA

A. Watson, The Fortress: The Great Siege of Przemysl, London, Penguin Books, 2019

P. Buttar, Collision of Empires. The War on the Eastern Front in 1914, Oxford, Osprey Publishing, 2014

P. Buttar, Germany Ascendant. The Eastern Front 1915, Oxford, Osprey Publishing, 2017

N. Stone, The Eastern Front 1914-1917, London, Penguin Books, 1998

 

La “Stalingrado” austroungarica: l’assedio della fortezza di Przemysl (1914-1915) parte 2

Alla fine di ottobre, la sconfitta delle truppe tedesche sulla Vistola espose pericolosamente il fianco delle formazioni austroungariche in Galizia, costringendo Conrad ad ordinare una nuova ritirata sulla linea del Dunajec. Il 4 novembre le autorità di Przemysl ordinarono una nuova evacuazione di civili, ma molti furono costretti a rientrare in città a causa della presenza di numerose pattuglie di cavalleria russa. Sei giorni dopo la città-fortezza si trovò nuovamente isolata.

Il generale Kusmanek, comandante della fortezza di Przemysl.
Fonte Wikipedia

Rispetto a due mesi prima, i difensori si trovarono ad affrontare una situazione radicalmente diversa. Le riserve della fortezza erano state depauperate dalle truppe alleate e ad aggravare la crisi alimentare contribuiva la presenza in città di diversi reparti di sbandati che, rimasti tagliati fuori dalla ritirata, si erano uniti alla guarnigione. La loro presenza in città comportava un altro tipo di problema. Se in origine le truppe di stanza a Przemysl erano composte interamente da soldati di lingua ungherese, i nuovi reparti provenivano da ogni angolo della Duplice Monarchia, una Babele composta da quattordici lingue diverse. A complicare ulteriormente il problema comunicativo, contribuiva la nuova generazione di sottufficiali giunta al fronte per sostituire i caduti delle prime settimane: costoro fin troppo spesso non parlavano la lingua dei loro sottoposti e non erano nemmeno intenzionati ad impararla. Riassumendo, a novembre si ritrovarono intrappolati a Przemysl più di centoventimila uomini, oltre a diverse migliaia di civili, quando le scorte alimentari della fortezza erano pensate per una guarnigione che a pieni ranghi ne contava soltanto ottantacinquemila.

I comandanti russi, memori delle pesantissime perdite causate dagli sconsiderati attacchi di Dimitrev, optarono per seguire una nuova strategia. L’XI armata chiese alla base navale di Sebastopoli l’invio di alcuni cannoni navali, da impiegare per ridurre al silenzio le postazioni nemiche meglio difese, e si trincerò intorno alla città, con la non troppo celata speranza di riuscire a prenderla per fame. L’ipotesi era tutt’altro che campata in aria, dato un rapido inventario delle scorte stabilì che queste sarebbero state completamente consumate entro la metà di gennaio. Il comandante Kusmanek fu quindi costretto ad ordinare l’abbattimento e la macellazione di circa la metà degli oltre ventimila cavalli presenti nella fortezza. Si trattò di una scelta disperata e dalle conseguenze fatali, che influì negativamente sulla mobilità delle truppe assediate e sulla loro capacità di concentrare l’artiglieria là dove sarebbe servita.

La carne equina diventò quindi la base della dieta dei soldati austriaci. Addirittura la farina per il pane, ottenuta dai cereali meno nobili, originariamente destinati ad essere foraggio, veniva tagliata con i resti delle carcasse dei quadrupedi essiccate e polverizzate. Nonostante la mattanza, la durata delle provviste fu prolungata soltanto di un mese, tanto che a gennaio le razioni per i militari vennero progressivamente ridotte. Se in origine erano previsti settecento grammi di pane, trecento grammi di carne e duecento grammi di verdure al giorno, questi si ridussero a trecento grammi di pane con in supplemento cinquanta grammi di gallette, settanta grammi di verdure e una piccola porzione di patè di cavallo. Di contro il fabbisogno calorico individuale aumentò di molto, sia per il rigido clima invernale, sia perchè il lavoro precedentemente svolto dagli animali abbattuti doveva ora essere svolto dalla truppa.

