Letture: Jan Brokken – I Giusti

jan_brokken-i_giustiEsistono situazioni in cui l’acritica obbedienza si tramuta in muta complicità e quindi in peccato, mentre la disobbedienza diventa fonte di salvezza per se stessi e per gli altri. Una circostanza di questo tipo è stata vissuta praticamente in tutta Europa nel corso degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso. La macchina di sterminio nazista, infatti, potè lavorare con spaventosa efficienza grazie al lavoro di una moltitudine di ingranaggi deferenti e non per il fanatismo di pochi esaltati. Allo stesso modo migliaia di individui furono salvati grazie al coraggio di chi, incapace di zittire la voce della propria coscienza, decise di disobbedire o, al limite, di aggirare norme e codicilli mettendo in gioco la propria vita. Il libro di oggi, l’ultimo di questo 2022 piuttosto turbolento, racconta le gesta di due di loro: Jan Zwartendijk e Chiune Sugihara.

Jan Brokken (1949), giornalista e scrittore olandese, è una vecchia conoscenza per i lettori di questo blog: in passato ho infatti recensito i suoi Anime Baltiche (qui ancora nel vecchio e confusionario formato collettivo) e Bagliori A San Pietroburgo. Non è nemmeno la sua ultima fatica, perchè nel lasso di tempo intercorso tra l’uscita del volume e la sua lettura da parte mia, l’autore ha sfornato un altro libro, L’Anima Delle Città, volume che conto di recuperare quanto prima.

La nostra storia si svolge nel 1940. L’Europa è sprofondata da qualche mese nell’incubo della Seconda Guerra Mondiale, la Polonia è stata invasa e spartita tra Germania e Unione Sovietica, mentre l’Armata Rossa sta per prendere il controllo dei tre Paesi baltici in ossequio alle clausole segrete del patto Molotov-Ribbentrop. A Kaunas, all’epoca capitale lituana, regna una strana atmosfera fatta di incertezza e di attesa, mentre tra i rifugiati ebrei fuggiti dai territori invasi dai nazisti iniziano a diffondersi sinistre voci.

In questo clima tutt’altro che allegro, Jan Zwartendijk, già responsabile della filiale lituana della Philips, viene nominato console onorario del Regno dei Paesi Bassi. Tra le sue prerogative c’è quella di rilasciare visti ed è così che il nostro protagonista inizia a firmare lasciapassare, dapprima a conoscenti e poi, con l’aggravarsi della situazione, a qualsiasi rifugiato ebreo si presenti alla sua porta. I salvacondotti, però, non sono validi per l’Olanda occupata dai nazisti, bensì per la remota e all’epoca semisconosciuta isola di Curaçao. L’unico modo per raggiungerla è attraversare l’intera Unione Sovietica, approdare in Giappone e da qui imbarcarsi verso l’America. Entra così in gioco il console nipponico Sugihara, il quale continua a firmare visti di transito fino all’ultimo momento prima della sua partenza verso il prossimo incarico diplomatico. Le autorità sovietiche, dati i documenti in uscita e vista la disponibilità delle associazioni ebraiche internazionali di pagare le spese per ogni singolo profugo, in poco tempo danno il benestare. 

Ad oggi risulta difficile stabilire con certezza in quanti si siano salvati da morte quasi certa —la comunità ebraica di Kaunas venne spazzata via nel 1941 — grazie all’intervento dei due diplomatici, ma siamo nell’ordine di svariate migliaia. Nonostante ciò, al termine del conflitto i nostri protagonisti andarono incontro alle conseguenze delle loro azioni: Zwartendijk, che era solo console onorario, subì una dura lavata di capo anni dopo gli eventi, mentre Sugihara venne definitivamente allontanato dal servizio diplomatico nipponico. La loro colpa, secondo i rispettivi governi, fu quella di aver aggirato le regole, prendendosi troppe libertà nel rilascio dei lasciapassare. Poco male, nessuno dei due provò il minimo pentimento per quanto fatto.

Brokken, con la sua narrazione in grado di conquistare il lettore, racconta questa storia incredibile seguendo il sottile filo rosso che da Rotterdam, città di origine del nostro protagonista, conduce fino al Giappone e da qui a Shanghai: è nella metropoli cinese, infatti, che le autorità nipponiche spostarono i rifugiati ebrei rimasti bloccati a Kobe dopo l’entrata in guerra del Sol Levante. Qui vennero trattati relativamente bene e sicuramente meglio rispetto ai cittadini britannici —a tal proposito consiglio la lettura de L’Impero Del Sole di Ballard — o americani arrestati a partire dal dicembre 1941. I Giusti è un volume tanto coinvolgente quanto impegnativo sul piano emotivo ed è senza ombra di dubbio uno dei lavori migliori dell’autore olandese.

 

Letture: Murakami Haruki – Underground

murakami-undergroundQuando a suo tempo ho recensito Abbandonare Un Gatto, avevo parlato di un Murakami inedito e per certi versi posso dire lo stesso di Underground. Se nel primo volume l’autore si apriva al lettore mettendo a nudo il suo lato più intimo e personale, nel libro in oggetto abbandona la finzione onirica per affrontare di petto un incubo, questa volta terribilmente reale: l’attentato alla metropolitana di Tokyo.

