L’espansionismo giapponese durante il periodo Meiji (1868-1912)

Mutsuhito nel 1890.
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Parlando di espansionismo giapponese, si è portati a pensare alla prima parte del periodo Showa (1926-1989) con le campagne militari in Manciuria e in Cina e con la creazione della Sfera di co-prosperità della Grande Asia orientale durante il secondo conflitto mondiale. In realtà la tendenza ad ingrandirsi all’esterno dell’arcipelago nipponico si era già palesata, seppur con motivazioni diverse, già durante il regno dell’imperatore Mutsuhito. Di lui ho già parlato ampiamente in relazione alla restaurazione del potere imperiale e al conseguente processo di modernizzazione del paese (quiqui), mentre con questo post ci concentreremo sulla sua politica estera.

Il Giappone dell’epoca viveva in uno stato di relativa sudditanza – economica e in parte psicologica – nei confronti delle potenze occidentali, a causa della firma dei cosiddetti “trattati ineguali”. Si trattava di veri e propri contratti capestro che, a fronte di enormi concessioni commerciali alle nazioni europee e agli Stati Uniti, garantivano poco o nulla ai nipponici. Priorità del nuovo governo imperiale divenne presto quella di ottenerne una revisione in termini più paritari e al tempo stesso evitare di essere colonizzati da Francia e Inghilterra, che all’epoca si stavano espandendo in Asia orientale. Se da un lato l’azione di governo puntò ad entrare nel novero delle “nazioni civili” attraverso modernizzazione e industrializzazione, dall’altro puntò ad ottenere il rispetto attraverso l’uso delle armi e di una versione propria della politica delle cannoniere.

Soldati giapponesi e aborigeni taiwanesi nel 1874
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Il primo episodio in tal senso fu la spedizione punitiva a Taiwan del 1874, azione di rappresaglia all’uccisione di una cinquantina di marinai provenienti dal Regno delle Ryūkyū, formalmente stato indipendente ma in realtà tributario del Giappone, da parte di alcuni aborigeni taiwanesi. Il governo giapponese, diede voce al sovrano delle Ryūkyū, chiedendo un risarcimento e la punizione dei responsabili alla Cina, che esercitava la sua giurisdizione sull’isola, ottenendo un secco rifiuto. In risposta a ciò i nipponici inviarono un contingente di tremila uomini a Taiwan. Con la pretesa di punire gli esecutori dell’eccedio, il governo nipponico intendeva procedere all’occupazione della regione. Nonostante il sostanziale fallimento dell’operazione, a causa delle malattie che falciarono il corpo di spedizione e della decisa reazione cinese, questa dimostrò la determinazione giapponese di far valere i propri diritti anche ricorrendo alle armi.

Inoltre l’episodio contribuì a chiarire definitivamente lo status delle Ryūkyū. L’arcipelago, infatti, si trovava da più di due secoli nella scomoda situazione di essere sia tributario del Giappone che della Cina. Con la forza delle lusinghe e la promessa di un titolo nobiliare con relativa rendita annuale, il governo giapponese convinse l’ultimo sovrano delle isole ad abdicare e a trasferire la piena sovranità a Tokyo. L’annessione venne formalizzata nel 1879 e le isole vennero inserite nella neonata prefettura di Okinawa.

Sho Tai, ultimo re delle Ryukyu.
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Ad attirare maggiormente l’attenzione giapponese era però la Corea. Da secoli i coreani stavano attuando una politica isolazionista in tutto e per tutto simile al sakoku dei Tokugawa, mantenendo rapporti solo con la Cina e con il daimyo di Tsushima. Sin dal 1868, anno della restaurazione del potere imperiale, il governo di Tokyo tentò di allacciare relazioni diplomatiche senza intermediazione. Il tentativo si concluse con un fallimento totale, tanto che gli emissari imperiali non vennero nemmeno ricevuti.

Se già nel 1873 Saigo Takamori aveva proposto una spedizione nella penisola, per creare una valvola di sfogo al crescente malumore all’interno della classe dei samurai, bisognerà aspettare tre anni prima di arrivare ad uno scontro diretto. Nel 1876, in occasione di un periodo di grave instabilità politica, dovuto a questioni di successione dinastica, i giapponesi decisero di passare all’azione militare in modo da prevenire qualsiasi tentativo di penetrazione occidentale in Corea. Il modus operandi fu in tutto simile alla diplomazia delle cannoniere europea: l’invio di una nave militare presso l’isola di Gangwha causò la prevedibile reazione dei forti costieri che in breve tempo vennero messi a tacere. Messo con le spalle al muro dalla minaccia di una invasione vera e propria, il governo coreano fu costretto a firmare il Trattato di Amicizia nippo-coreano. Il documento prevedeva, oltre all’apertura di relazioni diplomatiche e commerciali attraverso il porto di Busan, l’extraterritorialità dei cittadini nipponici ed una serie di altre concessioni come la libertà, per i marinai giapponesi, di sorvegliare e mappare le coste della penisola. Il trattato di Gangwha fu a tutti gli effetti un trattato ineguale, il primo stretto da una potenza asiatica ai danni di un’altra: nemmeno un quarto di secolo dopo l’arrivo delle navi nere di Perry, il Giappone aveva già fatto suo il lato peggiore del mondo occidentale.