Il 18 dicembre alcuni reparti russi sferrarono un attacco contro il settore nord, riuscendo a conquistare alcune postazioni esterne. I contrattacchi austriaci naufragarono a causa del mancato supporto dell’artiglieria ai reparti di fanteria. Il 27 dello stesso mese, il comandante della guarnigione raggruppò una forza di quindici battaglioni – circa seimila uomini – per effettuare una sortita in grado di raggiungere uno dei depositi di rifornimenti russi. Anche in questo caso lo sforzo della truppa venne vanificato da un insufficiente appoggio dell’artiglieria. Il potenziale bellico della guarnigione ormai stava colando a picco: sebbene sulla carta disponesse ancora di ottantaquattromila uomini atti alle armi, solo quindicimila erano truppe di prima linea, mentre i restanti erano riservisti della Landsturm e dell’Honvéd.

Con l’inizio del nuovo anno la situazione alimentare peggiorò ulteriormente, con la fame che divenne endemica. Il dottor Josef Thomann annotò sul suo diario, una fonte di eccezionale interesse sulla vita durante l’assedio, i primi casi di malnutrizione. Dalle sue pagine emerge l’enorme disparità di trattamento tra truppa e ufficiali: se i soldati semplici morivano letteralmente di fame, gli ufficiali vivevano nel lusso, tanto da abbandonarsi a banchetti tanto sontuosi quanto osceni, e gli unici problemi di salute in cui incorrevano erano le malattie veneree.

Ebrei galiziani. Data e luogo ignoti.
Fonte ukrainianjewishwencounter.org

Nonostante un ulteriore abbattimento di cavalli, le condizioni di vita in città continuarono a peggiorare. Se nel diario del dottore vengono contati fino a trecento decessi al giorno per malnutrizione e patologie collegate, le autorità civili contarono una mortalità più che doppia rispetto al tempo di pace. Non solo i militari, ma anche gli abitanti di Przemysl soffrirono enormemente per le privazioni dell’assedio. La fame spinse le varie componenti della cittadinanza le une contro le altre, ma tutte – polacchi, ruteni, tedeschi – sembrarono concordi nell’incolpare la popolazione ebraica di aver ammassato scorte per poi arricchirsi rivendendo il cibo a prezzo maggiorato. In effetti il prezzo delle derrate alimentari era aumentato fino a quaranta volte – come nel caso del pane – rispetto a prima dello scoppio della guerra, ma questo era dovuto alla generale scarsità di risorse piuttosto che all’azione degli “approfittatori giudei” (sic!). Fiutando nell’aria la minaccia di un pogrom imminente, Kusmanek ordinò di aprire i magazzini della fortezza ai civili, per permettere loro l’acquisto di cinque chili di carne equina a prezzo calmierato.

Nel corso dell’inverno gli austriaci provarono a lanciare diverse offensive attraverso i Carpazi nella speranza di riuscire a raggiungere Przemysl, ma tutte queste si risolsero in sanguinosi fallimenti. Fu soprattutto il gelo, più del fuoco nemico, a mietere vittime tra le fila asburgiche: con temperature che scendevano abbondantemente sotto lo zero anche di giorno, non era raro che interi plotoni morissero congelati in trincea. L’unico successo, ammesso che possa essere considerato tale, fu la liberazione di Czernowitz, capoluogo della Bukovina austriaca, a centinaia di chilometri dalla città assediata, durante la seconda offensiva del febbraio 1915. La testardaggine di Conrad, deciso a liberare la fortezza più per una questione di prestigio personale che sulla base di considerazioni strategiche, costò alla Duplice Monarchia oltre mezzo milione di uomini tra caduti, feriti e prigionieri.

Fanteria austriaca sui Carpazi, presumibilmente 1915.
Fonte greatwarproject.org

Nel suo posto di comando lungo il fiume San, Kusmanek si trovava nella difficile situazione di dover decidere se annullare la propria capacità offensiva, limitandosi ad una difesa statica, per cercare di sopravvivere il più a lungo possibile o se mantenersi pronto ad intervenire in supporto all’esercito di soccorso che si sperava sarebbe giunto il prima possibile. Interrogato su quale opzione scegliere, Conrad ordinò di macellare tutti i cavalli restanti eccetto quattromila: una soluzione che non risolveva la questione alimentare e che al tempo stesso non garantiva un potenziale bellico sufficiente. Przemysl ormai sembrava condannata.

[parte 1] [parte 3]

BIBLIOGRAFIA

A. Watson, The Fortress: The Great Siege of Przemysl, London, Penguin Books, 2019

P. Buttar, Collision of Empires. The War on the Eastern Front in 1914, Oxford, Osprey Publishing, 2014

P. Buttar, Germany Ascendant. The Eastern Front 1915, Oxford, Osprey Publishing, 2017

N. Stone, The Eastern Front 1914-1917, London, Penguin Books, 1998

Crécy, 1346: il tramonto della cavalleria pesante in Europa

Edoardo III d’Inghilterra.
Fonte Wikipedia

Edoardo III d’Inghilterra non si trovava in una posizione invidiabile quando, il 26 agosto 1346, fu costretto a dare battaglia. Sul campo di Crécy, in Piccardia (nord della Francia), il logoro esercito inglese si trovò ad affrontare l’esercito francese al completo: ben cinquantamila armati, tra cui dodicimila cavalieri pesanti desiderosi di cacciare gli invasori dal sacro suolo di Francia. Per ribaltare una situazione disperata, l’unica carta giocabile dal sovrano inglese era la scelta del luogo dove combattere. Come vedremo si trattò di una scelta decisiva.

Ma come ci era arrivato l’esercito inglese in Piccardia? La battaglia di Crécy va inquadrata nel contesto della Guerra dei cent’anni (1337-1453) che vide la dinastia inglese dei Plantageneti ed il ramo di Valois della famiglia francese dei Capetingi affrontarsi per il controllo del trono di Francia. Nel luglio del 1346 Edoardo salpò alla volta della penisola del Cotentin in Normandia insieme al primogenito sedicenne, Edoardo il Principe Nero, e a circa dodicimila armati, in buona parte arcieri gallesi.

Con il grosso dell’esercito francese impegnato nell’assedio di Aigulloin in Guascogna, all’epoca possesso inglese, o disperso in varie guarnigioni tra la riva settentrionale della Senna ed il confine con le Fiandre, la Normandia era virtualmente indifesa e l’esercito inglese potè sbarcare indisturbato. Edoardo iniziò quindi una sistematica campagna di devastazione, razziando e dando alle fiamme ogni centro abitato posto sul cammino delle sue truppe.

I luoghi descritti nel post. Il luogo della battaglia è evidenziato in rosso.
Cartina opera dell’autore con l’aiuto di Pietro D’Orio

Il culmine fu raggiunto il 26 luglio a Caen, il principale centro culturale ed economico della regione. La città fu investita dall’assalto congiunto delle truppe di terra e della flotta inglese che aveva risalito il fiume Odon e, nonostante la strenua resistenza della guarnigione, venne espugnata in breve tempo: diverse centinaia di abitanti vennero massacrati, mentre la razzia si protrasse per ben cinque giorni. Sebbene all’epoca il saccheggio fosse la prassi per rifornire qualsiasi esercito, una devastazione di tale portata – che nel corso del conflitto divenne quasi un marchio di fabbrica dei comandanti inglesi – rimane un quesito aperto. Si può legittimamente supporre che che si trattò di un modo per mostrare ai francesi l’impotenza e l’incapacità del loro sovrano, cercando al tempo stesso di costringerlo a dare battaglia con le poche forze a sua disposizione.

Dopo la mattanza di Caen, Edoardo si rimise in marcia con la non troppo velata intenzione di raggiungere la Fiandre, dove nel frattempo era sbarcata una piccola forza inglese che si era unita ai rivoltosi locali. La fortuna, però, sembrava aver voltato le spalle al sovrano inglese.