Il mattino del 20 marzo 1995, alcuni seguaci della setta Aum Shinrikyō rilasciarono del sarin, un agente nervino piuttosto potente,  all’interno di diversi convogli della metropolitana. Diffondendosi all’interno delle stazioni gremite di pendolari, il gas uccise tredici persone e ne intossicò oltre seimila, molte delle quali hanno continuato ad avere gravi problemi di salute anche negli anni successivi. L’evento provocò un vero e proprio shock nell’opinione pubblica giapponese, già scossa dalla devastazione provocata dal terremoto di Kobe (17 gennaio dello stesso anno), non solo perchè si trattò del più grave episodio di violenza a partire dal 1945, ma anche perchè la risposta delle autorità e dei servizi di emergenza si dimostrò tardiva e del tutto inefficace.

Underground nasce quasi per caso, dopo che l’autore si è ritrovato tra le mani una rivista contenente la lettera scritta dalla moglie di un uomo che, a causa delle conseguenze dell’intossicazione da sarin, aveva perso il lavoro. Niente più che uno sfogo, ma sufficiente a turbare Murakami: quello descritto dalla donna era un caso isolato oppure no? E in generale cosa provavano le vittime? Covavano un desiderio di vendetta o preferivano dimenticare per tornare il prima possibile ad avere una vita normale? Per rispondere a queste domande, nel corso di tutto il 1996 l’autore ha incontrato ed intervistato vittime e parenti dei defunti. Impresa tutt’altro che facile, sia per il timore di possibile ritorsioni da parte degli adepti di Aum, sia per una certa ritrosia nel rinvangare gli eventi dolorosi che fa parte della cultura nipponica, oltre alle pressioni da parte dei datori di lavoro e delle famiglie: non deve quindi sorprendere se l’autore è dovuto ricorrere in più di una occasione a nomi di fantasia per tutelare gli intervistati.

Ne risulta un quadro incredibilmente sfaccettato —non potrebbe essere diversamente visto che si tratta di un affresco corale —capace di mostrare aspetti “profondi” della cultura e della società giapponese: il senso del dovere e del sacrificio dei dipendenti della metropolitana e una cultura del lavoro a dir poco tossica, con buona parte degli intervistati che si sono recati a lavoro nonostante evidenti sintomi di intossicazione.

Nella seconda parte del volume, in origine pubblicata nel 1997 sulle pagine della rivista Bungei Shunjū, Murakami si è proposto di indagare sulla natura del culto Aum, andando ad intervistare (ex) adepti dello stesso. Incalzando gli intervistati e mettendone in rilievo le contraddizioni, l’autore traccia un ritratto inclemente della setta. Un ambiente tossico, in cui manipolazione e abusi fisici e psicologici erano all’ordine del giorno al fine di piegare la volontà dei seguaci e uniformarla ai desideri del leader Shoko Asahara. Altrettanto impietoso, però, è anche il giudizio della società giapponese, del suo rigido inquadramento e della sua incapacità di gestire e tutelare tutti coloro che abbandonano, spesso a causa dell’eccessiva pressione sociale, la “retta via”. Persone che spesso finiscono per trovare conforto proprio nel mondo delle sette.

Underground non è una lettura semplice, anche perchè si tratta di un libro abbastanza voluminoso — cinquecento pagine circa — che ruota interamente intorno ad un singolo fatto. Rileggere più e più volte lo svolgimento di certe dinamiche, seppur attraverso punti di vista differenti, è stato abbastanza pesante. Al tempo stesso, però, ho apprezzato la capacità dell’autore di suscitare svariati interrogativi nella mia mente di lettore: cosa avrei fatto se mi fossi trovato lì in quel momento? Cosa potrebbe succedermi se cascassi nella tela di una setta come Aum? Consiglio il libro ai completisti di Murakami e a chi è interessato a saperne di più sull’attentato del 1995.

Letture: Masaharu Anesaki – La Vita Religiosa Del Popolo Giapponese

masaharu_anesaki-la_vita_religiosa_del_popolo_giapponeseIl Giappone è un paese incredibilmente complesso e sfaccettato, segnato da profonde contraddizioni e da sincretismi tanto unici quanto singolari, con esiti talvolta difficilmente comprensibili per noi occidentali. Tale sincretismo si manifesta soprattutto in ambito religioso, dove la coesistenza, non sempre pacifica a dire il vero, tra dottrine diverse nel corso dei secoli ha contribuito a plasmare l’identità giapponese. L’argomento è di per sé alquanto complesso e per essere approfondito richiede una discreta conoscenza delle filosofie e delle religioni orientali. La Vita Religiosa Del Popolo Giapponese riesce a mio avviso nell’arduo compito di fornire una solida base di partenza attraverso un linguaggio semplice e alla portata di tutti.

Masaharu Anesaki (1873-1949) è stato professore di storia delle religioni a Kyoto e ad Harvard, in qualità di professore invitato. Riconosciuto come il padre dello studio delle religioni in Giappone, fu il primo studioso ad applicare il metodo storico-comparativo alla disciplina. Il libro in questione, mettendo a confronto shintoismo, confucianesimo, buddhismo e cristianesimo, ripercorrendone la diffusione e lo sviluppo nel corso del tempo, rappresenta un ottimo esempio di tale metodologia.

Nel XIII secolo il Principe Shotoku paragonò i differenti sistemi religioso-morali all’epoca coesistenti in Giappone ad un albero: lo shinto rappresentava le radici, gli insegnamenti di Confucio il tronco ed i rami, mentre il buddhismo i fiori ed i frutti. L’autore affronta ognuno dei temi in questo ordine, aggiungendo un capitolo dedicato al cristianesimo, che sarebbe giunto nell’arcipelago solamente diversi secoli dopo la morte del nobile.

Lo shinto è la religione indigena del Giappone e mantiene ancora oggi dei tratti inequivocabilmente animisti. Nella concezione shintoista del mondo, gli spiriti divini o kami albergano all’interno di ogni oggetto, dai fiumi alle montagne, e di ogni essere vivente. È anche grazie a questo che il folklore nipponico è popolato da un fitto sottobosco di yōkai, spiriti ed apparizioni dall’aspetto e dagli attributi più disparati. Nel corso della Restaurazione Meiji divenne inoltre uno dei puntelli ideologici su cui si legittimava il potere dell’Imperatore.

Giunto dalla Cina a partire dal VII secolo, il confucianesimo contribuì a plasmare la condotta morale della popolazione nipponica, in particolar modo per quanto riguarda l’importanza della pietà filiale nei confronti dei genitori. Sul rapporto tra genitori e figli si basava, poi, quello tra Imperatore e sudditi. Non deve quindi stupire se il Rescritto sull’Educazione del 1890 si basa in massima parte su concetti di origine confuciana.

Originario dell’India e giunto nella terra del Sol Levante attraverso la Cina, al buddhismo è dedicato lo spazio più ampio all’interno del volume e non soltanto perchè Masaharu Anesaki fu seguace della setta Nichiren. In terra nipponica gli insegnamenti di Siddharta Gautama trovarono terreno fertile, evolvendosi in modo autonomo e dando vita ad esiti originali incarnati nella miriade di correnti, come la già citata Nichiren, la Terra Pura o lo Zen, che contraddistinguono e rendono unico il buddhismo giapponese. Particolarmente importante fu il suo impatto sul mondo della cultura, dell’arte e dell’estetica, basti pensare a come la cerimonia del tè o l’ikebana siano manifestazioni dei principi Zen.

Il Cristianesimo è dal punto di vista cronologico l’ultima religione ad essere approdata in Giappone, almeno per quanto riguarda quelle più praticate. Diffusasi a partire dal XVI secolo, bandita e ferocemente repressa durante lo shogunato Tokugawa ed infine nuovamente permessa a partire dal periodo Meiji — a queste vicende ho dedicato un articolo — la fede in Cristo è riuscita a lasciare una certa impronta nella società nipponica, nonostante il numero relativamente esiguo dei credenti.

Il volume ha un unico, grande difetto, ovvero la sua età. Scritto in origine nel 1936, rivisto nel 1938 ed aggiornato nel 1961 da Hideo Kishimoto, genero ed allievo dell’autore, il libro non copre gli sviluppi degli ultimi decenni con la diffusione dei cosiddetti “nuovi movimenti religiosi”. Queste forme di religiosità si basano su nuovi approcci alla fede e alla spiritualità e in terra nipponica sono rimaste indissolubilmente legate alla cronaca nera. La setta Aum Shinrikyō fu infatti responsabile di un tragico attentato nel 1995: il rilascio di un gas nervino all’interno di una stazione della metropolitana di Tokyo uccise tredici persone e ne intossicò diverse migliaia.

Masaharu Anesaki riesce comunque nell’impresa di tracciare i principi cardine di ognuna di queste religioni — uso questo termine in senso lato, ben conscio del fatto che tanto il buddhismo quanto il confucianesimo siano più sistemi filosofici che religioni in senso stretto — e lo fa con uno stile asciutto ed un lessico incredibilmente semplice, accessibile a chiunque. A mio avviso La Vita Religiosa Del Popolo Giapponese è un lavoro prezioso, al netto dei suoi limiti, utile a chiunque voglia iniziare ad approfondire l’argomento attraverso un volume di facile lettura.

Letture: Pietro Regazzoni – Quando Passa Il Treno

pietro_regazzoni_quando_passa_il_trenoIn quanto a letture sono una persona piuttosto semplice e lineare: vado in libreria, vedo un resoconto di viaggio sull’Asia Centrale o sull’Estremo Oriente, lo compro di getto e lo divoro alla prima occasione utile. Questa successione di eventi si è puntualmente verificata sia quando ho incrociato una copia di Sovietistan (che ho recensito qui) alla Feltrinelli di Firenze, sia quando dal mio libraio di fiducia — scusami se ti ho tradito con una grande catena, ma sono un lettore di facili costumi — mi sono imbattuto in Quando Passa Il Treno.