Lo sbarco dei soldati giapponesi a Gangwha.
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A partire da questo momento le ingerenze di Tokyo negli affari interni coreani diventarono una costante, aprendo la strada ad un confronto diretto con la Cina imperiale, che a sua volta aveva fortissimi interessi nell’area. Si venne così a creare una spaccatura all’interno della società coreana tra i conservatori filo-cinesi ed i progressisti che vedevano nel Giappone un modello da imitare per l’edificazione di una via asiatica alla modernità. Le due fazioni si trovarono ben presto ai ferri corti e furono proprio i progressisti a fare la prima mossa.

Sfruttando il violento scontro franco-cinese per il controllo dell’Annam (l’odierno Vietnam centrale) nel corso del 1884, un gruppo di progressisti organizzò un colpo di stato ai danni degli avversari. Con l’appoggio del governo giapponese, presero in custodia il sovrano coreano e diedero il via ad una epurazione degli avversari. L’intervento della guarnigione cinese di Seul, forte di un migliaio di uomini, costrinse i congiurati a fuggire in Giappone nell’arco di un paio di giorni. Non solo Tokyo rifiutò di consegnare i fuggitivi alle autorità coreane, ma con l’invio di sette navi da guerra riuscì a strappare la firma di un nuovo trattato ineguale nel 1885. Nello stesso anno, infine, Cina e Giappone firmarono la Convenzione di Tientsin che sanciva il ritiro immediato delle truppe dei due paesi dalla Corea, oltre al divieto di invio di forze militari senza avvisare preventivamente l’altra potenza. Di fatto la convenzione stabilì la nascita di una sorta di co-protettorato sino-giapponese sulla penisola, senza tuttavia costituire un deterrente efficace contro nuove escalation.

I rapporti tra i due paesi rimasero estremamente tesi, anche a causa di continue provocazioni reciproche, e deflagrarono in modo definitivo nel 1894, in occasione della cosiddetta Rivolta Donghak. Le politiche oppressive di un governatore locale causarono una violenta rivolta contadina, in special modo tra coloro che avevano abbracciato la dottrina Donghak, un curioso sincretismo tra sciamanesimo coreano e insegnamenti neo-confuciani, che propugnava la lotta per la democrazia e i diritti umani basilari.

Gojong di Corea.
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Il governo coreano, terrorizzato dalla prospettiva del dilagarsi incontrollato della rivolta, chiese aiuto al governo cinese, che inviò un corpo di spedizione. Il Giappone accusò la Cina di aver violato la Convenzione di Tientsin, in quanto non informato dell’invio di truppe da parte del Celeste Impero, ed inviò a sua volta un esercito in Corea. Le truppe nipponiche, anziché contrastare i ribelli, puntarono direttamente su Seul dove presero in ostaggio re Gojong e rimpiazzarono il governo esistente con un altro composto interamente da elementi filo-giapponesi. Il nuovo governo conferì al Giappone il diritto di espellere le forze cinesi dal paese.

La restaurazione del potere imperiale e la nascita del Giappone moderno

Meiji in viaggio da Kyoto a Edo (1868)

Sebbene la storiografia nipponica abbia la tendenza a dipingere la Restaurazione Meiji come una fase di transizione pacifica, la realtà appare ben diversa. Innanzitutto causò lo scoppio di una guerra civile, breve ma piuttosto intensa, passata alla storia con il nome di guerra Boshin. Successivamente lo scontento provocato dalla rapidissima modernizzazione della società giapponese, portò a diverse rivolte armate, la più famosa delle quali è sicuramente quella di Satsuma, passata alla storia come il canto del cigno dei samurai.

Nell’ultimo post ci siamo fermati all’irruzione delle forze guidate da Saigo Takamori nel palazzo imperiale di Kyoto, dove, davanti ai dignitari di corte e ad alcuni feudatari, lesse un proclama con cui dichiarò restaurato il potere imperiale. Immediatamente dopo, però, lesse una seconda dichiarazione che, in aperta violazione delle condizioni poste dall’ultimo shogun per la propria abdicazione, annunciava la confisca di tutti i beni della famiglia Tokugawa. Tokugawa Yoshinobu reagì nell’unico modo possibile per un nobile giapponese dell’epoca, ossia chiamò alle armi i propri sostenitori: il paese, che era stato unito e pacificato per oltre due secoli e mezzo, si trovò così diviso tra fazione imperiale, capeggiata dai feudi di Choshu e Satsuma, e fazione shogunale, in cui spiccavano i feudi di Aizu e Sendai.