Filippo VI di Francia.
Fonte Wikipedia

Dopo aver preso in consegna l’orifiamma, il sacro stendardo dei reali francesi conservato presso l’abbazia di Saint-Denis, il re di Francia Filippo VI emanò una chiamata alle armi generale nella regione compresa tra Rouen ed Amiens. Per guadagnare tempo affinché la campagna di reclutamento potesse dare i suoi frutti e per costringere il nemico a ritirarsi nuovamente verso la Normandia, diede ordine di abbattere la maggior parte dei ponti sulla Senna, distaccando consistenti guarnigioni a difesa dei pochi rimasti.

Quando l’avanguardia inglese giunse alle porte di Rouen, scoprendo che una nutrita forza nemica era già giunta in città, una certa inquietudine iniziò a serpeggiare tra le truppe.  Edoardo diede ordine di costeggiare la Senna in cerca di un guado o di un ponte, venendo seguito a distanza dall’esercito francese, padrone della sponda settentrionale. Come uscire dall’impasse? Il Plantageneto decise di giocarsi tutto puntando direttamente su Parigi, confidando in qualche reazione inconsulta da parte dell’avversario. L’azzardo funzionò, perché l’esercito francese abbandonò l’inseguimento, raggiungendo la capitale dopo una lunga marcia forzata, preparandosi ad affrontare un assedio.

Giunto alle porte di Parigi, Edoardo non provò nemmeno a saggiare le difese della città, ma attraversò la Senna su un ponte di fortuna costruito dai suoi genieri, con sommo scorno del sovrano francese. Quella che sembrava una beffa, però, iniziò ben presto a tramutarsi in tragedia. Filippo, infatti, temendo una eventualità del genere aveva dato ordine di fare terra bruciata in tutte le terre comprese tra la Senna e la Somme per privare gli inglesi di qualsiasi sostentamento. L’esercito invasore fu così costretto a sparpagliare i propri saccheggiatori su una area più vasta: i gruppi isolati diventarono così facile preda dei contadini locali, sottoponendo così le forze inglesi ad un lento e continuo stillicidio.

Edoardo il Principe Nero insieme al padre Edoardo III.
Fonte Wikipedia

A corto di rifornimenti e tallonato dall’esercito francese, desideroso di lavare nel sangue l’onta subita alle porte di Parigi, l’unica possibilità per Edoardo era quella di abbandonare il grosso del bottino e procedere verso la Somme e la Piccardia e qui unirsi con i rinforzi provenienti dalla Fiandre, con cui era costantemente in contatto. Come potessero comunicare due forze separate da decine e decine di chilometri di territorio nemico, lontane dalla costa, in una epoca in cui non esistevano le telecomunicazioni è uno dei grandi misteri della storia militare: non esistono ipotesi convincenti, sebbene sia pressoché pacifico che i due eserciti manovrarono in perfetta coordinazione.

Sfuggendo più volte al contatto con il nemico e dopo vari tentativi di attraversare il fiume, il 24 agosto l’esercito inglese riuscì a guadare la Somme dopo aver sbaragliato un consistente presidio francese nella battaglia di Blanchetaque. Giunto a Crécy il giorno successivo, Edoardo si rese conto della futilità di logorare ulteriormente le sue truppe già prostrate dalla lunga ritirata, decidendo così di dare battaglia l’indomani.

Breitenfeld, 1631. L’ascesa di Gustavo II Adolfo di Svezia

Gustavo II Adolfo a Breitenfeld (opera di Johann Walter)
fonte: Wikipedia

17 settembre 1631, Breitenfeld, Elettorato di Sassonia, ad una manciata di km dalla città di Lipsia. Un poderoso esercito cattolico, comandato dal conte di Tilly, si scontra con l’esercito svedese, guidato dal re Gustavo II Adolfo, cui era aggregato un contingente sassone. Nonostante la superiorità numerica, dovuta alla fuga delle truppe sassoni, la battaglia si concluse con una completa sconfitta della compagine imperiale: nasceva così la leggenda del Leone di Mezzanotte.