Il lecchese Pietro Regazzoni, laureato in Economia e ricercatore a Milano e Bruxelles, è un classe 1997 e questo lo rende, sempre che la memoria non mi inganni, l’autore più giovane che recensisco. Nel 2019, prima che il Covid rendesse utopico viaggiare, il Nostro ha affrontato in solitaria l’impegnativo tragitto tra Mosca e Pechino attraverso la Transiberiana e la Transmongolica, tratta ferroviaria che da Ulan-Ude, capitale della Buriazia, uno dei soggetti federali della Federazione Russa, si snoda tra le immensità della steppa mongola e del Gobi fino a raggiungere la capitale cinese. Un viaggio lungo migliaia di chilometri suddiviso in diverse tappe, da Ekaterinburg, città in cui venne fucilato Nicola II insieme alla sua famiglia, a Xi’an, località divenuta celebre in tutto il mondo dopo il ritrovamento dell’armata di terracotta. A dominare su tutto è però la Mongolia, terra in cui l’autore ha potuto vivere a stretto contatto con la popolazione locale, osservando da vicino la vita dei pastori nomadi.

Quando Passa Il Treno è un volume agile, che gode di uno stile di scrittura fresco e leggero, una lettura ideale per rigenerarsi dopo una lunga e sfiancante giornata di lavoro. Un testo scevro da intellettualismi, in cui le nozioni sono ridotte all’osso ed inserite solo dove sono realmente necessarie. A dominare le pagine sono le riflessioni dell’autore e gli incontri casuali lungo la strada, che anche un contatto fugace in treno o in ostello può lasciare una traccia profonda. Il risultato è un racconto di viaggio estremamente personale, che si lascia leggere con disarmante facilità, corredato da diverse foto dell’autore stesso. Consigliatissimo.

Letture: Erika Fatland – Sovietistan

Erika_Fatland-SovietistanL’Asia Centrale, terra misteriosa che nel corso dell’Ottocento fu oggetto di accesa disputa tra corona britannica e Russia zarista, in quello che Rudyard Kipling ribattezzò Grande Gioco, è la mia croce e delizia. Da anni vado avanti progettando ipotetici viaggi nell’area, avventure che rimangono sulla carta vuoi per mancanza di denaro, vuoi di tempo, vuoi per le restrizioni dovute ad una pandemia che negli ultimi due anni ha sconvolto le nostre esistenze. Nulla però mi vieta di fantasticare leggendo i resoconti di viaggio altrui ed il libro di questo mese di spunti me ne ha dati forse anche troppi.

Erika Fatland (1983) ha una formazione come antropologa sociale ed il suo background formativo è ben evidente anche nei suoi libri. Sovietistan, che come suggerisce il titolo è un reportage incentrato sulle cinque repubbliche nate nel 1991 dalle macerie dell’edificio sovietico, è il suo primo libro ad essere stato tradotto in italiano nel 2017 ed è stato seguito nel 2019 da La Frontiera, un viaggio attraverso i paesi confinanti con la Federazione Russa, e nel 2021 da La Vita In Alto, una avventura attraverso l’Himalaya.

Paesi relativamente giovani, i cinque “stan” — Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan e Tagikistan — sono anche terre di profonde contraddizioni, rese ancora più stridenti dalla ricerca di una propria identità. Il comune passato sovietico ha lasciato in eredità frontiere tracciate arbitrariamente senza tenere in conto la geografia umana ed un mosaico etnografico derivato dai trasferimenti di massa di epoca staliniana: ne derivano confini impossibilmente complicati come nella Valle di Fergana e tensioni etniche latenti che spesso liberano fiammate di violenza indiscriminata come nel 2010 a Osh, in Kirghizistan.

Le oltre cinquecento pagine di Sovietistan sono una sorta di pendolo in continua oscillazione tra estremi. Alla ricchezza del sottosuolo, che si riflette nello sfarzo di capitali come Nursultan o Ashgabat, si contrappone spesso una diffusa povertà. La corruzione endemica e una gestione cleptocratica dell’economia da parte di clan familiari, a volte al potere sin dall’indipendenza, impediscono la redistribuzione delle risorse tra la popolazione, che viene tenuta a bada da un ben oliato sistema repressivo. Monumenti alla follia dell’uomo, come le sabbie tossiche del fu Lago d’Aral o dell’ex poligono nucleare di Semey, città in cui ai tempi dello zar fu confinato nientemeno che Dostoevskij, convivono con paradisi naturali come i picchi innevati del Pamir o i grandi parchi naturali kazaki.

L’autrice, da buona antropologa, dedica ampio spazio ai racconti delle persone che ha incontrato, svelando un mondo in cui modernità e tradizione cercano di convivere. Viaggia nelle più sperdute valli tagike alla ricerca della lingua yaghnobi, derivata dall’antico sogdiano; scova minoranza tedescofone, discendenti dei deportati da Stalin; si confronta con lo sfogo della minoranza russa in Kazakistan, vera e propria spada di Damocle che pende sul capo di un paese che sta lentamente cercando di scrollarsi di dosso l’ingombrante vicino settentrionale; incontra archeologi intenti a studiare il passato sepolto nella sabbia turkmena; raccoglie le preziose testimonianze delle spose kirghize rapite, vittime di una tradizione che non è una tradizione.

Il difetto più grande del volume, comune a tutti i reportage di viaggio, è il suo essere invecchiato abbastanza in fretta. Le parole sono ancorate alla carta stampata e ciò che rimane sulla pagine è una immagine cristallizzata nel tempo. Il mondo, però, è in perpetuo movimento ed insieme ad esso mutano le società e le loro strutture di potere: dal 2014 — anno della prima edizione norvegese — ad oggi, infatti, Nursultan Nazarbayev non è più alla guida del Kazakistan — almeno ufficialmente, poi che tenga le redini del potere da dietro le quinte è un altro discorso — così come Gurbanguly Berdimuhamedow non è più presidente del Turkmenistan, dopo aver ceduto le redini a suo figlio Serdar.