Samurai di Satsuma durante la guerra Boshin

Le prime scintille si sprigionarono nella capitale Edo, dove vennero appiccati diversi incendi alle fortificazioni esterne del castello, la residenza principale dello shogun. Per ritorsione i lealisti attaccarono un palazzo di proprietà del signore di Satsuma, dove avevano trovato rifugio diversi oppositori: l’edificio venne dato alle fiamme, mentre gli occupanti vennero passati a fil di spada. Il 27 gennaio 1868 le forze dello shogunato si scontrarono con le forze filo imperiali nella battaglia di Toba-Fushimi alla periferia di Kyoto. Lo scontro si protrasse per circa un mese, fino alla conquista da parte delle forze imperiali del castello di Osaka, evento che costrinse le truppe dello shogun, indebolite per altro da diverse defezioni, a ritirarsi ad Edo. La stessa capitale venne espugnata da Saigo Takamori nel maggio dello stesso anno, costringendo le forze lealiste a rifugiarsi nell’estremità settentrionale dell’isola di Honshu. Sconfitti nuovamente sul campo, gli ultimi lealisti fuggirono sull’isola di Ezo, l’odierna Hokkaido, dove proclamarono la repubblica. La battaglia di Hakodate (maggio 1869), tuttavia, si concluse con una vittoria dell’esercito imperiale e sancì la fine dell’unica esperienza repubblicana nella storia dell’arcipelago nipponico e della guerra civile.

Sconfitto lo shogun sul campo di battaglia (più avanti realizzerò un post dove tratterò in dettaglio la guerra Boshin, se vi sarà richiesta), ora occorreva consolidare l’appena restaurato potere imperiale e rassicurare la popolazione. Lo stesso imperatore Meiji era ancora un adolescente, per cui in questa fase molto dipese dalla cerchia dei suoi consiglieri, uomini solitamente giovani, appartenenti ai bassi ranghi della casta dei samurai e animati da una smisurata ambizione personale, oltre che da un forte sentimento nazionalista.

Il giovane Meiji nel 1872

La prima azione del nuovo governo fu l’emanazione, nell’aprile 1868, ancora in piena guerra, del Giuramento dei cinque articoli che prevedeva: la discussione pubblica di tutte le questioni; la partecipazione di tutte le classi all’amministrazione del paese; la libertà di svolgere qualsiasi occupazione si desiderasse; l’abbandono delle cattive abitudini del passato; la ricerca del sapere in tutto il mondo, in modo da rinsaldare le fondamenta del potere imperiale. Oltre ad inaugurare un periodo di mobilità sociale, il Giuramento è interessante perché all’ultimo punto dimostra chiaramente l’intenzione di non considerare più la presenza straniera come una minaccia, bensì come una immensa opportunità per rafforzare il paese. Il motto “sonno-joi“, che aveva animato gli oppositori dello shogunato, venne presto sostituito dal più pragmatico “Wakon Yosai“, letteralmente “spirito giapponese, sapere occidentale”.

Nel luglio dello stesso anno venne promulgata una prima costituzione che, seppur redatta in modo piuttosto frettoloso, prevedeva l’istituzione di un’assemblea nazionale e di un Gran Consiglio di Stato. Al contempo il nuovo governo decise di abbandonare il dualismo Edo-Kyoto e di centralizzare il potere in una sola capitale. La scelta cadde sulla città di Edo, che venne ribattezzata Tokyo, in cui l’imperatore si trasferì l’anno successivo – la data del trasferimento segna l’inizio convenzionale del periodo Meiji – seguito a ruota dal Gran Consiglio.

L’ultimo shogun (1867)

Obiettivo primario del nuovo governo divenne la revisione dei trattati ineguali: il desiderio di trattare alla pari con le potenze occidentali spinse il paese ad una rapida occidentalizzazione e ad una serie di grandi riforme che cambiarono definitivamente il volto del paese. Riprendendo una politica del periodo Nara, il territorio fu nazionalizzato a partire dai vecchi domini dello shogunato, che rappresentavano circa un quarto del Giappone. Nel marzo del 1869, poi, i signori di Choshu e Satsuma rimisero i propri possedimenti nelle mani dell’imperatore, spingendo gli altri daimyo, non senza malumori, a fare altrettanto. In cambio il governo imperiale confermava gli ex signori feudali nel ruolo di governatore e si faceva carico dei debiti e delle spese di mantenimento dei samurai. Nel 1871, infine, il vecchio sistema feudale venne ufficialmente abolito e sostituito con la suddivisione del territorio nazionale in prefetture, sistema che, seppur riformato più volte, è in uso ancora oggi.

Un governo fortemente centralizzato come quello Meiji necessita di adeguate infrastrutture per comunicare rapidamente con ogni angolo del paese. Il telegrafo fece la sua comparsa molto presto, già nel 1869, mentre il servizio postale – piccola curiosità, i postini furono tra i primi dipendenti pubblici a dover indossare abiti di foggia occidentale mentre erano in servizio – venne istituito nel 1871. La prima linea ferroviaria venne inaugurata nel maggio del 1872, tra gli insediamenti stranieri di Yokohama e Shinagawa. L’arrivo del treno causò una vera e propria rivoluzione dei trasporti, riducendo enormemente i costi ed i tempi di spostamento di merci e passeggeri. Lo sviluppo della rete ferroviaria divenne una priorità, tanto da arrivare ad assorbire fino ad un terzo degli investimenti statali: in quindici anni il Giappone costruì ben 1600 km di ferrovie, che divennero 8000 entro la fine del secolo.

