Letture: Murakami Haruki – Underground

murakami-undergroundQuando a suo tempo ho recensito Abbandonare Un Gatto, avevo parlato di un Murakami inedito e per certi versi posso dire lo stesso di Underground. Se nel primo volume l’autore si apriva al lettore mettendo a nudo il suo lato più intimo e personale, nel libro in oggetto abbandona la finzione onirica per affrontare di petto un incubo, questa volta terribilmente reale: l’attentato alla metropolitana di Tokyo.

Il mattino del 20 marzo 1995, alcuni seguaci della setta Aum Shinrikyō rilasciarono del sarin, un agente nervino piuttosto potente,  all’interno di diversi convogli della metropolitana. Diffondendosi all’interno delle stazioni gremite di pendolari, il gas uccise tredici persone e ne intossicò oltre seimila, molte delle quali hanno continuato ad avere gravi problemi di salute anche negli anni successivi. L’evento provocò un vero e proprio shock nell’opinione pubblica giapponese, già scossa dalla devastazione provocata dal terremoto di Kobe (17 gennaio dello stesso anno), non solo perchè si trattò del più grave episodio di violenza a partire dal 1945, ma anche perchè la risposta delle autorità e dei servizi di emergenza si dimostrò tardiva e del tutto inefficace.

Underground nasce quasi per caso, dopo che l’autore si è ritrovato tra le mani una rivista contenente la lettera scritta dalla moglie di un uomo che, a causa delle conseguenze dell’intossicazione da sarin, aveva perso il lavoro. Niente più che uno sfogo, ma sufficiente a turbare Murakami: quello descritto dalla donna era un caso isolato oppure no? E in generale cosa provavano le vittime? Covavano un desiderio di vendetta o preferivano dimenticare per tornare il prima possibile ad avere una vita normale? Per rispondere a queste domande, nel corso di tutto il 1996 l’autore ha incontrato ed intervistato vittime e parenti dei defunti. Impresa tutt’altro che facile, sia per il timore di possibile ritorsioni da parte degli adepti di Aum, sia per una certa ritrosia nel rinvangare gli eventi dolorosi che fa parte della cultura nipponica, oltre alle pressioni da parte dei datori di lavoro e delle famiglie: non deve quindi sorprendere se l’autore è dovuto ricorrere in più di una occasione a nomi di fantasia per tutelare gli intervistati.

Ne risulta un quadro incredibilmente sfaccettato —non potrebbe essere diversamente visto che si tratta di un affresco corale —capace di mostrare aspetti “profondi” della cultura e della società giapponese: il senso del dovere e del sacrificio dei dipendenti della metropolitana e una cultura del lavoro a dir poco tossica, con buona parte degli intervistati che si sono recati a lavoro nonostante evidenti sintomi di intossicazione.

Nella seconda parte del volume, in origine pubblicata nel 1997 sulle pagine della rivista Bungei Shunjū, Murakami si è proposto di indagare sulla natura del culto Aum, andando ad intervistare (ex) adepti dello stesso. Incalzando gli intervistati e mettendone in rilievo le contraddizioni, l’autore traccia un ritratto inclemente della setta. Un ambiente tossico, in cui manipolazione e abusi fisici e psicologici erano all’ordine del giorno al fine di piegare la volontà dei seguaci e uniformarla ai desideri del leader Shoko Asahara. Altrettanto impietoso, però, è anche il giudizio della società giapponese, del suo rigido inquadramento e della sua incapacità di gestire e tutelare tutti coloro che abbandonano, spesso a causa dell’eccessiva pressione sociale, la “retta via”. Persone che spesso finiscono per trovare conforto proprio nel mondo delle sette.

Underground non è una lettura semplice, anche perchè si tratta di un libro abbastanza voluminoso — cinquecento pagine circa — che ruota interamente intorno ad un singolo fatto. Rileggere più e più volte lo svolgimento di certe dinamiche, seppur attraverso punti di vista differenti, è stato abbastanza pesante. Al tempo stesso, però, ho apprezzato la capacità dell’autore di suscitare svariati interrogativi nella mia mente di lettore: cosa avrei fatto se mi fossi trovato lì in quel momento? Cosa potrebbe succedermi se cascassi nella tela di una setta come Aum? Consiglio il libro ai completisti di Murakami e a chi è interessato a saperne di più sull’attentato del 1995.

Letture del mese – Dicembre ’20 (Murakami Haruki – Abbandonare Un Gatto)

È davvero una strana sensazione quella di concludere il 2020, un anno orribile sotto quasi tutti i punti di vista tranne quello dell’attività di scrittura, parlando dell’ultimo lavoro della penna più famosa della letteratura giapponese contemporanea e non di qualche autore oscuro pubblicato da un altrettanto oscuro editore indipendente. Eppure scrivendo di un libro di memorie, è difficile non pensare a come ricorderemo questi dodici mesi tra venti o trenta primavere, per cui forse è giusto concludere così, in bellezza.

 

MURAKAMI HARUKI – ABBANDONARE UN GATTO

Che lo si apprezzi o meno, Murakami Haruki (1948) è un autore che non necessita presentazioni. Lo conosciamo per i suoi romanzi dalle atmosfere oniriche, in cui il piano della realtà e quello del soprannaturale si sovrappongono toccandosi e rendendo difficile distinguere l’uno dall’altro; oppure per il suo lavoro di saggista e giornalista, come in Underground, opera incentrata sull’attentato del 20 marzo 1995 a Tokyo, quando gli adepti della setta Aum Shinrikyō rilasciarono del gas nervino nei tunnel della metropolitana, uccidendo tredici persone ed intossicandone svariate migliaia.

Quello di Abbandonare Un Gatto è un Murakami ancora diverso, molto più intimo e in grado di mettersi a nudo davanti ai propri lettori. Partendo da un ricordo di infanzia, come suggerisce il titolo l’abbandono di un gatto su una spiaggia (spoiler, prima di indignarsi come il sottoscritto: al gatto non è successo nulla), l’autore riflette sul proprio rapporto con il padre e sul concetto stesso di memoria, aprendosi senza reticenze.

Scopriamo così che il padre di Murakami era un insegnante e compositore di haiku, oltre che un buddhista devoto. Profondamente segnato dall’orrore della guerra, pregava ogni mattina davanti all’altare domestico per le anime dei caduti, fossero essi giapponesi o cinesi. Ed è proprio sulla guerra che Murakami sembra volersi soffermare. Una guerra orribile quella tra Cina e Giappone, in cui i nipponici si macchiarono di crimini inenarrabili, in cui l’episodio più famoso – e per assurdo forse nemmeno il più orribile – fu il massacro di Nanchino: quando l’esercito imperiale occupò la capitale cinese, si abbandonò ad un’orgia sfrenata di sangue e violenza accanendosi sui civili inermi. L’autore ne parla senza ritrosia e, pur essendo lontani dai tempi in cui Ienaga veniva censurato dalle istituzioni e minacciato di morte dagli ultranazionalisti, si tratta di una presa di posizione tutt’altro che scontata.

Con le sue settanta pagine scarse, diverse delle quali occupate dalle belle illustrazioni di Emiliano Ponzi, Abbandonare Un Gatto è un libretto agile che può essere letto in un paio d’ore, ma che al tempo stesso può far riflettere il lettore sul concetto stesso di memoria e sul rapporto che abbiamo con essa. Un Murakami inedito, intimo ed incredibilmente umano, quasi fragile con il suo carico di rimpianti per le tante, troppe questioni rimaste in sospeso e per le occasioni perdute che non potranno mai più essere recuperate.

 

 

Letture del mese – Ottobre ’20 (Jared Diamond – Armi, Acciaio E Malattie)

Spesso ci troviamo di fronte domande, in apparenza relativamente semplici, che però richiedono risposte complesse. A volte sono così complesse che necessitano di essere scritte in un libro per poter essere articolate a dovere. Un esempio può essere “Apologia del mestiere di storico” di Marc Bloch, scritto per rispondere al figlio che gli chiedeva cosa fosse la Storia, mentre un altro può essere il libro di cui parleremo oggi.

JARED DIAMOND – ARMI, ACCIAIO E MALATTIE

Metto le mani avanti dicendolo fin da subito: “Armi, Acciaio e Malattie” è uno dei libri che più ha influito sulla mia crescita individuale, tanto da spingermi a tuffarmi nel mondo dell’antropologia. È stato un bel tentativo, ma riuscire a coniugare studio e lavoro full time si è rivelato essere ben oltre le mie capacità. Ciononostante la passione per l’argomento è rimasta ed il libro in questione continua ad essere uno dei miei preferiti. Ma tornando alle domande semplici dalle risposte complesse, quale è stata la domanda che ha spinto l’autore a scrivere questo saggio?

È il 1972 e, durante una spedizione ornitologica in Papua Nuova Guinea, un giovane locale di nome Yali pone all’americano Jared Diamond (1937), fisiologo, geografo e non ultimo ornitologo, la seguente domanda: «Come mai voi bianchi avete tutto questo cargo e lo portate qui in Nuova Guinea, mentre noi neri ne abbiamo così poco?». Prima di vedere la risposta di Diamond, che ha necessitato qualcosa come venticinque anni per essere elaborata in modo soddisfacente, apro solo una piccola parentesi per spiegare cosa si intende per “cargo” in quell’angolo dell’Oceano Pacifico. Con questo termine si indicano collettivamente tutti quei prodotti industriali – tecnologici o meno – che giungono in Nuova Guinea attraverso le navi da carico, dette appunto cargo ship in inglese. Il concetto di “cargo” ha dato origine a tutto un corpus di credenze di stampo religioso, variamente diffuse tra Papuasia, Melanesia e Micronesia, dette “culto del cargo”. L’argomento è estremamente interessante e mi riservo di parlarne in modo più approfondito in futuro.

Tornando alla domanda di Yali, la risposta più semplice consiste nel ridurre tutto al primato tecnologico europeo che, negli ultimi cinquecento anni, si è fatto via via sempre crescente, sebbene si sia ridimensionato enormemente con la nascita dell’informatica e la conseguente digitalizzazione. Si tratta, tuttavia, di una ipersemplificazione del tutto insoddisfacente, dato che non spiega il perchè di tale primato. Esso nasce forse da qualche fattore biologico che stabilisce una superiorità innata dell’uomo bianco rispetto ad altre popolazioni? Questa idea, per altro già ampiamente smentita dalla genetica, viene rifiutata in toto dallo stesso Diamond sin dalle premesse iniziali del volume. Per l’autore, infatti, il motivo per cui sono stati gli europei a colonizzare l’America e non il contrario, risiede in alcune significative differenze ambientali che hanno precluso alcune strade a diverse popolazioni, lasciandole invece aperte ad altre, portando quindi a destini radicalmente diversi.

Si tratta in apparenza di una argomentazione piuttosto debole, che offre il fianco ad essere bollata come determinismo ambientale e lo studioso americano ne è pienamente consapevole. Ecco perchè Diamond affronta la questione con un approccio pluridisciplinare – Bloch approverebbe – attingendo da materie apparentemente lontane tra loro come la storia, la biologia, l’antropologia, l’ecologia, l’epidemiologia e molte altre, forte anche del suo percorso di studio che lo ha portato a specializzarsi in diversi campi. Il risultato è un ottimo volume di nemmeno quattrocento pagine, suddiviso in quattro macrosezioni.

La prima funge da introduzione, affrontando la storia del genere umano a partire dalla sua diffusione per il globo dopo la sua uscita dall’Africa fino a giungere all’epoca della colonizzazione europea, descrivendo la nascita e l’evoluzione delle varie società umane. La seconda parte, invece, affronta una delle questioni cruciali dell’intero volume, ossia la nascita dell’agricoltura – e con essa della domesticazione degli animali, là dove questa fu possibile – che avvenne in maniera indipendente in più aree del pianeta, fornendo alle società di agricoltori un vantaggio enorme, in termini numerici e di risorse alimentari, sulle popolazioni di cacciatori-raccoglitori. La terza sezione parla della conseguenza della rivoluzione agricola, ossia la nascita delle prime società complesse. L’alta densità abitativa delle prime città e la promiscuità con il bestiame furono alla base del passaggio di agenti patogeni tra questo e gli esseri umani, portando all’insorgere di nuove malattie – è esattamente quello che succede ancora oggi con i virus influenzali, con la MERS e soprattutto con il Sars-CoV2 – mentre la necessità di organizzare un vasto numero di individui portò all’invenzione della scrittura e quindi ad uno scambio sempre più efficace di conoscenze, con ampie ricadute in ambito tecnologico. La quarta parte, infine, tira le somme di quanto scritto in precedenza applicando il tutto a casi concreti come l’Oceania oppure all’Africa subsahariana o ancora alla Cina e al Sudest asiatico.

In apparenza può sembrare un calderone di concetti – e lo è in parte – ma l’autore ha il pregio di riuscire a condensarli ed esporli  in modo semplice e lineare in meno di quattrocento pagine. Non è una cosa che è in grado di fare chiunque, dimostrando ancora una volta quanto sia difficile riuscire a fare della buona divulgazione, rendendo accessibile a chiunque attraverso un linguaggio semplice, ma al tempo stesso rigoroso, concetti che altrimenti resterebbero confinati in saggi specialistici o paper scientifici. Ammetto di non essere imparziale, ma a mio avviso si tratta di un libro che andrebbe letto almeno una volta nel corso della propria vita.

Letture del mese – Luglio ’20 (Christopher R. Browning – Uomini comuni)

Niente libri da spiaggia in questo luglio (post)pandemico, bensì un ritorno alle letture impegnate con un saggio storico di spessore sull’Olocausto a firma di uno dei maggiori studiosi dell’argomento.

 

CHRISTOPHER R. BROWNING – UOMINI COMUNI

Christopher R. Browning (1944) è stato Professore Emerito di Storia presso la University of North Carolina, prima di diventare Professore ospite alla University of Washington a Seattle. Ha all’attivo una vita di ricerca sull’Olocausto ed è probabilmente uno degli studiosi più titolati ad esprimersi sull’argomento, come si evince anche dal suo ruolo di consulente in diversi processi contro autori negazionisti come Zundel o Irving.

Il 13 luglio 1942, nel villaggio polacco di Józefów  vennero rastrellati circa 1800 ebrei. Poche centinaia, considerati abili al lavoro, furono deportati per essere introdotti nel sistema di sfruttamento industriale nazista come schiavi a basso costo. I restanti, in prevalenza anziani, donne e bambini, furono condotti nel vicino bosco e qui uccisi a sangue freddo.

I responsabili furono gli uomini del Battaglione 101 della riserva della Ordunungspolizei tedesca. Riservisti di mezza età, di estrazione prevalentemente proletaria, non particolarmente politicizzati. Uomini dalle vite normali, reclutati per lo più nella zona di Amburgo, lontani anni luce dallo stereotipo dell’oltreuomo ariano, guerriero politico dedito alla difesa della razza, incarnato dall’uomo delle SS. Si tratta, come suggerisce il titolo, di uomini comuni a tutti gli effetti.

L’autore basa l’intero lavoro sul materiale giudiziario raccolto dalla procura di Amburgo in concomitanza del procedimento penale contro il Battaglione, svoltosi tra il 1962 ed il 1972. Si tratta in buona parte delle deposizioni di 210 uomini, su un reparto che a pieni ranghi non raggiungeva i 500 effettivi, ancora vivi ai tempi delle indagini. Ciò risulta particolarmente interessante, perché offre al lettore uno spaccato interessante del mestiere di storico e di uno dei suoi aspetti più importanti, ossia l’approccio alle fonti. Una volta trovato un documento e/o una testimonianza, infatti, è necessario valutarla criticamente per soppesarne il valore ed evidenziare eventuali criticità.

In questo caso particolare ci troviamo di fronte ad un tipo di fonte piuttosto particolare. Se da un lato abbiamo l’autorevolezza di un soggetto come la magistratura tedesca, dall’altro abbiamo una distanza temporale di circa venti anni tra gli eventi e la deposizione: un lasso di tempo così lungo può alterare i ricordi, senza dimenticare che trattandosi di un processo molti degli imputati possono aver mentito o finto di non ricordare diversi avvenimenti nel tentativo di alleggerire la propria posizione. In casi come questo allo storico non resta che vagliare le dichiarazioni una ad una, mettendole a confronto ed evidenziando tanto i punti comuni quanto le differenze per delineare un quadro degli eventi il più possibile attendibile. Browning in questo modo screma le testimonianze arrivando ad un nucleo di 125 testimoni che dichiara attendibili, tutti indicati con pseudonimi, salvo gli ufficiali in comando, in ossequio alla normativa tedesca sull’utilizzo dei dati personali.

Józefów non fu un caso isolato. Il Battaglione 101 ed in generale l’Ordnungspolizei furono ingranaggi della gigantesca macchina di morte organizzata dal regime nazista e ripercorrere le azioni criminose del reparto dà modo di seguire passo dopo passo le varie fasi della Shoah nel distretto di Lublino. Le fucilazioni di massa del cosiddetto “olocausto delle pallottole” cedettero il posto allo sterminio industriale nei campi di Treblinka, Sobibor e Belzec sotto la supervisione di quell’Odilo Globocnik che nell’autunno del 1943 diventò comandante delle SS a Trieste dove istituì il famigerato campo alla Risiera di San Sabba.

Sullo sfondo i singoli militari e le loro molteplici reazioni all’orrore. Una manciata di uomini, facendo leva sulla propria coscienza e sulla propria fede religiosa, rifiutò pubblicamente e a più riprese di prendere parte alle stragi, mentre altri elaborarono diversi escamotage per evitare di sporcarsi le mani di sangue senza esporsi. Ci fu anche chi, come il tenente Gnade, sviluppò un piacere sadico nell’umiliare e derubare le vittime, mentre il capitano Wohlauf arrivò addirittura a farsi accompagnare dalla moglie durante l’evacuazione – leggasi eliminazione – di un ghetto. La maggior parte degli uomini, però, si limitò ad obbedire ciecamente agli ordini.

È proprio questa “zona grigia” che suscita l’interesse dell’autore, che nelle sezioni finali del volume tenta di spiegare perché degli uomini di mezza età, non politicizzati, si siano trasformati in implacabili dispensatori di morte. Nonostante la lunga dissertazione, che tira in ballo anche esperimenti di psicologia sociale come quello di Milgram e studi sui reduci della guerra del Vietnam, lo stesso Browning ammette che non è possibile trovare una risposta univoca. E questo è disturbante, molto.

Uomini Comuni” è un lavoro serio e rigoroso, un testo che consiglio a tutti coloro che sono interessati ad approfondire la tematica dell’Olocausto senza indugiare in particolari granguignoleschi. Al tempo stesso, però, è un libro che lascia un vago senso di inquietudine, perchè lascia il lettore con il più inquietante dei quesiti: se i carnefici del battaglione 101 erano davvero uomini comuni, noi come ci saremmo comportati nella medesima situazione?