La rivolta di Kronstadt del marzo 1921 e la Rivoluzione russa

Kronstadt e San Pietroburgo in una mappa del 1888.
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Posta come sentinella a guardia della rotta di accesso a San Pietroburgo, l’isola di Kotlin ha sempre giocato un ruolo chiave nel sistema difensivo della vecchia capitale imperiale russa. Sin dal 1703, infatti, ha ospitato una delle principali basi navali dell’Impero russo, nonchè sede della Flotta del Baltico: Kronstadt. Questa città-fortezza svolse un ruolo importantissimo nella Rivoluzione russa e nel marzo del 1921 fu teatro di un ultimo, disperato tentativo di riportarla allo spirito originario.

Durante un viaggio nel 1839, Astolphe de Custine, nel suo Lettere dalla Russia, dipinse i marinai di Kronstadt in termini molto poco lusinghieri. L’autore francese li descrive infatti come «sbrindellati, coperti alla meno peggio da pelli di montone rovesciate, la lana dentro e il cuoio lercio fuori», oppure come «specie di sudici galeotti che passano la vita a trasportare gli impiegati e gli ufficiali di Kronstadt a bordo delle navi straniere». La seconda frase, in particolare, sembrava riflettere l’atteggiamento mantenuto, ancora agli inizi del secolo successivo, dalle autorità zariste e dal corpo ufficiali nei confronti degli abitanti dell’isola. I marinai della flotta, i soldati della guarnigione, ma anche gli operai dei cantieri navali, i pochi commercianti e gli ancora meno numerosi maestri, erano sottoposti ad una disciplina militare durissima, tanto da rendere la città-fortezza una sorta di colonia penale. Percosse e punizioni corporali venivano inflitte con qualsiasi pretesto e non è infrequente che gli ufficiali infierissero sulla truppa senza alcuna ragione apparente. Il regime disciplinare subì un ulteriore inasprimento nel 1909 con la nomina a governatore dell’ammiraglio Robert Nikolaevic Viren, il cui sistematico ricorso al terrore avrebbe dovuto frenare, almeno nelle intenzioni, la diffusione delle idee rivoluzionarie, ottenendo però il risultato opposto.

Poliziotti arrestati a Pietrogrado.
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L’8 marzo 1917 (il 23 febbraio secondo il calendario giuliano all’epoca vigente in Russia) una serie di scioperi nelle fabbriche della capitale, ribattezzata Pietrogrado allo scoppio della prima guerra mondiale, innescò una catena di eventi che culminò con l’abdicazione dello zar Nicola II e la nascita di un governo provvisorio retto dal principe L’vov (2 marzo): la Rivoluzione di febbraio. Nel frattempo, il 27 febbraio, nasceva nel palazzo di Tauride il Soviet dei deputati degli operai e dei soldati di Pietrogrado che, sebbene avesse sulla carta ceduto il potere al comitato provvisorio della Duma, e quindi al governo provvisorio, nei fatti svolse la funzione di governo ombra rivoluzionario.

Sull’isola di Kotlin i rivoluzionari passarono all’azione il 28 febbraio. I marinai si ammutinarono prendendo il controllo delle navi da guerra, mentre gli operai ed i soldati della guarnigione occuparono i punti nevralgici della città. Salvo una manciata di ufficiali che si unirono alla rivoluzione, i restanti furono disarmati e posti agli arresti. Di questi una parte venne rinchiusa nelle carceri della fortezza, mentre i restanti furono fucilati insieme all’odiato ammiraglio Viren. L’unico tentativo di resistenza da parte di una sezione dell’Ochrana, la polizia segreta zarista, asseragliatasi in una caserma, fu ridotto al silenzio con un paio di tiri dell’artiglieria navale.

Marinai della Petropavlovsk nel 1917. Sulla bandiera si legge “morte alla borghesia”.
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Una volta assunto il controllo dell’isola, i suoi abitanti si trovarono a doversi autogovernare. Prendendo a modello quanto accaduto nella capitale vennero eletti due soviet, uno operaio ed uno militare, i cui comitati esecutivi andranno ad unificarsi nel Comitato esecutivo del Soviet dei rappresentanti degli operai e dei soldati. Questo stabilì l’elezione diretta di tutte le cariche militari, compresi i comandanti delle fortezze dell’isola, da parte della truppa che generalmente si riuniva in assemblea nella piazza dell’Ancora. Da questo punto di vista l’autogoverno della città-fortezza fu una sorta di “democrazia sovietica”, una forma estrema di democratizzazione del potere, in cui il costante controllo della base tramite le continue assemblee finiva per esercitare una forte influenza sulle decisioni finali.

Sul piano dei rapporti esterni si decise fin da subito di non riconoscere il nuovo governo provvisorio, con il netto rifiuto a qualsiasi giuramento di fedeltà – lo stesso nuovo governatore dell’isola fu privato di qualsiasi reale potere, venendo a malapena tollerato – preferendo rapportarsi direttamente con il Soviet di Pietrogrado su di un piano paritario.

Nei mesi successivi i rivoluzionari di Kronstadt svolsero un ruolo importante tanto nelle giornate di luglio, in cui il malcontento per l’andamento della guerra portò spontaneamente ad un nuovo tentativo rivoluzionario che, pur fallendo, ebbe come risultato la formazione di un nuovo governo guidato da Kerenskij, quanto nella difesa della capitale durante il colpo di stato del generale Kornilov nel mese di agosto. Ancora più determinante fu il ruolo svolto dai marinai della Flotta del Baltico durante la Rivoluzione d’ottobre. Nella notte tra il 6 ed il 7 novembre (24 e 25 ottobre secondo il calendario giuliano), mentre i bolscevichi prendevano possesso di vari luoghi nella capitale, costoro si occuparono di disarmare le forze governative a guardia dei ponti, di importanza vitale in una città attraversata da una rete di canali come Pietrogrado, mentre a partire dall’alba parteciparono alla conquista del Palazzo d’Inverno. Il 30 ottobre, infine, contribuirono a proteggere la capitale dall’avanzata di una colonna di truppe lealiste guidata dal cosacco Krasnov in uno scontro presso il villaggio di Pulkovo.

Lev Trotzky.
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La battaglia delle alture di Pulkovo fu al tempo stesso l’ultimo tentativo di riprendere il potere da parte di Kerenskij ed il primo fatto d’armi della lunga guerra civile che insanguinerà la Russia fino al 1923. Pur partecipando attivamente alla difesa del neonato stato bolscevico, tanto dagli attacchi portati dalle Armate bianche quanto da quelli del corpo di spedizione dell’Intesa, tra i marinai di Kronstadt si sviluppò una crescente opposizione al monopolio bolscevico del potere. Ne sono un ottimo esempio la mozione di condanna alla violenta repressione degli anarchici moscoviti da parte della Čeka, votata ad ampia maggioranza il 18 aprile 1918, e la crescente insofferenza verso la riorganizzazione dell’Armata Rossa nel 1919 da parte di Trotzky. L’abolizione del controllo dal basso, l’imposizione della disciplina militare sotto lo sguardo vigile dei commissari politici e addirittura il reintegro di vecchi ufficiali zaristi come “specialisti” furono decisioni accettate turandosi il naso per il bene della Rivoluzione.

Il punto di rottura arriverà soltanto nel 1921, quando la sconfitta dei Bianchi portò diversi nodi al pettine. Le privazioni della guerra civile e ancora di più le violente requisizioni di grano del comunismo di guerra avevano generato un diffuso malcontento nelle campagne russe. Le rivolte contadine erano all’ordine del giorno, arrivando a coinvolgere decine di migliaia di insorti, come nel caso della Machnovščina di ispirazione anarchica in Ucraina e della Antonovščina di ispirazione socialista rivoluzionaria a Tambov, che giocò un ruolo importante nel convincere Lenin a varare la NEP. Nelle città, invece, il crollo dei salari a livelli ancora più bassi di quelli del 1913, il razionamento dei viveri ed infine la militarizzazione del lavoro provocarono una ondata di scioperi e manifestazioni di protesta, con una partecipazione particolarmente sentita a Pietrogrado. Impossibile che questo clima non si riflettesse anche tra i marinai ed i soldati di Kronstadt, in massima parte di provenienza contadina ed operaia.

L’espansionismo giapponese durante il periodo Meiji (1868-1912)

Mutsuhito nel 1890.
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Parlando di espansionismo giapponese, si è portati a pensare alla prima parte del periodo Showa (1926-1989) con le campagne militari in Manciuria e in Cina e con la creazione della Sfera di co-prosperità della Grande Asia orientale durante il secondo conflitto mondiale. In realtà la tendenza ad ingrandirsi all’esterno dell’arcipelago nipponico si era già palesata, seppur con motivazioni diverse, già durante il regno dell’imperatore Mutsuhito. Di lui ho già parlato ampiamente in relazione alla restaurazione del potere imperiale e al conseguente processo di modernizzazione del paese (quiqui), mentre con questo post ci concentreremo sulla sua politica estera.

Il Giappone dell’epoca viveva in uno stato di relativa sudditanza – economica e in parte psicologica – nei confronti delle potenze occidentali, a causa della firma dei cosiddetti “trattati ineguali”. Si trattava di veri e propri contratti capestro che, a fronte di enormi concessioni commerciali alle nazioni europee e agli Stati Uniti, garantivano poco o nulla ai nipponici. Priorità del nuovo governo imperiale divenne presto quella di ottenerne una revisione in termini più paritari e al tempo stesso evitare di essere colonizzati da Francia e Inghilterra, che all’epoca si stavano espandendo in Asia orientale. Se da un lato l’azione di governo puntò ad entrare nel novero delle “nazioni civili” attraverso modernizzazione e industrializzazione, dall’altro puntò ad ottenere il rispetto attraverso l’uso delle armi e di una versione propria della politica delle cannoniere.

Soldati giapponesi e aborigeni taiwanesi nel 1874
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Il primo episodio in tal senso fu la spedizione punitiva a Taiwan del 1874, azione di rappresaglia all’uccisione di una cinquantina di marinai provenienti dal Regno delle Ryūkyū, formalmente stato indipendente ma in realtà tributario del Giappone, da parte di alcuni aborigeni taiwanesi. Il governo giapponese, diede voce al sovrano delle Ryūkyū, chiedendo un risarcimento e la punizione dei responsabili alla Cina, che esercitava la sua giurisdizione sull’isola, ottenendo un secco rifiuto. In risposta a ciò i nipponici inviarono un contingente di tremila uomini a Taiwan. Con la pretesa di punire gli esecutori dell’eccedio, il governo nipponico intendeva procedere all’occupazione della regione. Nonostante il sostanziale fallimento dell’operazione, a causa delle malattie che falciarono il corpo di spedizione e della decisa reazione cinese, questa dimostrò la determinazione giapponese di far valere i propri diritti anche ricorrendo alle armi.

Inoltre l’episodio contribuì a chiarire definitivamente lo status delle Ryūkyū. L’arcipelago, infatti, si trovava da più di due secoli nella scomoda situazione di essere sia tributario del Giappone che della Cina. Con la forza delle lusinghe e la promessa di un titolo nobiliare con relativa rendita annuale, il governo giapponese convinse l’ultimo sovrano delle isole ad abdicare e a trasferire la piena sovranità a Tokyo. L’annessione venne formalizzata nel 1879 e le isole vennero inserite nella neonata prefettura di Okinawa.

Sho Tai, ultimo re delle Ryukyu.
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Ad attirare maggiormente l’attenzione giapponese era però la Corea. Da secoli i coreani stavano attuando una politica isolazionista in tutto e per tutto simile al sakoku dei Tokugawa, mantenendo rapporti solo con la Cina e con il daimyo di Tsushima. Sin dal 1868, anno della restaurazione del potere imperiale, il governo di Tokyo tentò di allacciare relazioni diplomatiche senza intermediazione. Il tentativo si concluse con un fallimento totale, tanto che gli emissari imperiali non vennero nemmeno ricevuti.

Se già nel 1873 Saigo Takamori aveva proposto una spedizione nella penisola, per creare una valvola di sfogo al crescente malumore all’interno della classe dei samurai, bisognerà aspettare tre anni prima di arrivare ad uno scontro diretto. Nel 1876, in occasione di un periodo di grave instabilità politica, dovuto a questioni di successione dinastica, i giapponesi decisero di passare all’azione militare in modo da prevenire qualsiasi tentativo di penetrazione occidentale in Corea. Il modus operandi fu in tutto simile alla diplomazia delle cannoniere europea: l’invio di una nave militare presso l’isola di Gangwha causò la prevedibile reazione dei forti costieri che in breve tempo vennero messi a tacere. Messo con le spalle al muro dalla minaccia di una invasione vera e propria, il governo coreano fu costretto a firmare il Trattato di Amicizia nippo-coreano. Il documento prevedeva, oltre all’apertura di relazioni diplomatiche e commerciali attraverso il porto di Busan, l’extraterritorialità dei cittadini nipponici ed una serie di altre concessioni come la libertà, per i marinai giapponesi, di sorvegliare e mappare le coste della penisola. Il trattato di Gangwha fu a tutti gli effetti un trattato ineguale, il primo stretto da una potenza asiatica ai danni di un’altra: nemmeno un quarto di secolo dopo l’arrivo delle navi nere di Perry, il Giappone aveva già fatto suo il lato peggiore del mondo occidentale.

Lo sbarco dei soldati giapponesi a Gangwha.
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A partire da questo momento le ingerenze di Tokyo negli affari interni coreani diventarono una costante, aprendo la strada ad un confronto diretto con la Cina imperiale, che a sua volta aveva fortissimi interessi nell’area. Si venne così a creare una spaccatura all’interno della società coreana tra i conservatori filo-cinesi ed i progressisti che vedevano nel Giappone un modello da imitare per l’edificazione di una via asiatica alla modernità. Le due fazioni si trovarono ben presto ai ferri corti e furono proprio i progressisti a fare la prima mossa.

Sfruttando il violento scontro franco-cinese per il controllo dell’Annam (l’odierno Vietnam centrale) nel corso del 1884, un gruppo di progressisti organizzò un colpo di stato ai danni degli avversari. Con l’appoggio del governo giapponese, presero in custodia il sovrano coreano e diedero il via ad una epurazione degli avversari. L’intervento della guarnigione cinese di Seul, forte di un migliaio di uomini, costrinse i congiurati a fuggire in Giappone nell’arco di un paio di giorni. Non solo Tokyo rifiutò di consegnare i fuggitivi alle autorità coreane, ma con l’invio di sette navi da guerra riuscì a strappare la firma di un nuovo trattato ineguale nel 1885. Nello stesso anno, infine, Cina e Giappone firmarono la Convenzione di Tientsin che sanciva il ritiro immediato delle truppe dei due paesi dalla Corea, oltre al divieto di invio di forze militari senza avvisare preventivamente l’altra potenza. Di fatto la convenzione stabilì la nascita di una sorta di co-protettorato sino-giapponese sulla penisola, senza tuttavia costituire un deterrente efficace contro nuove escalation.

I rapporti tra i due paesi rimasero estremamente tesi, anche a causa di continue provocazioni reciproche, e deflagrarono in modo definitivo nel 1894, in occasione della cosiddetta Rivolta Donghak. Le politiche oppressive di un governatore locale causarono una violenta rivolta contadina, in special modo tra coloro che avevano abbracciato la dottrina Donghak, un curioso sincretismo tra sciamanesimo coreano e insegnamenti neo-confuciani, che propugnava la lotta per la democrazia e i diritti umani basilari.

Gojong di Corea.
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Il governo coreano, terrorizzato dalla prospettiva del dilagarsi incontrollato della rivolta, chiese aiuto al governo cinese, che inviò un corpo di spedizione. Il Giappone accusò la Cina di aver violato la Convenzione di Tientsin, in quanto non informato dell’invio di truppe da parte del Celeste Impero, ed inviò a sua volta un esercito in Corea. Le truppe nipponiche, anziché contrastare i ribelli, puntarono direttamente su Seul dove presero in ostaggio re Gojong e rimpiazzarono il governo esistente con un altro composto interamente da elementi filo-giapponesi. Il nuovo governo conferì al Giappone il diritto di espellere le forze cinesi dal paese.