L’enorme aumento della spesa pubblica portò alla necessità di riformare l’intero sistema finanziario giapponese, compito che fu assunto dal ministro delle finanze e dal suo assistente Ito Hirobumi, che era stato inviato negli Stati Uniti per studiare il sistema valutario. Venne creata una zecca moderna e con essa un nuovo sistema monetario basato sullo yen ed un moderno sistema bancario. Nel 1873 venne introdotta una nuova tassa fissa sulla proprietà fondiaria, basata sulla stima del valore di un determinato lotto di terreno, che andò a sostituire il vecchio sistema feudale dei tributi variabili in base al raccolto. Se da un lato questo aumentò la produttività, dall’altro incrementò il tasso di locazione fino al 40%, spingendo molti contadini ad ipotecare i campi per poter pagare l’imposta. Come si può facilmente intuire, questo provocò un certo malcontento.

Ritratto di Saigo Takamori

Ulteriore malcontento fu causato dalla graduale eliminazione della classe dei samurai, sicuramente il colpo più grande al vecchio ordine sociale. Come abbiamo visto, il mantenimento dei samurai era diventato di competenza del governo centrale. Sebbene molti di loro lavorassero come amministratori o fossero confluiti nel corpo di polizia e nell’esercito – nel 1873 venne istituita la coscrizione obbligatoria, trasformando di fatto ogni cittadino in un potenziale guerriero – altrettanti rimasero ufficialmente disoccupati. Il governo decise quindi di sostituire la classica retribuzione con un sistema di obbligazioni statali, mentre nel 1876 venne promulgata una legge che vietava di portare la spada: un affronto inimmaginabile per uomini educati come guerrieri che consideravano la lama come estensione del proprio onore.

Raffigurazione della battaglia di Shiroyama

Fu proprio tra gli ex samurai che il malcontento degenerò in aperta rivolta. A guidare gli insorti fu Saigo Takamori, lo stesso personaggio che un decennio prima aveva assaltato il palazzo imperiale di Kyoto e letto il proclama che restaurava il potere imperiale. Possibile? Nel 1873 Saigo aveva proposto una spedizione militare contro la Corea, al fine di restituire uno scopo ed un valore agli ex guerrieri. La proposta venne accantonata, anche per non turbare le potenze occidentali, ma Takamori si dimise dal Gran Consiglio e tornò a Satsuma, dove in breve tempo divenne punto di riferimento del sentimento antigovernativo. Temendo una possibile rivolta, nel gennaio 1877 il governo inviò a Kagoshima una spedizione navale con l’ordine di confiscare le munizioni. Le forze governative vennero attaccate e sopraffatte, mentre nel febbraio dello stesso anno quarantamila ex samurai al comando di Saigo affrontarono l’esercito alle porte di Kumamoto. Dopo sei settimane di battaglia i rivoltosi furono sconfitti e nel settembre dello stesso anno, a Shiroyama, Saigo Takamori e altri quattrocento fedelissimi trovarono finalmente la “bella morte” ricercata da ogni samurai.

Amaterasu -al centro – in un famoso episodio della mitologia giapponese

Dal punto di vista religioso, la nuova Costituzione garantiva piena libertà di culto. Migliaia di “kakure kirishitan” o “cristiani nascosti”, discendenti di coloro che si convertirono al cristianesimo prima della sua messa al bando all’inizio dello Shogunato Tokugawa, poterono uscire allo scoperto e professare pubblicamente la loro fede. Non si trattò di un atto disinteressato, anzi: il governo Meiji sapeva che all’epoca buona parte dei paesi occidentali calcolava il grado di civiltà di una nazione in base all’atteggiamento della stessa nei confronti dei seguaci di Cristo. A livello istituzionale, infine, si abbandonò il Buddhismo a favore dello Shintoismo, in cui l’Imperatore giocava un ruolo centrale in quanto discendente diretto di Amaterasu, la divinità solare.

Al rapido susseguirsi di cambiamenti di enorme portata, i giapponesi reagirono con la filosofia dell’auto-aiuto e con il darwinismo sociale di Spencer, che venne addirittura consultato dal governo: in questa epoca di tumulti il singolo individuo era abbandonato a se stesso e soltanto affinando diligentemente le proprie capacità poteva ritagliarsi uno spazio all’interno della società. Il governo Meiji fece proprie queste spinte individuali e cercò di incanalarle verso un obiettivo comune: la nascita di una nazione forte, ed è in questo preciso momento storico che il nazionalismo giapponese “moderno” vede la luce, quello stesso nazionalismo che nel secolo successivo porterà ad indicibili brutalità. Il Tenno, l’imperatore, divenne nuovamente il fulcro intorno a costruire questa nuova nazione, forte abbastanza da trattare alla pari con gli occidentali.

L’Imperatore Meiji nel 1880

Il modo migliore per condizionare l’opinione pubblica e inculcare determinati valori nella testa delle masse è, oltre alla propaganda, il controllo dell’istruzione: nel 1872 venne proclamato l’obiettivo dell’istruzione universale e già nel 1879 quasi due terzi dei ragazzi ed un quarto delle ragazze avevano ricevuto una qualche forma di istruzione. All’epoca, buona parte dei libri di testo erano traduzioni di scritti occidentali e in quanto tali traboccavano di idee come l’egualitarismo ed i diritti individuali. Per evitare la diffusione di concetti che potevano minare alla base i valori tradizionali giapponesi, lo Stato iniziò ad esercitare un controllo sempre più stringente sull’educazione e sugli stessi libri di testo. Le nuove edizioni, realizzate ex novo da autori nipponici approvati, veicolavano principi morali che si basavano sui valori confuciani e shintoisti: i libri di testo e le aule scolastiche divennero strumenti di indottrinamento. In questo senso il Rescritto imperiale sull’educazione del 1890 getta le basi di quella che sarà l’ideologia giapponese per il mezzo secolo successivo: l’imperatore, padre benevolo di ogni suddito, è identificato con lo Stato; dovere di ogni suddito/figlio è obbedire docilmente al proprio genitore per il bene della Nazione/Famiglia.

Promulgazione della Costituzione Meiji

La vecchia Costituzione del 1868 venne sostituita l’11 febbraio 1889 dalla più famosa e più seria Costituzione Meiji. Il Consiglio si divise tra i sostenitori di un documento di stampo liberale, sul modello della Costituzione britannica, e tra i sostenitori di un documento più autoritario, ispirato al mondo tedesco. A spuntarla fu infine Ito Hirobumi che redasse un nuovo documento sul modello della Costituzione prussiana, grazie anche all’aiuto di diversi consiglieri tedeschi. La data in cui venne promulgato il documento costituzionale non fu scelta a caso: l’11 febbraio, infatti, è l’anniversario della fondazione dello Stato giapponese che, almeno secondo il Nihon Shoki, avvenne nel 660 a.C. La legge fondamentale dello Stato fu presentata come un dono dell’Imperatore al suo popolo e sanciva l’immutabile potere sovrano del Tenno in virtù della sua discendenza divina. Sotto questa patina, tuttavia, il potere imperiale aveva importanti limitazioni: tutti i decreti imperiali, infatti, dovevano essere controfirmati da un ministro.

Riunione della Dieta

La nuova Costituzione prevedeva una Dieta bicamerale, divisa in Camera dei Pari, costituita da nobili di rango elevato e alcuni membri eletti, e in Camera dei Rappresentanti, i cui membri erano tutti eletti. Il diritto di voto, tuttavia, era estremamente limitato, in quanto concesso soltanto a chi versava almeno 15 yen di tasse all’anno, ovvero meno del 2% della popolazione giapponese. La stessa Dieta aveva ben poco potere, in quanto i ministri rispondevano direttamente al Tenno, così come le forze armate. Alla popolazione furono concessi alcuni diritti, la cui validità effettiva era limitata dall’ambigua specificazione «entro limiti tali da non pregiudicare la pace e l’ordine». Pur essendo un passo verso la democrazia, la Costituzione Meiji costruì un assetto istituzionale che fu alla base degli eventi del secolo successivo.

BIBLIOGRAFIA

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R. H. P. Mason, J. G. Caiger, A History of Japan, Rutland, Tuttle Publishing, 1997

Il commodoro Perry e la fine dello Shogunato

I vari han (feudi) durante lo shogunato Tokugawa

L’arrivo delle “navi nere” del commodoro Perry nella baia di Edo – l’attuale Tokyo – fu un evento di portata storica per il Giappone, in quanto diede il via ad una catena di eventi che nel giro di pochi anni portò alla caduta dello shogunato e alla restaurazione del potere imperiale. La storiografia giapponese chiama questo periodo “bakumatsu

Sin dal 1641 i Tokugawa imposero al Sol Levante la politica del sakoku – letteralmente stato chiuso o blindato – al fine di impedire che influenze esterne potessero avere effetti negativi sulla stabilità del paese. Di fatto agli stranieri venne proibito l’accesso all’arcipelago, mentre ai giapponesi veniva proibito di lasciarlo, pena la morte. Unica eccezione fu l’apertura del porto di Nagasaki ai soli mercanti cinesi ed olandesi.

Dopo due secoli di politica isolazionista, il Giappone versava in un grave stato di stagnazione economica, le cui conseguenze erano pagate soprattutto dalle fasce più deboli della popolazione, tanto nelle campagne, dove sempre più frequentemente scoppiavano vere e proprie insurrezioni armate, quanto nei centri urbani. L’isolamento, pur permettendo lo sviluppo di una cultura autoctona unica nel suo genere, aveva inoltre lasciato il paese in un grave stato di arretratezza tecnologica nei confronti dell’Occidente, tanto che la sempre più massiccia presenza europea in Asia Orientale iniziò ad essere percepita con crescente apprensione, sfociando talvolta in autentico timore. Non è un caso, infatti, che in risposta ad un tentativo della Russia, ormai padrona della Siberia e affacciata sul Pacifico, di stabilire rapporti commerciali con il Giappone, lo shogunato rispose con la colonizzazione di Ezo – l’attuale Hokkaido – che fino a quel momento era sottoposto ad una blanda influenza del clan Matsumae che si limitava a commerciare con la popolazione locale, gli Ainu (1792).