L’inizio dell’impegno svedese in terra tedesca risaliva ad appena un anno prima, quando Gustavo sbarcò sull’isola di Usedom, a poca distanza da Stettino, con un esercito di 13.000 uomini. All’epoca la Germania era devastata da una serie di lotte fratricide tra nobiltà cattolica e protestante, iniziate con la Defenestrazione di Praga del 1618 e passate alla storia con il nome di Guerra dei Trent’Anni.

Ferdinando II d’Asburgo
fonte: Wikipedia

Il sovrano svedese assurse immediatamente al ruolo di paladino dello schieramento protestante, ponendosi come protettore dei suoi correligionari dai tentativi accentratori dell’Imperatore – il cattolicissimo Ferdinando II d’Asburgo – e dalle intemperanze delle sue soldataglie. Egli stesso alimentò il proprio mito, tanto che successivamente venne dipinto come un guerriero disinteressato che combatteva a fianco degli oppressi per la realizzazione di una monarchia costituzionale e liberale (sic!). Le fonti coeve, tuttavia, ci narrano un’altra storia.>p>

Gustavo II fu un sovrano bellicoso, un freddo calcolatore, che approfittò di un momento di grande debolezza dell’Impero per mettere in atto il proprio disegno egemonico sul Baltico. Cosa che effettivamente riuscì, dato che fino al secolo successivo la Svezia fu una delle superpotenze dell’epoca.

Corazzieri imperiali
fonte: Wikipedia

Come fu possibile che un paese scarsamente abitato – i dati demografici ci parlano di un milione scarso di abitanti – come la Svezia riuscì a prevalere su paesi ben più ricchi e densamente popolati? Una certa importanza la ebbero i fondi francesi, che permisero al sovrano svedese il mantenimento di un’armata spropositata senza dissestare le finanze del regno, ma ancora più determinante fu il comportamento delle milizie cattoliche. Quando le truppe di Tilly saccheggiarono la ricca città di Magdeburgo, faro del protestantesimo tedesco, riducendola in cenere e causando la morte della maggior parte dei suoi ventimila abitanti, i principi protestanti si schierarono compatti a fianco di Gustavo che ottenne senza il minimo sforzo ulteriore denaro, truppe di rinforzo e rifornimenti.

Il fattore più importante del successo svedese, tuttavia, fu l’insieme delle grandi riforme militari introdotte dal re di Svezia. Analizzare la battaglia di Breitenfeld ci permette di coglierle nella loro interezza e di comprendere a pieno il loro impatto sul campo.

Sul campo di battaglia una forza disciplinata e ben addestrata è in grado di prevalere anche in condizione di grave inferiorità numerica e l’esercito svedese era una delle compagini militari meglio addestrate dell’epoca. Gustavo II stabilì una leva ventennale obbligatoria per tutti gli svedesi atti alle armi, sebbene a conti fatti soltanto un uomo su dieci finiva sotto le armi. I restanti nove venivano tassati per provvedere al suo equipaggiamento: le forniture erano infatti di compentenza dello Stato e in questo il sistema svedese superò quello introdotto in epoca coeva dal Wallenstein, gettando i semi di quella che successivamente diventerà la logistica. Un sistema di questo tipo era tuttavia estremamente gravoso per le finanze di un paese non certo ricco come la Svezia del XVII secolo, tanto che durante l’avventura in terra tedesca solo una piccola parte dell’esercito, la colonna vertebrale per così dire, era formata da veterani di lungo corso che avevano già avuto il battesimo del fuoco contro la Danimarca, la Polonia e la Russia. Il resto della truppa era costituito da mercenari e da contingenti alleati, tutti addestrati a combattere “alla svedese”.