Al netto di questa considerazione, piuttosto scontata a dire il vero, Sovietistan rimane un buon resoconto di viaggio. Con uno stile di scrittura frizzante, che riflette la giovane età dell’autrice, risulta essere una lettura scorrevole e piacevole, ricca di sfaccettature e di informazioni. Se non vi spaventano i testi corposi, se siete in astinenza da viaggio, se siete fissati con la regione in questione, allora questo è il libro che fa per voi.

Letture: Anthony Everitt – Alessandro Magno

anthony_everitt_alessandro_magnoQuello di Alessandro Magno è un nome che, anche ad oltre duemila anni dalla sua morte, non ha bisogno di grandi presentazioni. Il giovane sovrano macedone, protagonista di una delle più grandi imprese belliche nella storia dell’umanità, ha saputo ammaliare generazioni di autori in ogni luogo e in ogni epoca: nel corso dei secoli ciò si è tradotto in una mole incredibile di testi, da le Vite Parallele di Plutarco alla trilogia di romanzi — Aléxandros — di Valerio Massimo Manfredi, fino addirittura agli anime giapponesi.

Personalmente tendo ad essere molto diffidente nei confronti di chi scrive di Storia senza avere una formazione da storico. Il lavoro di Anthony Everitt (1940), tuttavia, rientra nella categoria delle piacevoli eccezioni. L’autore britannico, docente di arti dello spettacolo e arti visive alla Nottingham Trent University e già segretario generale del Consiglio delle Arti della Gran Bretagna, sin dalle prime pagine della prefazione pone il lettore davanti ad un problema: il racconto delle vite e delle gesta dei grandi del passato passa quasi inevitabilmente attraverso il filtro dei valori dello scrivente e dell’epoca in cui egli vive. Everitt, pur non sottraendosi a questo bias, si pone l’ambizioso obiettivo di interpretare e valutare Alessandro secondo i criteri del suo tempo, cercando di comprendere piuttosto che osannare o condannare.

Una biografia su Alessandro Magno non può prescindere dallo spendere qualche parola su suo padre. Filippo II fu infatti l’artefice del successo del figlio, attraverso le riforme militari che portarono alla nascita della falange e all’espansione territoriale che assicurò al regno di Macedonia la supremazia sull’Ellade. L’autore dedica ampio spazio alla figura di Filippo, alla sua abilità sul campo di battaglia e al tavolo delle trattative diplomatiche, ma anche ai complicati rapporti con il figlio e con la moglie Olimpiade. Il risultato è un ritratto vivido e sfaccettato della corte macedone e dei suoi intrighi.

La figura di Alessandro è affrontata allo stesso modo. Analizzando le fonti antiche e confrontandole tra di loro, Everitt prova a mettere a nudo la personalità del sovrano, non esitando a mettere in luce anche quei lati oscuri messi in ombra dal mito: che si tratti della distruzione di Tebe e Persepoli, oppure dell’uccisione del fedele Clito il Nero, l’autore cerca di approfondire, si pone domande e prova a capire le ragioni profonde di questi gesti, che spesso ci appaiono incomprensibili. Alessandro ci viene descritto nella sua dimensione di essere umano, certo forse un po’ speciale visto che si trattava di un re e di un condottiero, con tutte le sue sfaccettature e complessità.

Alessandro Magno è un volume che pur essendo incredibilmente dettagliato e approfondito riesce ad essere agile e accattivante come un romanzo. Un esempio da manuale di divulgazione storica, che credo potrebbe piacere anche a chi ha un rapporto difficile con la Storia. Consigliatissimo.

Letture: Francesco Dei – La Guerra Russo-Giapponese 1904-1905

francesco_dei_guerra_russo_giapponeseLa guerra russo-giapponese appartiene a quella categoria di eventi che, pur risultando fondamentali per aver gettato le premesse degli accadimenti dei decenni successivi, vengono tenuti in poca o nulla considerazione. Primo conflitto moderno tra stati industrializzati, prima vittoria di una potenza asiatica su una nazione europea, la guerra ebbe conseguenze importanti per entrambi i contendenti: in Russia la sconfitta minò alla radice l’autorità di Nicola II, portando ad una prima fallimentare rivoluzione popolare, mentre in Giappone l’atteggiamento dei paesi occidentali durante le trattative di pace contribuì a generare una diffusa sensazione di delusione, se non addirittura di tradimento.

Francesco Dei (1975), laureato in Scienze politiche, appassionato di storia militare e specializzato in storia e cultura dell’Estremo Oriente, della Russia e dell’Europa slava, è una vecchia conoscenza su questo blog. In passato ho recensito il suo Storia Dei Samurai, mentre la sua monumentale opera in due volumi sulla guerra civile russa (La Rivoluzione Sotto Assedio) mi è stata utile per la realizzazione di post come quello sull’insurrezione di Kronstadt. Si tratta insomma di un autore di cui ho potuto apprezzare a più riprese le capacità ed è anche per questo che ho acquistato La Guerra Russo-Giapponese 1904-1905 non appena disponibile in libreria.

Ribattezzata dallo storico John Steinberg world war zero, il conflitto scoppiò per gli interessi contrapposti tra le due potenze in Manciuria e Corea. Sin dal decennio precedente, infatti, Tokyo aveva manifestato un certo interesse verso l’area — ne parlo qui — mentre Mosca aveva iniziato una lenta ma costante penetrazione nella regione, sia attraverso concessioni ferroviarie, come quelle relative alla Ferrovia della Manciuria settentrionale e alla sua diramazione che collegava la località strategica di Port Arthur, sia attraverso attività commerciali lungo il fiume Yalu, ancora oggi confine tra la Repubblica Popolare Cinese e la Corea del Nord. Ogni tentativo di negoziazione naufragò miseramente, dato che da parte russa i giapponesi erano visti come “piccoli uomini gialli” in tutto e per tutto inferiori a loro: un errore di valutazione dalle tragiche conseguenze.

L’autore dedica i capitoli di apertura proprio a sviscerare queste questioni e a presentare al lettore i due schieramenti. Oltre a passare in rassegna gli armamenti, con particolare attenzione a quelli navali, le strutture di comando e le forze impiegate nella guerra, vengono trattati anche i rispettivi piani bellici: se la Russia intendeva, almeno sulla carta, mantenere un contegno difensivo per rallentare l’avanzata nemica e far affluire rinforzi da altre zone del suo immenso territorio per ottenere una schiacciante superiorità numerica, il Giappone sapeva di poter contare su una quantità di risorse limitata puntando quindi sulla velocità e sul dominio dei mari per garantire il rifornimento delle truppe al fronte.

La descrizione delle operazioni militari è incredibilmente dettagliata, in alcuni casi forse addirittura in modo eccessivo, e provvidenziale è la presenza di numerose mappe. In questo modo il lettore non solo è in grado di raccapezzarsi tra nomi esotici, ma anche di collocare i vari fatti d’arma in una dimensione geografica e di comprendere meglio gli effetti delle azioni dei singoli reparti in battaglie che assumono una complessità del tutto nuova rispetto a quelle di qualche decennio prima. 

L’autore si sofferma a lungo anche sulle trattative di pace che si svolsero a Portsmouth nel New Hampshire sotto gli auspici del presidente americano Theodore Roosevelt. Entrambi i contendenti erano allo stremo, con il Giappone padrone del campo ma sull’orlo della bancarotta e con la Russia che, pur godendo della tanto agognata superiorità numerica, era percorsa da un impetuoso vento rivoluzionario. Il trattato di pace, firmato il 5 settembre 1905, fu una vittoria diplomatica della delegazione russa, guidata dall’energico ex ministro delle Finanze Witte, che riuscì a contenere i danni, mentre i nipponici tornarono a Tokyo carichi di una frustrazione simile a quella che dopo la Grande Guerra portò all’idea della “vittoria mutilata” in Italia.

La Guerra Russo-Giapponese 1904-1905 è a mio avviso un’opera completa e ricca di informazioni, frutto di un rigoroso lavoro di ricerca. L’autore si è infatti avvalso di una nutrita bibliografia che spazia da testi accademici più o meno recenti, fino alla memorialista russa e giapponese. Nel complesso ritengo si tratti di un libro godibile, forse un po’ ostico per chi non è abituato ai volumi di storia militare, ma l’abilità narrativa dell’autore riesce a smussarne le asperità. A questo punto non posso che aspettare con trepidazione il suo prossimo lavoro.

Letture: Simon Levi Sullam – I Carnefici Italiani

simon_levi_sullam-i_carnefici_italianiL’Olocausto è senza ombra di dubbio una delle pagine più buie della nostra storia recente. Il sistematico sterminio degli ebrei europei fu certamente ideato e programmato con precisione teutonica dal regime nazista, ma fu reso possibile con una così vasta portata soltanto grazie alla complicità e all’adesione — spesso entusiastica — di ampi strati della popolazione del Vecchio Continente. Gli italiani non furono da meno. Tuttavia, se da un lato ricordiamo figure come Giorgio Perlasca e Carlo Angela, entrambi insigniti del titolo di Giusti tra le nazioni, dall’altro evitiamo attentamente di menzionare il coinvolgimento del regime fascista — e non solo — nella Shoah, in un processo di rimozione del tutto analogo a quello relativo ai crimini di guerra commessi del Regio Esercito.

Simon Levi Sullam (1974) è professore associato di storia contemporanea presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Intento dell’autore in I Carnefici Italiani è quello di mettere a nudo le responsabilità italiane nel genocidio ebraico in Italia. Cosa si intende, però, per responsabilità? Vi è senza dubbio la responsabilità materiale degli esecutori degli arresti, ma gli ebrei non sarebbero stati identificati come tali senza il lavoro degli impiegati comunali nell’anagrafe razzista. Allo stesso modo si possono considerare responsabili tutti gli anelli che trasmisero gli ordini di arresto lungo la catena di comando, tutti coloro che sorvegliarono gli ebrei rastrellati, coloro che guidarono gli autocarri ed i treni fino a Fossoli e da lì ai campi di sterminio, fino ad arrivare alla categoria più disgustosa: quella dei delatori, che spesso e volentieri si appropriavano dei beni dei deportati. Stiamo parlando, quindi, di migliaia di soggetti, pur con diversi gradi di coinvolgimento, implicati nell’Olocausto tra il 1943 ed il 1945.

Vi è poi la questione dell’antisemitismo di Stato e del suo progressivo inasprimento, a partire dalle leggi razziali del 1938 sino alle deliranti posizioni genocide fatte proprie dalle istituzioni e dall’intellighenzia della Repubblica Sociale. Elaborate da “ideologhi” come Giovanni Preziosi, già curatore dell’edizione italiana dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion, queste erano veicolate tanto dalla stampa di regime, quanto da testate nazionali come “La Stampa” o il “Corriere della Sera”, e addirittura implementate nella formazione ideologica dei quadri della Guardia Nazionale Repubblicana, come testimoniato da evidenze archivistiche.

In ciascun capitolo de I Carnefici Italiani, Sullam cerca di sviscerare la questione, ponendo dinanzi al lettore fatti inoppugnabili e ben documentati, tanto da far sorgere spontanea una domanda: come è stato possibile dimenticare tutto ciò? Come ben sappiamo in Italia non si svolse mai un processo analogo a quello tenutosi a Norimberga, ma tutta una serie di procedimenti individuali presieduti da una magistratura che per prima non era stata defascistizzata. La vicenda professionale di Carlo Alliney è paradigmatica: capo di gabinetto all’Ispettorato per la razza e consulente del governo per la legislazione razziale della RSI, nel dopoguerra fu procuratore generale a Palermo concludendo la sua carriera come giudice di Cassazione. Anche nei casi in cui i tribunali emisero un verdetto di colpevolezza, l’amnistia Togliatti cancellò dall’oggi al domani circa diecimila condanne, comprese quelle di gerarchi come Federzoni e Bottai. Mancando una verità processuale, fu relativamente semplice spostare l’attenzione dalla politica antisemita del fascismo verso episodi, opportunamente decontestualizzati ed ingigantiti, in cui le Forze Armate offrirono protezione agli ebrei in Francia e nei Balcani.

Quella di Sullam è un’opera preziosa, che dovrebbe a mio avviso diventare testo scolastico in quinta superiore. Con un linguaggio semplice, unito al rigore metodologico dello storico di mestiere, l’autore contribuisce a minare le fondamenta del mito del “bravo italiano”, smentendo anche quella retorica defeliciana che ha sempre voluto porre il fascismo fuori dalle responsabilità dell’Olocausto: che piaccia o meno, dovremmo iniziare a rivalutare in senso critico il nostro passato e volumi come questo sono come acqua nel deserto.

Letture: Alessandro Barbero – Bella Vita E Guerre Altrui Di Mr. Pyle, Gentiluomo

Alessandro Barbero (1959) è uno di quei personaggi che non hanno bisogno di grandi presentazioni, almeno presso il pubblico italiano. Professore di Storia Medievale presso l’Università del Piemonte Orientale, autore di innumerevoli saggi — sia di taglio divulgativo che più tecnico — e presenza quasi imprescindibile nei programmi storici della RAI, ha avuto anche un discreto successo come romanziere ed è proprio in questa veste che ne parlerò.

Stampato per la prima volta nel “lontano” 1995, Bella Vita E Guerre Altrui Di Mr. Pyle, Gentiluomo è il romanzo di debutto di Barbero ed è valso al suo autore il Premio Strega nel 1996. Scritto sotto forma di diario, il volume è un romanzo storico che racconta il viaggio di Robert L. Pyle attraverso l’Europa, dove egli è stato inviato come diplomatico dal governo statunitense nel 1806. Un periodo di grande fermento questo, con Napoleone apparentemente padrone d’Europa dopo la sfolgorante vittoria di Austerlitz, la Gran Bretagna in una solitaria e ostinata lotta contro la Francia, una Prussia che nasconde la propria debolezza dietro al ricordo del genio militare di Federico il Grande ed un Impero russo imperscrutabile. Compito del nostro protagonista è proprio quello di provare a decifrare il rebus europeo e di informare l’amministrazione americana circa gli sviluppi nel Vecchio Continente.

In una intervista su Parentesi Storiche, Barbero ha affermato che il romanzo storico dovrebbe rimanere appannaggio degli storici più che dei romanzieri. Una uscita che potrebbe apparire autoreferenziale, ma leggendo Bella Vita E Guerre Altrui Di Mr. Pyle, Gentiluomo si riesce a comprenderne meglio il senso. L’opera è infatti una attentissima ricostruzione — confrontate se volete con un qualsiasi saggio sul periodo napoleonico — delle vicende che portarono alla battaglia di Jena, evento che viene per altro minuziosamente descritto in prima persona dallo stesso Mr. Pyle. Di più, al lettore vengono mostrate la vita e la società nella Germania di inizio XIX secolo e, attraverso l’incontro con personaggi realmente esistiti come Fichte, Goethe o von Clausewitz, un intero modo di pensare. Lo stesso protagonista altro non è che la rappresentazione, forse un po’ stereotipata, del gentiluomo dell’epoca. Possono sembrare dettagli di poco conto, ma sono dell’idea che un romanzo storico debba essere ineccepibile sotto questi aspetti.