Aizawa Seishisai

In ambiente intellettuale iniziarono a svilupparsi diverse voci critiche, la più importante delle quali fu sicuramente quella di Aizawa Seishisai che nel 1825 pubblicò un’opera destinata a diventare uno dei fondamenti per lo sviluppo dell’identità nazionale nipponica, intitolata Shinron (Nuove Tesi). Nel volume egli formulò il concetto di kokutai – sistema nazionale – contrapposto alla frammentazione feudale, esaltando la figura del ruolo dell’Imperatore, all’epoca poco più che una eterea presenza marginale rinchiusa nel palazzo imperiale di Kyoto, e condannando ogni dottrina straniera. Infine concepì il confronto con l’Occidente una occasione storica, ossia la spinta necessaria per un rinnovamento morale del Giappone che avrebbe portato alla nascita di una solida identità nazionale. Rinnovamento morale che si sarebbe inevitabilmente basato sugli antichi miti shinto e di conseguenza sulla tradizione imperiale.

L’incapacità dello shogunato di attuare una politica di risanamento economico, esasperata dal fallimentare tentativo di Mizuno Tadakuni, spinse diversi signori feudali ad agire in autonomia per risanare i propri bilanci. Il clan Mori di Choshu, ad esempio, puntarono all’aumento della produttività agricola, al contenimento delle spese e al miglioramento della propria rete commerciale in modo da reinvestire i proventi nell’acquisto di equipaggiamento occidentale. Anche gli Shimazu di Satsuma puntarono sull’attività commerciale, forti del monopolio esercitato sulla produzione dello zucchero  e del protettorato istituito sul regno delle Ryukyu – l’arcipelago di cui fa parte l’isola di Okinawa – utilizzato per aggirare le restrizioni del sakoku.

Il rinnovato interesse russo si concretizzò in una nuova richiesta nel 1804 che ebbe lo stesso esito di quella precedente, mentre vascelli inglesi comparvero sempre più frequentemente al largo delle coste nipponiche, almeno finchè l’attenzione britannica non  venne assorbita dalla Cina, dove nel 1839 sarebbe scoppiata la prima guerra dell’oppio. L’indebolimento cinese fu un vero e proprio shock per l’ambiente intellettuale giapponese, in quanto metteva in discussione il primato culturale ed il prestigio del Celeste Impero, minando alla radice il suo ruolo e la sua influenza sull’intera Asia Orientale. Il risultato fu la fine di una certa sudditanza psicologica che stimolò un processo di emancipazione dell’identità giapponese, portando alla luce l’aspirazione di garantirsi un ruolo meno marginale nel mondo. Questo processo, unito alle teorie formulate nello Shinron, giocò un ruolo fondamentale nella creazione dell’identità del Giappone moderno e fu alla base della politica estera del “nuovo Giappone” nei decenni seguenti, ma di questo parlerò in un altro post.

Dall’altra parte del Pacifico, intanto, la corsa alla frontiera aveva portato alla creazione dello stato della California (1850), portando gli Stati Uniti ad affacciarsi sulla West Coast, mentre il fulmineo sviluppo di San Francisco, dovuto in gran parte alla corsa all’oro, dotò gli USA di un grande porto proiettato verso l’Asia ed i porti cinesi. Fu così che il presidente americano Millard Fillmore incaricò il commodoro Perry di salpare alla volta del Giappone con l’ordine di presentare al governo nipponico la richiesta di apertura di pacifiche relazioni diplomatiche, l’apertura dei porti giapponesi alla navi statunitensi dirette in Cina ed infine un accordo commerciale. L’8 luglio 1853 la flotta di Perry, composta da quattro moderne imbarcazioni da guerra, gettò l’ancora nella baia di Edo. Interpretando a modo suo le direttive presidenziali, Perry usò termini a dir poco perentori, quasi da ultimatum, con i rappresentanti dello shogun, aggiungendo che sarebbe tornato l’anno successivo per conoscere la risposta.

Le “navi nere” in una stampa giapponese dell’epoca.

L’arrivo delle “navi nere” accelerò il processo di sgretolamento del potere shogunale, dato che palesò tanto l’incapacità del governo di Edo di rivedere la propria politica isolazionista e di ritagliare un nuovo ruolo al Giappone nel “sistema mondo”, quanto la sua debolezza. Anzichè prendere di petto la situazione, lo shogun preferì sottoporre le richieste americane al vaglio del Consiglio degli Anziani e di tutti i feudatari: la mancanza di unanimità portò ad una frattura, che col tempo diventò insanabile, tra i fautori della resistenza armata ad oltranza e tra chi, spaventato dagli eventi cinesi, era disposto a fare alcune concessioni. Nel tentativo di ricomporre la frattura, il capo del Consiglio degli Anziani propose una soluzione di compromesso che evitava il conflitto armato attraverso alcune concessioni, ma rifiutava l’accordo commerciale. Il trattato di Kanagawa (1854) sanciva l’apertura dei porti di Hakodate e Shimoda al rifornimento delle navi americane e l’invio di un console statunitense nell’ultima località. Analoghi trattati vennero firmati successivamente anche con le altre potenze europee. L’impianto del sakoku era ormai a pezzi e con esso il prestigio dei Tokugawa, tanto che il consenso attorno alla figura imperiale aumentò sensibilmente.

Stampa giapponese che raffigura il sentimento del sonno-joi

Non paghi di quelle che ritenevano aperture insufficienti, i rappresentanti delle potenze occidentali, specialmente il console americano, iniziarono una martellante campagna di pressione per ottenere nuove e più consistenti concessioni. A differenza di quanto accaduto soltanto un paio di anni prima, i daimyo si rivelarono molto più concilianti e consci della necessità di rapporti commerciali con l’estero, pur non smussando la propria ostilità nei confronti degli occidentali, tanto da rifiutare in blocco l’apertura di nuovi porti e l’idea di trasferire le sedi diplomatiche a Edo. Particolarmente critici erano i feudatari dell’ovest (Satsuma, Choshu, Tosa, Hizen, etc.), tradizionali avversari dei Tokugawa sin dai tempi di Sekigahara, ben consapevoli del malcontento che la presenza degli stranieri provocava nella popolazione, specialmente nei samurai più giovani. Fortemente influenzati dal fermento intellettuale di cui abbiamo parlato sopra, è proprio tra le loro fila che emerge l’idea dell’Imperatore come fulcro dell’onore nazionale e non è certo un caso che proprio dalla corte di Kyoto giunsero voci aspramente critiche nei confronti dell’operato del governo di Edo. A complicare ulteriormente una situazione di per sè già complessa, giunse la morte senza eredi di Tokugawa Iesada, che aprì una crisi dinastica tra due rami della famiglia. Ad uscirne vittorioso fu Tokugawa Iemochi il quale decise, come primo atto da nuovo shogun, di concludere le trattative con gli americani accettando ogni loro richiesta, senza interpellare preventivamente i feudatari e la corte imperiale.

Il “Trattato di amicizia e commercio con gli Stati Uniti”, firmato il 29 luglio 1858, fu il primo di quelli che passarono alla Storia come “trattati ineguali”. Ineguali perchè oltre alla concessione di nuovi scali commerciali e del diritto per gli stranieri di risiedere a Edo e nelle località portuali, prevedevano clausole che non garantivano la minima reciprocità di diritti tra le due parti: la limitazione dei dazi doganali sulle merci di importazione impediva di fatto ogni politica protezionista a difesa della debole economia nipponica, mentre la concessione del diritto di extra-territorialità agli occidentali residenti li sottraeva alla giurisdizione giapponese, risultando in una limitazione della sovranità.

Le conseguenze dei trattati si abbatterono come uno tsunami sull’economia giapponese. Le grandi case commerciali si videro costrette a fronteggiare la concorrenza delle compagnie straniere senza le tutele di cui avevano goduto fino a quel momento, mentre le imprese tradizionali che operavano su scala artigianale dovettero affrontare l’importazione di manufatti industriali; l’aumento del costo del riso, poi, andò a colpire tutti coloro che avevano uno stipendio fisso.

Hijikata Toshizo, il vicecomandante dello Shinsengumi

La firma dei trattati fu la pietra tombale sull’istituzione dello shogunato. Come era possibile, infatti, che il protettore militare del Giappone cedesse ai barbari senza nemmeno accennare un minimo di resistenza? Il malcontento crebbe a dismisura e a partire dal 1860 iniziò a manifestarsi sotto forma di una vera e propria campagna di terrorismo politico nei confronti dei sostenitori dello Shogun. Ad agire erano soprattutto esponenti di rango medio-basso della casta dei samurai, i cosiddetti shishi o uomini audaci, che ben presto andarono a confluire nel movimento “sonno-joi” – “onore all’Imperatore, fuori i barbari” – che si radicò profondamente nei feudi dell’ovest, concentrati nell’estrema punta occidentale dell’Honshu, nei Kyushu e nello Shikoku. Ben presto i sonno-joi iniziarono a colpire gli interessi economici occidentali, con incendi di magazzini e di imbarcazioni, arrivando a compiere attacchi xenofobi a danno dei singoli cittadini stranieri. Per contrastarli lo shogunato creò un corpo scelto chiamato  Shinsengumi che iniziò una lotta senza quartiere contro gli shishi, una lotta combattuta nei vicoli bui di Kyoto e di Edo: il Giappone era scivolato quasi inconsapevolmente in una nuova guerra civile a bassa intensità.

Stampa giapponese che raffigura la chiusura dello stretto di Shimonoseki

A gettare ulteriore benzina sul fuoco, e a far deflagrare irrimediabilmente la situazione, ci pensò l’Imperatore Komei in persona che, interrompendo una secolare tradizione di non ingerenza nella gestione degli affari di stato, l’11 marzo del 1863 ordinò allo Shogun di espellere tutti i barbari dal Giappone entro i due mesi successivi. Lo shogunato non prese nemmeno in considerazione l’ordine, limitandosi ad ignorarlo, ma altrettanto non fecero i daimyo dell’ovest. Pochi giorni dopo la scadenza dell’ultimatum, infatti, il signore del dominio di Choshu diede ordine di aprire il fuoco su tutte le navi occidentali in transito attraverso lo stretto di Shimonoseki, il braccio di mare che separa le isole di Kyushu e di Honshu.

Soldati europei in una batteria occupata a Shimonoseki

Come rappresaglia una flottiglia americana compì una sortita nello stretto cannoneggiando le postazioni nipponiche, ironicamente dotate anche di artiglieria di fabbricazione statunitense, e affondando alcune imbarcazioni. Quasi contemporaneamente una squadra navale inglese bombardò la città di Kagoshima, capitale del dominio di Satsuma, in risposta all’uccisione di un connazionale avvenuta l’anno precedente. Entrambi gli episodi possono essere considerati esempi da manuale di “diplomazia con le cannoniere”, ossia la tendenza da parte delle potenze occidentali di minacciare o di ricorrere all’uso della forza militare per ottenere accordi e concessioni qualora i canali diplomatici tradizionali non avessero raggiunto lo scopo. Se ciò funzionò a Satsuma, tanto che fu presto raggiunto un accordo con gli inglesi per il pagamento di un adeguato risarcimento, per riaprire lo stretto di Shimonoseki, invece, fu necessario organizzare una spedizione navale in grande stile nel settembre del 1864. Come compensazione gli occidentali pretesero dallo shogunato ben tre milioni di dollari dell’epoca, una quantità di denaro sufficiente ad allestire una piccola flotta di battelli a vapore, e di fronte alla mancanza di liquidità del governo di Edo ottennero l’apertura di un nuovo porto – l’attuale Kobe – e l’abbassamento dei dazi doganali al 5%.

Carta del Giappone in cui sono rappresentati alleati ed avversari dello shogunato

La campagna di Shimonoseki dimostrò ai feudatari dell’ovest l’impossibilità di un confronto militare con le potenze straniere, spingendoli a varare un ambizioso piano di ammodernamento delle proprie forze armate. Lo shogunato, invece, ne uscì ancora una volta umiliato, tanto che scoppiarono diverse ribellioni, la principale delle quali riguardò proprio il dominio di Choshu. L’invio di una spedizione punitiva nel tardo 1864 si risolse in un nulla di fatto grazie alla mediazione di Saigo Takamori, uno dei comandanti delle forze shogunali e samurai al servizio del feudo di Satsuma. I Mori di Choshu non sembravano minimamente intenzionati ad ammainare la bandiera della rivolta, spingendo il governo centrale ad inviare una seconda spedizione punitiva, molto più consistente rispetto alla precedente, nel corso del 1866. Nonostante la grande inferiorità numerica, i ribelli, forti dell’appoggio di Satsuma, Tosa e altri feudi minori, inflissero una cocente sconfitta alle forze governative, grazie soprattutto al vasto impiego di armamenti moderni. Il fallimento della spedizione punitiva fu un avvenimento epocale, in quanto mai in precedenza un esercito dei Tokugawa era stato sconfitto sul campo da un daimyo in rivolta: lo shogunato ormai era un cadavere. La vittoria delle forze ribelli rafforzò enormemente lo schieramento filo imperiale, spingendo la Gran Bretagna ad appoggiare i feudi occidentali, anche in contrapposizione alla Francia che invece aveva scelto il fronte shogunale come partner commerciale.

Tokugawa Yoshinobu, l’ultimo shogun

L’uscita di scena in rapida successione dello Shogun e dell’Imperatore, deceduti rispettivamente nel novembre del 1866 e nel gennaio dell’anno successivo, diede il via ad un a serie di eventi che portarono alla nascita del Giappone moderno. Il nuovo Shogun, Tokugawa Yoshinobu, nel tentativo di ricomporre la frattura che attraversava il paese, provò ad organizzare un nuovo assetto politico – chiamato kobu gattai -attraverso la condivisione del potere con il nuovo Imperatore Mutsuhito, conosciuto come Meiji, senza però avere successo. Nell’ottobre del 1867 il daimyo di Tosa inviò a Edo un memoriale in cui si chiedeva allo Shogun di dimettersi e di rimettere all’Imperatore i poteri, che sarebbero stati esercitati da un consiglio di feudatari, in cambio del mantenimento delle proprietà terriere. Il mese successivo lo Shogun, volendo evitare lo scoppio di una guerra civile, rassegnò le dimissioni. Le forze della coalizione Satsuma-Choshu, che ormai avevano assunto le sembianze di un vero e proprio esercito imperiale, iniziarono a marciare verso Kyoto, dove giunsero all’inizio del 1868. Il 3 gennaio, guidate da Saigo Takamori, le forze della coalizione occuparono il palazzo imperiale e davanti ad un gruppo di cortigiani e feudatari venne letto un proclama che annunciava la restaurazione del potere imperiale. Dopo 250 anni il sipario della Storia scendeva sullo shogunato Tokugawa, mentre all’ombra del Fuji sbocciava un nuovo Giappone, ma di questo parleremo un’altra volta.

BIBLIOGRAFIA

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