Statua del conte di Tilly presso il Museo di Storia Militare di Vienna
fonte: Wikipedia

Sul campo di Breitenfeld, Tilly schierò il proprio esercito nella consueta formazione a tercio, termine di origine spagnola con cui all’epoca si indicavano formazioni miste di fanteria, di dimensioni variabili, composte da picchieri e archibugieri. Nel corso del tempo la proporzione tra le due componenti variò e all’epoca della battaglia era diventata canonica una composizione con due terzi di armi da fuoco e un terzo di picche. Il comandante cattolico optò per formazioni relativamente piccole: millecinquecento uomini disposti su dieci file da centocinquanta uomini ciascuna. Dodici di queste formazioni furono schierate in formazioni da tre tercio, con quello centrale leggermente avanzato rispetto a quelli laterali, mentre altre due vennero dispiegati sui fianchi dello schieramento.

Gustavo II Adolfo rimescolò le carte in tavola, perfezionando le riforme militari recentemente introdotte nelle Province Unite, l’attuale Olanda, da Guglielmo e Maurizio d’Orange. L’unità base dell’esercito svedese era il battaglione, che nella cavalleria diventava squadrone, composto da circa 400 uomini e suddiviso a sua volta in quattro compagnie di cento uomini. Due battaglioni andavano a formare un reggimento di circa 800 uomini e due reggimenti formavano una brigata di circa 1600 soldati. Ogni unità era dotata di propri ufficiali e questo rendeva le truppe svedesi molto più flessibili e mobili rispetto al tercio cattolico.

Letture del mese – Dicembre ’19

Bentrovati con il consueto appuntamento mensile dedicato alla lettura, che oggi giunge al suo dodicesimo episodio. Si tratta anche dell’ultimo post per quest’anno. Il 2019 è stato un anno stimolante per quanto riguarda questo blog e penso che ciò sia testimoniato anche dalla quantità di materiale pubblicato, che ha superato quella dei due anni precedenti messi insieme. Questo mi ha dato una discreta spinta motivazionale, tanto che per l’anno prossimo ho deciso di apportare qualche novità, ma di questo ne parleremo direttamente a gennaio.

JAMES J. SADKOVICH – LA MARINA ITALIANA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

Al momento dell’entrata in guerra dell’Italia, il 10 giugno 1940, le sue forze armate versavano in condizioni drammatiche. Unica eccezione la Regia Marina, che, sebbene afflitta da gravi problemi come la costante carenza di carburante e la scarsa disponibilità di equipaggiamento, poteva contare su personale bene addestrato e su navi relativamente moderne.

Per tre lunghi anni la Marina italiana si trovò a contendere il possesso del bacino del Mediterraneo alla Royal Navy, la più grande potenza navale dell’epoca. Tuttavia, nonostante trentanove mesi di lotta serrata, nella storiografia militare britannica il Mediterraneo viene dipinto come uno scenario bellico secondario. Per rendersene conto basta sfogliare le opere di storici del calibro di Martin Gilbert o di Basil Liddell Hart, dove le operazioni navali contro la flotta italiana sono a malapena accennate. Anzi, spesso e volentieri la marina italiana viene dipinta come una presenza evanescente, tutt’altro che determinante, soggiogata dalla “superiorità morale” della Royal Navy e pertanto vittima di una vera e propria “paralisi della volontà”. È stato davvero così?

Partiamo  col dire che la guerra nel Mediterraneo fu piuttosto atipica trattandosi fondamentalmente di una guerra di convogli. Ciò implica che la maggior parte dello sforza bellico dei due contendenti fu assorbito dalla protezione del proprio traffico navale e dal tentativo di bloccare quello avversario. La maggior parte degli scontri aeronavali in questo teatro, dalle due battaglie della Sirte alla battaglia di Mezzo Agosto, si svolsero in concomitanza con l’invio di grossi convogli di rifornimenti. Gli inglesi furono senz’altro avvantaggiati dal possesso di Malta, che per tutta la durata del conflitto fu una spina nel fianco del traffico convogliato dell’Asse, dall’ottusità del comando tedesco, che non permise agli italiani l’utilizzo dei porti tunisini se non quando la situazione in Nordafrica fu definitivamente compromessa e che preferì assecondare l’avanzata di Rommel verso l’Egitto anzichè provvedere a neutralizzare l’isola, e dalle croniche carenze della Regia Aeronautica, che senza l’aiuto della Luftwaffe non disponeva di velivoli ed equipaggiamenti in numero sufficiente per scortare i convogli e al tempo stesso impegnare l’aviazione maltese.

Nonostante le accuse di incompetenza da parte tedesca e la spacconeria inglese, dai dati raccolti dall’autore emerge un dato sorprendente: la Regia Marina riuscì a trasportare più dell’80% dei rifornimenti sulle rotte africane. Si trattò comunque di una vittoria di Pirro, in quanto il servizio di scorta logorò il naviglio minore – come cacciatorpediniere e torpediniere – con un tasso di perdite che l’industria cantieristica italiana non era in grado di rimpiazzare ed esaurì le riserve di carburante della Marina, tanto che i serbatoi delle corazzate italiane rimasero vuoti per gran parte del conflitto. Non che ciò abbia fatto una grande differenza, visto che sia Cunningham che Vian rifiutarono lo scontro con le unità maggiori della flotta italiana se non in condizioni di schiacciante superiorità, come a Capo Matapan dove un attacco notturno guidato dal radar – strumento di cui gli italiani erano sprovvisti – si risolse con la peggior sconfitta patita dalla Regia Marina durante la guerra.

Il teatro del Mediterraneo fu tutt’altro che secondario anche per la Gran Bretagna. Anzi, per lungo tempo assorbì completamente lo sforzo bellico britannico e del Commonwealth. Per la protezione del traffico convogliato diretto a Malta, l’Ammiragliato non lesinò sulla quantità di imbarcazioni distaccate a Gibilterra e ad Alessandria d’Egitto e ciò è testimoniato dal numero di portaerei e corazzate ivi impiegate e dalla quantità di naviglio perduto.

L’opera di Sadkovich riesce nell’impresa di dare a Cesare quel che è di Cesare, mostrando come la Regia Marina riuscì a svolgere il compito che si era preposta, nonostante la superiorità tecnologica degli avversari e le debolezze del complesso militare-industriale italiano. Tuttavia il giudizio sul volume non può essere del tutto positivo.

Punto di forza dell’opera è sicuramente la bibliografia sterminata che l’autore porta a sostegno delle proprie tesi. Si tratta di quasi tutto il materiale pubblicato sull’argomento, che spazia dalle memorie dei protagonisti fino ai saggi più specialistici e meno conosciuti. A questo, poi, va aggiunto il materiale d’archivio, per lo più documenti interni e rapporti di intelligence. In parole povere questo volume è il frutto di un lavoro di ricerca durato anni, il che è senza dubbio encomiabile.

Di contro, però, vi sono diversi punti critici. L’autore appare infatti fin troppo sbilanciato a favore della Regia Marina, arrivando a mettere in secondo piano l’apporto della Luftwaffe, che al largo di Creta inflisse danni enormi alla Royal Navy, e a minimizzare i successi inglesi. Per farlo propone motivazioni arzigogolate, spesso per nulla convincenti, provando a giustificare l’ingiustificabile. Piuttosto significativo, a mio avviso, il fatto che il curatore dell’edizione italiana sia stato costretto a diverse rettifiche in calce al testo. Che ciò sia dovuto a semplice approssimazione o a malizia non mi è possibile dirlo, ma in ogni caso è una nota stonata in un lavoro altrimenti rigoroso. Insopportabile, infine, il ricorso esagerato ai periodi ipotetici, con l’abuso di lunghi elenchi di “se…”, che a mio parere nulla hanno a che fare con il rigore storiografico.

Ritengo, tuttavia, che si tratti di un’opera valida, soprattutto per quanto riguarda l’esposizione dei fatti  e per la lodevole intenzione di voler smontare diversi luoghi comuni. Al tempo stesso, però, invito a non accettare acriticamente tutte le conclusioni a cui arriva l’autore, perchè – vale la pena ribadirlo – inanellare una serie di frasi ipotetiche pur di suffragare le proprie tesi a mio avviso non rende giustizia al mestiere di storico.