La restaurazione del potere imperiale e la nascita del Giappone moderno

Meiji in viaggio da Kyoto a Edo (1868)

Sebbene la storiografia nipponica abbia la tendenza a dipingere la Restaurazione Meiji come una fase di transizione pacifica, la realtà appare ben diversa. Innanzitutto causò lo scoppio di una guerra civile, breve ma piuttosto intensa, passata alla storia con il nome di guerra Boshin. Successivamente lo scontento provocato dalla rapidissima modernizzazione della società giapponese, portò a diverse rivolte armate, la più famosa delle quali è sicuramente quella di Satsuma, passata alla storia come il canto del cigno dei samurai.

Nell’ultimo post ci siamo fermati all’irruzione delle forze guidate da Saigo Takamori nel palazzo imperiale di Kyoto, dove, davanti ai dignitari di corte e ad alcuni feudatari, lesse un proclama con cui dichiarò restaurato il potere imperiale. Immediatamente dopo, però, lesse una seconda dichiarazione che, in aperta violazione delle condizioni poste dall’ultimo shogun per la propria abdicazione, annunciava la confisca di tutti i beni della famiglia Tokugawa. Tokugawa Yoshinobu reagì nell’unico modo possibile per un nobile giapponese dell’epoca, ossia chiamò alle armi i propri sostenitori: il paese, che era stato unito e pacificato per oltre due secoli e mezzo, si trovò così diviso tra fazione imperiale, capeggiata dai feudi di Choshu e Satsuma, e fazione shogunale, in cui spiccavano i feudi di Aizu e Sendai.

Samurai di Satsuma durante la guerra Boshin

Le prime scintille si sprigionarono nella capitale Edo, dove vennero appiccati diversi incendi alle fortificazioni esterne del castello, la residenza principale dello shogun. Per ritorsione i lealisti attaccarono un palazzo di proprietà del signore di Satsuma, dove avevano trovato rifugio diversi oppositori: l’edificio venne dato alle fiamme, mentre gli occupanti vennero passati a fil di spada. Il 27 gennaio 1868 le forze dello shogunato si scontrarono con le forze filo imperiali nella battaglia di Toba-Fushimi alla periferia di Kyoto. Lo scontro si protrasse per circa un mese, fino alla conquista da parte delle forze imperiali del castello di Osaka, evento che costrinse le truppe dello shogun, indebolite per altro da diverse defezioni, a ritirarsi ad Edo. La stessa capitale venne espugnata da Saigo Takamori nel maggio dello stesso anno, costringendo le forze lealiste a rifugiarsi nell’estremità settentrionale dell’isola di Honshu. Sconfitti nuovamente sul campo, gli ultimi lealisti fuggirono sull’isola di Ezo, l’odierna Hokkaido, dove proclamarono la repubblica. La battaglia di Hakodate (maggio 1869), tuttavia, si concluse con una vittoria dell’esercito imperiale e sancì la fine dell’unica esperienza repubblicana nella storia dell’arcipelago nipponico e della guerra civile.

Sconfitto lo shogun sul campo di battaglia (più avanti realizzerò un post dove tratterò in dettaglio la guerra Boshin, se vi sarà richiesta), ora occorreva consolidare l’appena restaurato potere imperiale e rassicurare la popolazione. Lo stesso imperatore Meiji era ancora un adolescente, per cui in questa fase molto dipese dalla cerchia dei suoi consiglieri, uomini solitamente giovani, appartenenti ai bassi ranghi della casta dei samurai e animati da una smisurata ambizione personale, oltre che da un forte sentimento nazionalista.

Il giovane Meiji nel 1872

La prima azione del nuovo governo fu l’emanazione, nell’aprile 1868, ancora in piena guerra, del Giuramento dei cinque articoli che prevedeva: la discussione pubblica di tutte le questioni; la partecipazione di tutte le classi all’amministrazione del paese; la libertà di svolgere qualsiasi occupazione si desiderasse; l’abbandono delle cattive abitudini del passato; la ricerca del sapere in tutto il mondo, in modo da rinsaldare le fondamenta del potere imperiale. Oltre ad inaugurare un periodo di mobilità sociale, il Giuramento è interessante perché all’ultimo punto dimostra chiaramente l’intenzione di non considerare più la presenza straniera come una minaccia, bensì come una immensa opportunità per rafforzare il paese. Il motto “sonno-joi“, che aveva animato gli oppositori dello shogunato, venne presto sostituito dal più pragmatico “Wakon Yosai“, letteralmente “spirito giapponese, sapere occidentale”.

Nel luglio dello stesso anno venne promulgata una prima costituzione che, seppur redatta in modo piuttosto frettoloso, prevedeva l’istituzione di un’assemblea nazionale e di un Gran Consiglio di Stato. Al contempo il nuovo governo decise di abbandonare il dualismo Edo-Kyoto e di centralizzare il potere in una sola capitale. La scelta cadde sulla città di Edo, che venne ribattezzata Tokyo, in cui l’imperatore si trasferì l’anno successivo – la data del trasferimento segna l’inizio convenzionale del periodo Meiji – seguito a ruota dal Gran Consiglio.

L’ultimo shogun (1867)

Obiettivo primario del nuovo governo divenne la revisione dei trattati ineguali: il desiderio di trattare alla pari con le potenze occidentali spinse il paese ad una rapida occidentalizzazione e ad una serie di grandi riforme che cambiarono definitivamente il volto del paese. Riprendendo una politica del periodo Nara, il territorio fu nazionalizzato a partire dai vecchi domini dello shogunato, che rappresentavano circa un quarto del Giappone. Nel marzo del 1869, poi, i signori di Choshu e Satsuma rimisero i propri possedimenti nelle mani dell’imperatore, spingendo gli altri daimyo, non senza malumori, a fare altrettanto. In cambio il governo imperiale confermava gli ex signori feudali nel ruolo di governatore e si faceva carico dei debiti e delle spese di mantenimento dei samurai. Nel 1871, infine, il vecchio sistema feudale venne ufficialmente abolito e sostituito con la suddivisione del territorio nazionale in prefetture, sistema che, seppur riformato più volte, è in uso ancora oggi.

Un governo fortemente centralizzato come quello Meiji necessita di adeguate infrastrutture per comunicare rapidamente con ogni angolo del paese. Il telegrafo fece la sua comparsa molto presto, già nel 1869, mentre il servizio postale – piccola curiosità, i postini furono tra i primi dipendenti pubblici a dover indossare abiti di foggia occidentale mentre erano in servizio – venne istituito nel 1871. La prima linea ferroviaria venne inaugurata nel maggio del 1872, tra gli insediamenti stranieri di Yokohama e Shinagawa. L’arrivo del treno causò una vera e propria rivoluzione dei trasporti, riducendo enormemente i costi ed i tempi di spostamento di merci e passeggeri. Lo sviluppo della rete ferroviaria divenne una priorità, tanto da arrivare ad assorbire fino ad un terzo degli investimenti statali: in quindici anni il Giappone costruì ben 1600 km di ferrovie, che divennero 8000 entro la fine del secolo.

L’enorme aumento della spesa pubblica portò alla necessità di riformare l’intero sistema finanziario giapponese, compito che fu assunto dal ministro delle finanze e dal suo assistente Ito Hirobumi, che era stato inviato negli Stati Uniti per studiare il sistema valutario. Venne creata una zecca moderna e con essa un nuovo sistema monetario basato sullo yen ed un moderno sistema bancario. Nel 1873 venne introdotta una nuova tassa fissa sulla proprietà fondiaria, basata sulla stima del valore di un determinato lotto di terreno, che andò a sostituire il vecchio sistema feudale dei tributi variabili in base al raccolto. Se da un lato questo aumentò la produttività, dall’altro incrementò il tasso di locazione fino al 40%, spingendo molti contadini ad ipotecare i campi per poter pagare l’imposta. Come si può facilmente intuire, questo provocò un certo malcontento.

Ritratto di Saigo Takamori

Ulteriore malcontento fu causato dalla graduale eliminazione della classe dei samurai, sicuramente il colpo più grande al vecchio ordine sociale. Come abbiamo visto, il mantenimento dei samurai era diventato di competenza del governo centrale. Sebbene molti di loro lavorassero come amministratori o fossero confluiti nel corpo di polizia e nell’esercito – nel 1873 venne istituita la coscrizione obbligatoria, trasformando di fatto ogni cittadino in un potenziale guerriero – altrettanti rimasero ufficialmente disoccupati. Il governo decise quindi di sostituire la classica retribuzione con un sistema di obbligazioni statali, mentre nel 1876 venne promulgata una legge che vietava di portare la spada: un affronto inimmaginabile per uomini educati come guerrieri che consideravano la lama come estensione del proprio onore.

Raffigurazione della battaglia di Shiroyama

Fu proprio tra gli ex samurai che il malcontento degenerò in aperta rivolta. A guidare gli insorti fu Saigo Takamori, lo stesso personaggio che un decennio prima aveva assaltato il palazzo imperiale di Kyoto e letto il proclama che restaurava il potere imperiale. Possibile? Nel 1873 Saigo aveva proposto una spedizione militare contro la Corea, al fine di restituire uno scopo ed un valore agli ex guerrieri. La proposta venne accantonata, anche per non turbare le potenze occidentali, ma Takamori si dimise dal Gran Consiglio e tornò a Satsuma, dove in breve tempo divenne punto di riferimento del sentimento antigovernativo. Temendo una possibile rivolta, nel gennaio 1877 il governo inviò a Kagoshima una spedizione navale con l’ordine di confiscare le munizioni. Le forze governative vennero attaccate e sopraffatte, mentre nel febbraio dello stesso anno quarantamila ex samurai al comando di Saigo affrontarono l’esercito alle porte di Kumamoto. Dopo sei settimane di battaglia i rivoltosi furono sconfitti e nel settembre dello stesso anno, a Shiroyama, Saigo Takamori e altri quattrocento fedelissimi trovarono finalmente la “bella morte” ricercata da ogni samurai.

Amaterasu -al centro – in un famoso episodio della mitologia giapponese

Dal punto di vista religioso, la nuova Costituzione garantiva piena libertà di culto. Migliaia di “kakure kirishitan” o “cristiani nascosti”, discendenti di coloro che si convertirono al cristianesimo prima della sua messa al bando all’inizio dello Shogunato Tokugawa, poterono uscire allo scoperto e professare pubblicamente la loro fede. Non si trattò di un atto disinteressato, anzi: il governo Meiji sapeva che all’epoca buona parte dei paesi occidentali calcolava il grado di civiltà di una nazione in base all’atteggiamento della stessa nei confronti dei seguaci di Cristo. A livello istituzionale, infine, si abbandonò il Buddhismo a favore dello Shintoismo, in cui l’Imperatore giocava un ruolo centrale in quanto discendente diretto di Amaterasu, la divinità solare.

Al rapido susseguirsi di cambiamenti di enorme portata, i giapponesi reagirono con la filosofia dell’auto-aiuto e con il darwinismo sociale di Spencer, che venne addirittura consultato dal governo: in questa epoca di tumulti il singolo individuo era abbandonato a se stesso e soltanto affinando diligentemente le proprie capacità poteva ritagliarsi uno spazio all’interno della società. Il governo Meiji fece proprie queste spinte individuali e cercò di incanalarle verso un obiettivo comune: la nascita di una nazione forte, ed è in questo preciso momento storico che il nazionalismo giapponese “moderno” vede la luce, quello stesso nazionalismo che nel secolo successivo porterà ad indicibili brutalità. Il Tenno, l’imperatore, divenne nuovamente il fulcro intorno a costruire questa nuova nazione, forte abbastanza da trattare alla pari con gli occidentali.

L’Imperatore Meiji nel 1880

Il modo migliore per condizionare l’opinione pubblica e inculcare determinati valori nella testa delle masse è, oltre alla propaganda, il controllo dell’istruzione: nel 1872 venne proclamato l’obiettivo dell’istruzione universale e già nel 1879 quasi due terzi dei ragazzi ed un quarto delle ragazze avevano ricevuto una qualche forma di istruzione. All’epoca, buona parte dei libri di testo erano traduzioni di scritti occidentali e in quanto tali traboccavano di idee come l’egualitarismo ed i diritti individuali. Per evitare la diffusione di concetti che potevano minare alla base i valori tradizionali giapponesi, lo Stato iniziò ad esercitare un controllo sempre più stringente sull’educazione e sugli stessi libri di testo. Le nuove edizioni, realizzate ex novo da autori nipponici approvati, veicolavano principi morali che si basavano sui valori confuciani e shintoisti: i libri di testo e le aule scolastiche divennero strumenti di indottrinamento. In questo senso il Rescritto imperiale sull’educazione del 1890 getta le basi di quella che sarà l’ideologia giapponese per il mezzo secolo successivo: l’imperatore, padre benevolo di ogni suddito, è identificato con lo Stato; dovere di ogni suddito/figlio è obbedire docilmente al proprio genitore per il bene della Nazione/Famiglia.

Promulgazione della Costituzione Meiji

La vecchia Costituzione del 1868 venne sostituita l’11 febbraio 1889 dalla più famosa e più seria Costituzione Meiji. Il Consiglio si divise tra i sostenitori di un documento di stampo liberale, sul modello della Costituzione britannica, e tra i sostenitori di un documento più autoritario, ispirato al mondo tedesco. A spuntarla fu infine Ito Hirobumi che redasse un nuovo documento sul modello della Costituzione prussiana, grazie anche all’aiuto di diversi consiglieri tedeschi. La data in cui venne promulgato il documento costituzionale non fu scelta a caso: l’11 febbraio, infatti, è l’anniversario della fondazione dello Stato giapponese che, almeno secondo il Nihon Shoki, avvenne nel 660 a.C. La legge fondamentale dello Stato fu presentata come un dono dell’Imperatore al suo popolo e sanciva l’immutabile potere sovrano del Tenno in virtù della sua discendenza divina. Sotto questa patina, tuttavia, il potere imperiale aveva importanti limitazioni: tutti i decreti imperiali, infatti, dovevano essere controfirmati da un ministro.

Riunione della Dieta

La nuova Costituzione prevedeva una Dieta bicamerale, divisa in Camera dei Pari, costituita da nobili di rango elevato e alcuni membri eletti, e in Camera dei Rappresentanti, i cui membri erano tutti eletti. Il diritto di voto, tuttavia, era estremamente limitato, in quanto concesso soltanto a chi versava almeno 15 yen di tasse all’anno, ovvero meno del 2% della popolazione giapponese. La stessa Dieta aveva ben poco potere, in quanto i ministri rispondevano direttamente al Tenno, così come le forze armate. Alla popolazione furono concessi alcuni diritti, la cui validità effettiva era limitata dall’ambigua specificazione «entro limiti tali da non pregiudicare la pace e l’ordine». Pur essendo un passo verso la democrazia, la Costituzione Meiji costruì un assetto istituzionale che fu alla base degli eventi del secolo successivo.

BIBLIOGRAFIA

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P. Beonio-Brocchieri, Storia del Giappone, Milano, