Le letture del mese – Luglio ’19

Miyamoto Musashi è senza dubbio una delle figure più interessanti e influenti dell’intera storia nipponica. Leonardo Vittorio Arena, nel suo ottimo “Samurai” gli dedica un capitolo intitolato “Musashi, il superuomo” ed effettivamente è difficile non scorgere in lui alcuni tratti in comune con l’archetipo dell’Oltreuomo nietzscheano. Dotato di una autodisciplina sovrumana e di una mente acutissima, Musashi raggiunse la vetta della Via della Spada, là dove nessun altro sarebbe più giunto dopo di lui: con la pax Tokugawa, infatti, l’uso delle armi da necessità bellica si trasformò a strumento di autodisciplina e meditazione.

WILLIAM SCOTT WILSON – IL SAMURAI SOLITARIO

Ho sempre avuto un rapporto ambivalente con Edizioni Mediterranee. Se da un lato il catalogo dell’editore è saturo di fuffa antiscientifica in salsa new age, dall’altro è innegabile che la collana dedicata alle arti marziali e al pensiero orientale sia una delle più complete e meglio curate all’interno del panorama editoriale italiano. “Il Samurai Solitario”, scritto da William Scott Wilson, una vera autorità per quanto riguarda il Giappone feudale e l’universo dei samurai, non fa eccezione.

Pubblicato per la prima volta nel 2004, “Il Samurai Solitario si pone un obiettivo ambizioso, ossia raccontare la vita di Miyamoto Musashi cercando di separare il più possibile la realtà storica dai vari strati di leggenda che si sono sedimentati nel corso dei secoli. L’impresa è tutt’altro che semplice, considerato che non ci sono certezze sulla data e nemmeno sul luogo di nascita del più grande spadaccino dell’intero Giappone. Wilson, tuttavia, non è quel genere di persona che si scoraggia facilmente e si è messo all’opera utilizzando il metodo più faticoso, ma anche il più posato: la rigorosa analisi delle fonti originali giapponesi.

Come spiegato nella prefazione, le fonti giapponesi sono numerosissime, anche se quasi nessuna è coeva. Come se ciò non bastasse, molto spesso i vari testi sono in contraddizione tra loro, presentando lo stesso evento in luoghi e date completamente diversi. A confondere ulteriormente le acque, nel corso dei secoli la figura di Musashi ha assunto una aura leggendaria, con la nascita di una vera e propria mitologia popolare legata allo spadaccino. Confrontando tra loro i testi, Wilson è riuscito a fornire al lettore “gaijin” per la prima volta un quadro preciso della vita di Musashi.

Chi era, dunque, Miyamoto Musashi? Figlio di samurai, vinse il suo primo duello mortale all’età di tredici anni. A sedici anni, sopravvissuto alla sanguinosa battaglia di Sekigahara, iniziò un vagabondaggio nelle zone remote del Giappone, che lo porterà a disputare sessanta duelli: la tradizione vuole che sia sempre uscito vincitore da ogni tenzone, ma vi è il forte sospetto che sia stato sconfitto in una occasione da Muso Gonnosuke, maestro di jojutsu. Il duello più famoso, che lo consacra come spadaccino più grande di tutto il Giappone, fu quello con Sasaki Kojiro, maestro di spada del clan Hosokawa. A ventinove anni Musashi raggiunge la vetta del mondo della spada ed è qui che in un certo senso inizia la dimensione tragica della sua esistenza. Dopo anni di sofferenze e sacrifici per accumulare un enorme bagaglio di tecniche e conoscenze, egli non le può più applicare: la sua supremazia è universalmente riconosciuta e nessuno è così stolto da affrontarlo sapendo di andare incontro alla sconfitta e alla morte. Ironico, vero?

Musashi fu indubbiamente un seguace della Via della Spada, ma ridurre la sua figura soltanto a questo non rende onore al suo incredibile talento in ogni altro campo. Uomo dal multiforme ingegno, egli fu anche eccellente scultore, pittore, calligrafo e urbanista. La sua opera letteraria è giunta fino ai nostri giorni sotto forma del “Go rin no sho“, il Libro dei Cinque Anelli – opera che vi consiglio caldamente di leggere, magari accoppiata ad “L’Arte della Guerra” di Sun Tzu – e del Dokkodo, una breve raccolta di massime scritte poco prima della sua morte. Il libro di Wilson esplora a 360 gradi ognuno di questi aspetti, offrendo spunti illuminanti sulla filosofia Zen, specialmente sulla scuola Nichiren a cui afferiva Musashi.  Si può dire che egli anticipò il modello del samurai del periodo Tokugawa: versato tanto nell’arte della spada, quanto nelle arti.

Wilson non si limita soltanto a questo: nelle pagine finali dedica ampio spazio all’impatto che Musashi ha avuto sulla cultura giapponese, soprattutto in tempi relativamente recenti, quando la sua vita è diventata il canovaccio di una serie infinita di media diversi. In un certo senso egli è divenuto immortale, continuando a vivere nella propria leggenda.

Ho acquistato il libro a scatola chiusa, appena uscito dalla tipografia, perchè ne ho sentito il richiamo dallo scaffale della Feltrinelli. Non me ne sono pentito, anzi, mi sono trovato di fronte ad un’opera illuminante che mi ha permesso di vedere uno dei miei personaggi preferiti sotto una luce completamente nuova. Forse si tratta di una lettura iper specialistica, ma se siete interessati al mondo della spada giapponese, al Sengoku Jidai e al Giappone feudale potrebbe piacervi. Mi permetto solo una piccola parentesi linguistica. Musashi non fu un samurai, se non nell’ultima parte della sua vita, quando entrò al servizio degli Hosokawa. Samurai, infatti, deriva da “saburau“, termine che indica il servizio prestato da un attendente ad un aristocratico. Musashi fu sicuramente un bushi, un guerriero, ma finchè brandì la spada non servì nessuno al di fuori della Via. Il termine più adatto è indubbiamente “shugyosha“, che indicava tutti quei guerrieri erranti che per scelta vagavano per il Giappone con l’intento di temprare il loro corpo ed il loro spirito attraverso privazioni di ogni genere, rischiando costantemente la morte o la mutilazione in duello.

 

EIJI YOSHIKAWA – MUSASHI

Pubblicato a puntate sul Asahi Shimbun, il più prestigioso quotidiano nipponico, tra il 1935 ed il 1939, “Musashi” di Eiji Yoshikawa ha lasciato una impronta indelebile nella cultura giapponese, tanto da essere ancora viva ad ottanta anni di distanza. In questo lasso di tempo, infatti, sono stati innumerevoli gli adattamenti – dal lungometraggio cinematografico al fumetto, passando per le serie tv – basati sul romanzo, tanto da renderlo una pietra miliare della letteratura nipponica.

Scordate lo stile ampolloso e ricco di termini arcaici di Mishima, così come la ricca introspezione psicologica e quell’aura onirico-surreale che caratterizza di lavori di Murakami: “Musashi” è un romanzo, anzi il romanzo popolare per antonomasia. Ciò non significa che sia un’opera banale o sciatta, tutt’altro: il lavoro di Yoshikawa è, come cercherò di spiegare, di altissimo livello sotto ogni punto di vista ed offre molteplici spunti per comprendere il Giappone del primissimo periodo Edo, in cui si svolgono gli eventi narrati, ma in una certa misura anche la mentalità del periodo Showa, quella in cui l’autore scrive.

Il romanzo si apre al termine della battaglia di Sekigahara, nell’ottobre del 1600, in cui le forze di Tokugawa Ieyasu inflissero una decisiva sconfitta al clan Toyotomi e ai loro alleati. Da qui il racconto segue per i dodici anni successivi le vicende del giovane Takezo, colui che diventerà successivamente Miyamoto Musashi, fino a giungere al celeberrimo scontro con Sasaki Kojiro, detto Ganryu, sull’isola di Funashima.

Mescolando sapientemente realtà storica e finziona letteraria, Yoshikawa riesce a costruire una cornice convincente. Sullo sfondo di un paese alle prese con cambiamenti epocali, le vicende dei vari personaggi danno vita ad una serie di sottotrame che, intrecciandosi, formano una trama solida e avvincente. Oltre all’azione e a scontri serratissimi, l’autore lascia spazio anche al sentimentalismo, con una storia d’amore di una delicatezza squisitamente giapponese che, quasi con pudore, resta in secondo piano per tutta la narrazione. Nell’ultimo segmento dell’opera, poi, compare anche un intrigo che, pur nella sua semplicità, risulta comunque ben congegnato e plausibile. Personalmente l’ho trovato un espediente letterario molto interessante.

Yoshikawa usa una narrazione molto veloce, con eventi che si susseguono a ritmo serrato, anche grazie a repentini colpi di scena che rimescolano all’improvviso le carte in tavola. Alcuni sono realizzati molto bene, altri sono un po’ più scontati, ma in entrambi i casi svolgono egregiamente il loro compito. Una volta iniziato a leggere sarà molto difficile limitarsi ad un singolo capitolo per volta: in viaggio mi è capitato di leggere anche un centinaio di pagine di fila senza che me ne accorgessi.

Particolare rilievo è posto nella psicologia dei personaggi. Pur mantenendo inalterate alcune caratteristiche, questi reagiscono alle situazioni e alle passioni in modo dinamico, compiendo evoluzioni che li renderanno radicalmente diversi dagli individui che erano all’inizio del romanzo. Il giovane Takezo, poi Musashi, è l’esempio perfetto di come un personaggio dovrebbe evolvere all’interno di un racconto. Ogni accadimento, ogni incontro, ogni situazione di pericolo è l’occasione per apprendere qualcosa di nuovo che opportunamente metabolizzato si trasformerà in un ulteriore passo lungo la Via.

In questo senso i dialoghi rivestono un ruolo di enorme importanza, non solo ai fini della narrazione. Gli scambi di battute, infatti, diventano un espediente per condurre il lettore all’interno del mondo del bushido e dello Zen e immagino sia impossibile terminare la lettura senza voler approfondire questi aspetti tipici della cultura nipponica. Inoltre anch’essi contribuiscono a realizzare e a rendere più coerente la cornice storica all’interno della quale si svolgono gli eventi narrati. Non solo, in alcuni dialoghi è possibile rintracciare la chiara influenza dello Zeitgeist del primo periodo Showa, quello in cui l’autore scrisse il romanzo, specie quando Musashi parla di patria e del ruolo dei militari come fondamento e ossatura della stessa.

In conclusione ritengo che “Musashi” sia un ottimo romanzo storico, oltre ad un viatico per iniziare ad approfondire una vastissima gamma di argomenti. Nonostante la mole che a prima vista può spaventare, sono pur sempre più di ottocento pagine, questa è stata una delle letture più avvincenti che ho fatto negli ultimi mesi. Prendetelo, non ve ne pentirete.

 

SHOTARO ISHINOMORI – MIYAMOTO MUSASHI

Fin troppo spesso il manga ed il fumetto in generale sono visti come media dedicati esclusivamente ad un pubblico di giovanissimi, se non addirittura come un qualcosa di scarso o nullo valore. Nulla di più sbagliato. Senza scomodare Umberto Eco e le sue parole su Corto Maltese, l’iconico personaggio nato dalla matita di Hugo Pratt, è chiaro a qualsiasi appassionato che il fumetto può essere una manifestazione artistica non inferiore ad altre, oltre ad essere un prodotto culturale di tutto rispetto. È il caso di “Miyamoto Musashi” di Shotaro Ishinomori.

Proposto dalla J-Pop all’interno di un più vasto programma di (ri)stampa dei grandi classici del fumetto giapponese, “Miyamoto Musashi” dal punto di vista stilistico si discosta enormemente dal manga contemporaneo. Sfogliando il volume, edito in patria nel 1971, si compie un vero e proprio salto indietro nel tempo. Il tratto del disegno appare meno codificato, più essenziale, mentre per quanto riguarda gli sfondi è da notare l’assenza dei retini, sostituiti da un abilissimo utilizzo dei chiaroscuri.

Ispirato al romanzo di Yoshikawa, il manga ne semplifica la trama. Eliminando diversi personaggi secondari, e con essi le relative sottotrame, Ishinomori snellisce il racconto, riuscendo a focalizzarsi sugli eventi salienti della vita di Musashi. Così facendo il mangaka porta il lettore a concentrarsi sulla crescita interiore di Musashi come spadaccino e, soprattutto, come uomo.

Ho apprezzato molto la scelta dell’autore di suddividere la sua opera in cinque “libri”, chiaro riferimento al “Libro dei cinque anelli”, così come l’essersi spinto oltre la trama del libro di Yoshikawa. Il romanzo, infatti, si conclude con il duello contro Sasaki Kojiro sull’isola di Funashima, mentre il manga si spinge a raccontare, in modo comunque piuttosto sintetico, il resto della vita di Musashi. Pare quasi che nel “Libro del Vuoto” il manga diventi l’adattamento dell’ottimo lavoro di Wilson.

Degna di nota e di plauso, infine, la scelta di J-Pop di inserire al termine del volume due brevi contributi di Leonardo Vittorio Arena e di Roberto Recchioni, rispettivamente docente universitario ed esperto di filosofia e storia giapponesi il primo, fumettista e responsabile editoriale il secondo. Si tratta di testi piuttosto brevi ed essenziali, tuttavia ritengo possano essere utili a comprendere e a collocare all’interno del proprio contesto la figura del Musashi storico.

Come avrete capito, pur avendo cercato di restare il più possibile obiettivo, sono assolutamente di parte per quanto riguarda questa figura in bilico tra storia e leggenda. Tuttavia, credo sia innegabile che “Miyamoto Musashi” sia un ottimo prodotto, oltre ad essere una lettura piacevole e appassionante che non richiede grandissimo impegno: l’ideale per i mesi più caldi dell’anno.

L’introduzione delle armi da fuoco in Giappone

Ashigaru mentre impugnano dei tanegashima

Analogamente a quanto accaduto in Europa qualche secolo prima, l’introduzione delle moderne armi da fuoco nel Giappone feudale ebbe un impatto epocale sulla conduzione della guerra e sulla stessa storia dell’arcipelago. Nonostante la vicinanza con la Cina, luogo dove nacque la polvere da sparo, e l’intenso scambio culturale e commerciale con essa, le armi da fuoco giunsero nel Sol Levante da molto più lontano, ovvero dalla colonia portoghese di Goa, in India. Ad onor del vero, dal Celeste Impero erano giunti in Giappone i cosiddetti “teppo“, letteralmente “bastoni di ferro”, delle rudimentali armi del tutto simili agli ingombranti archibugi europei del XV secolo, che tuttavia non ebbero mai un grande utilizzo, proprio a causa delle loro dimensioni e della difficoltà nell’utilizzo.

È il 1543 e l’arcipelago giapponese è sconvolto da quasi un secolo dalle violenze del Sengoku Jidai, l’età degli Stati Combattenti: lo shogunato Ashikaga che esercitava il potere sin dal 1336 è in una crisi irreversibile e non riesce più a tenere a bada i vari daimyo, i signori feudali, che iniziano a combattere tra di loro per ottenere la supremazia. Un giorno, una giunca cinese diretta ad Okinawa è costretta ad ormeggiare a Tanegashima, all’estremità settentrionale dell’arcipelago delle Ryukyu, per sfuggire ad una violenta tempesta. A bordo dell’imbarcazione vi è una compagnia di avventurieri portoghesi e tra il loro equipaggiamento fanno bella mostra di sè anche alcuni archibugi. Il signore dell’isola, Tanegashima Tokitaka, intuisce immediatamente le potenzialità di queste nuove armi e, non si sa se con le buone o con le cattive, riesce ad ottenerne alcuni esemplari che invia immediatamente al suo miglior fabbro, con l’intenzione di replicarle per equipaggiare il proprio esercito. Gli armaioli di Tanegashima, però, non riescono a replicare lo scodellino, la parte dell’arma in cui la polvere da sparo entra in contatto con la miccia accesa, generando così lo scoppio che lancia il proiettile fuori dalla canna dell’arma. Il problema verrà risolto soltanto l’anno successivo, quando i portoghesi torneranno sull’isola con un loro armaiolo da mettere al servizio del feudatario.

All’epoca l’isola di Tanegashima era un feudo vassallo del clan Shimazu, che dal castello di Hyuga controllava la parte meridionale del Kyushu, la più meridionale delle grandi isole che compongono l’arcipelago giapponese. Fu in virtù di questo legame di vassallaggio che gli Shimazu furono il primo grande clan ad entrare in possesso dei Tanegashima-teppo, gli archibugi di derivazione portoghese, e ad utilizzarli nel corso del vittorioso assedio del castello di Kijiki, nel 1549. Pur trattandosi di uno scontro piuttosto marginale, fu il primo impiego documentato di armi da fuoco moderne in Giappone. In breve tempo anche gli altri signori feudali iniziarono ad interessarsi a questo nuovo tipo di armamento e tra coloro che compresero fin da subito le potenzialità dell’archibugio vi fu il giovane Oda Nobunaga, che già nel 1550 impressionò i propri rivali facendo sfilare ben 500 archibugieri in formazione.

Ashigaru in posizione dietro a degli scudi di legno

Ben presto la corsa alle armi da fuoco assunse proporzioni colossali, tanto che nei 10 anni successivi vennero prodotti qualcosa come 300.000 archibugi. Gli armaioli nipponici, inoltre, riuscirono a migliorare ulteriormente il modello portoghese, sia attraverso la realizzazione di calibri più grandi e con maggior potere di penetrazione, sia con l’introduzione di una custodia laccata in grado di proteggere il meccanismo di sparo dall’acqua, rendendo di fatto possibile l’uso delle armi da fuoco anche sotto la pioggia. L’afflusso di un così massiccio numero di archibugi si riflesse inevitabilmente sui campi di battaglia. Fino a quel momento, infatti, il peso principale degli scontri era sostenuto dalla casta militare dei samurai che affrontandosi in una serie di duelli singoli determinava l’andamento della battaglia. A rimpolpare le fila degli eserciti vi era poi una massa informe di contadini coscritti, gli ashigaru, truppe armate alla leggera, poco addestrate, molto poco fedeli e che di fatto sopravvivevano grazie al saccheggio sistematico dei territori che attraversavano. Nell’ultimo periodo, inoltre, la cavalleria ebbe un ruolo crescente, soprattutto grazie alle innovazioni apportare dal clan Takeda, fino al punto di diventare padrona del campo di battaglia. L’arrivo dei Tanegashima-teppo rivoluzionò tutto questo. Pur essendo notevolmente lenti da caricare – un arciere poteva scoccare 15 dardi nel lasso di tempo necessario ad un archibugiere per ricaricare dopo aver sparato – erano estremamente facili ed intuitivi da utilizzare, tanto da richiedere un addestramento minimo, diventando così l’arma d’elezione della fanteria leggera. Di conseguenza il numero di ashigaru sul campo di battaglia aumentò vertiginosamente, portando alla dilatazione delle forze schierate e alla necessità di elaborare nuove tattiche per gestire le truppe al meglio. Lo stesso addestramento degli ashigaru migliorò notevolmente, trasformandoli da soldati dal morale scarso a formazioni disciplinate in grado di sostenere l’urto della battaglia. L’aumento del ruolo degli archibugieri sul campo di battaglia ebbe l’effetto opposto su quello dei samurai: le maestose armature e le katane dei seguaci del Bushido, la via del guerriero, nulla potevano contro le palle sparate in un mare di fiamme e fumo dalle armi portate dai nanban, i mercanti stranieri. L’unica minaccia per gli ashigaru era costituita dalla cavalleria.

Ritratto di Oda Nobunaga

Ancora nel 1572, sul campo innevato di Mikatagahara, la cavalleria dei Takeda fece scempio degli archibugieri di Tokugawa Ieyasu, travolgendoli con una carica a ranghi serrati mentre questi ricaricavano le loro armi dopo aver sparato una prima salva. Tokugawa, che aveva riposto ogni speranza di vittoria contro un nemico tre volte superiore proprio nei nuovi armamenti, subì una cocente sconfitta e si narra che riuscì a mettersi in salvo con soli cinque uomini. La supremazia della cavalleria sulla fanteria veniva nuovamente confermata con il sangue e nessun uomo sembrava essere in grado di metterla in discussione. Un uomo, certo, ma un demone? Da semplice strumento per impressionare nemici e alleati, i Tanegashima-teppo erano diventati, nelle mani di Oda Nobunaga, uno straordinario mezzo per imporre il proprio potere militare e, conseguentemente, perseguire il Tenka Fubu (letteralmente “una sola insegna militare sotto il cielo”, dove con Tenka si può intendere il Giappone) a scapito degli altri signori feudali. Per ironia della sorte anche i suoi più acerrimi nemici, gli Ikko-ikki, un gruppo eterogeneo di contadini, monaci guerrieri e piccola nobiltà decaduta che si opponeva al potere dei grandi feudatari, arrivando a controllare vaste aree dell’Honshu, si rivelarono estremamente abili nello sfruttare le nuove armi da fuoco. Nel corso del decennale conflitto che vide affrontarsi i due schieramenti, lo stesso Nobunaga fu vittima di quelle armi micidiali che tanto amava. A Nagashima, ad esempio, le raffiche degli Ikko-ikki inflissero enormi perdite all’esercito del clan Oda che, dopo un temporale improvviso, si ritrovò con oltre il 90% degli archibugi resi inservibili dall’acqua: fu per un soffio che la ritirata non si trasformò in una rotta disordinata sotto l’incalzante fuoco nemico.

Raffigurazione della battaglia di Nagashino

Il canto del cigno della cavalleria avvenne due anni dopo, nella piana ai piedi del castello di Nagashino, in una battaglia che vide confrontarsi il clan Takeda, maestri nell’arte della guerra a cavallo, ed il clan Oda. In questa occasione Nobunaga riuscì a schierare il favoloso numero di 3000 archibugi, una concentrazione di fuoco mai vista prima nel Sol Levante. Memore della sconfitta subita dal suo alleato Ieyasu a Mikatagahara, decise di schierare i suoi archibugieri disponendoli su tre file, in modo da garantire un fuoco costante, proteggendoli con un contingente di lancieri e palizzate di legno. Quando i Takeda lanciarono i loro cavalieri all’attacco, confidando in una facile vittoria, il loro impeto venne spezzato da un uragano di fuoco. Quale eresia! Nobili guerrieri macellati da poveri contadini illetterati, inaudito! Fu in tutto e per tutto una versione nipponica della carica francese a Crecy, 229 anni prima: il fiore della nobiltà francese trafitto da una miriade di frecce, i cronisti dell’epoca riferirono che il sole ne fu oscurato, scoccate da cinquemila arcieri gallesi al soldo del re inglese. Sebbene a Nagashino i combattimenti continuarono ad infuriare per ore, era ormai chiaro a tutti che una forza di ashigaru ben addestrata ed equipaggiata poteva dominare il campo di battaglia. Da questo momento in poi molti cavalieri decisero di iniziare a combattere appiedati, come normali samurai, mentre le unità di cavalleria si trasformarono da punte offensive da lanciare contro il fronte nemico per spezzarlo, a unità più leggere, utili ad aggirare i fianchi del nemico e a rastrellare gli avversari in fuga.

Le armi da fuoco giocarono un ruolo importante anche nell’epica battaglia di Sekigahara, del 21 ottobre 1600. Si trattò di uno scontro immane, che vide impegnati sul campo circa duecentomila uomini, una enormità per il Giappone dell’epoca, appartenenti a pressocché tutti i clan principali e a moltissimi clan minori. Si trattò dell’ultimo grande scontro del Sengoku Jidai e consacrò la vittoria di Tokugawa Ieyasu, il vecchio alleato di Oda Nobunaga, che diede vita allo shogunato Tokugawa che resse il paese fino alla Restaurazione Meiji del 1869.