Dal punto di vista narrativo, tuttavia, emerge qualche criticità. Ammetto di aver letto Bella Vita E Guerre Altrui Di Mr. Pyle, Gentiluomo durante un periodo di intensa attività lavorativa in cui, a causa del poco tempo libero, sono stato costretto a lunghe pause tra una sessione di lettura e l’altra, ma non posso negare di averlo trovato piuttosto lento, se non addirittura farraginoso, in alcuni passaggi. Attenzione, non sto dicendo che si tratti di un brutto romanzo, anzi. Il lavoro di ricostruzione, come già detto, è ottimo, gli scenari appaiono vividi come fotografie, mentre i personaggi sono ben caratterizzati: prova ne è il protagonista che nella sua spocchiosa alterigia borghese riesce a rendersi talvolta insopportabile; la prosa, però, mi pare meno brillante rispetto a saggi come Lepanto oppure La Battaglia, per restare in ambito napoleonico. Pur essendo una lettura tutto sommato gradevole, continuo a preferire il Barbero saggista.

Letture del mese – Giugno ’21 (Giangiorgio Pasqualotto – Taccuino Giapponese)

Il Giappone è senza ombra di dubbio un paese che esercita un enorme fascino su noi occidentali. Le sue usanze, le sue tradizioni ed il suo sistema di valori sono talmente lontani da quelli che sentiamo come nostri da sembrarci quantomeno strani, se non addirittura incomprensibili. A questo va poi aggiunto che in Occidente il più delle volte ne recepiamo una immagine distorta, a volte veicolata dagli stessi prodotti dell’industria culturale nipponica — soprattutto drama, manga e anime — e in altri casi frutto di incomprensioni o eccessive semplificazioni. Non è il caso di questo libro.

 

GIANGIORGIO PASQUALOTTO – TACCUINO GIAPPONESE 

giangiorgio_pasqualotto-taccuino_giapponeseParto col dire che Taccuino Giapponese è un resoconto di viaggio sui generis. Lo è perchè nella quasi totalità dei libri di questo genere il racconto dell’esperienza di viaggio rappresenta il fine stesso del volume, mentre in questo caso è solo un mezzo: la narrazione della trasferta giapponese è infatti un espediente per presentare al lettore il pensiero nipponico, la cui comprensione permette di capire meglio il paese ed i suoi abitanti. Ad accompagnarci in questa avventura è una guida d’eccezione.

Giangiorgio Pasqualotto (1946) il pensiero orientale lo conosce molto bene. Studioso senior presso l’Università di Padova — ateneo in cui ha ricoperto a lungo il ruolo di titolare della cattedra di Estetica — ed ex direttore scientifico della Scuola Superiore di Filosofia orientale e comparativa di Rimini è stato tra coloro che hanno contribuito ad introdurre in Italia la filosofia giapponese contemporanea, in particolare il pensiero di Nishida Kitarō (1870-1945) e della Scuola di Kyoto.

Scordiamoci Tokyo, i grattacieli di Shinjuku e le luci sfavillanti di Shibuya: in Taccuino Giapponese la capitale nipponica viene nominata soltanto di sfuggita, quasi fosse un atto dovuto. Troppa modernità, troppa confusione, troppa commistione con l’Occidente per poter anche solo pensare di riuscire a cogliere l’essenza dello spirito giapponese. Meglio optare per luoghi più tranquilli e anche nelle mete turistiche più affollate, come Nara e Kyoto, Pasqualotto cerca costantemente di sfuggire alla ressa dei visitatori, imboccando sentieri meno battuti che conducono a scuole confuciane, templi buddhisti, santuari shintō, sale da tè e giardini zen.

La scelta di queste mete non è casuale. In ciascuno di questi luoghi, infatti, è possibile cogliere elementi che hanno contribuito a plasmare la cultura giapponese, che è frutto di una originale commistione tra elementi confuciani, buddhisti — il Buddhismo fu introdotto nel paese a partire dal 552 d.C. e qui nel corso dei secoli ha assunto caratteristiche peculiari e uniche — e shintoismo. Pasqualotto sfrutta ogni tappa per sviscerare, con una chiarezza espositiva invidiabile, ciascuno di questi elementi — o quantomeno i principali — e gettare luce su determinate usanze e sulla forma mentis che le hanno generate.

Un ottimo esempio ci è fornito dal ruolo delle pietre all’interno dei giardini giapponesi e delle stesse case attraverso il suiseki, letteralmente il coltivare le pietre. Ciò che per noi è un semplice sasso, in terra nipponica è il frammento della montagna da cui si è staccata, che come tutte le montagne è luogo di residenza dei kami, gli onnipresenti spiriti divini dello shintoismo. In quest’ottica appare chiaro come pietre di particolare forma e bellezza possano essere oggetto di una particolare cura. Lo stesso vale per la cerimonia del tè, la cui complessa ritualità assume tutto un altro aspetto dopo aver scoperto che ogni gesto ha un significato ben preciso nello Zen.

Pur affrontando temi potenzialmente molto complessi ed intricati, specie per chi è totalmente digiuno per quanto riguarda le filosofie orientali, Taccuino Giapponese è una lettura chiara e a mio avviso appagante. Un volume che si distacca da gran parte della narrativa di viaggio e che permette di gettare uno sguardo sul Giappone più autentico e che può costituire una solida base di partenza per approfondire la sua filosofia.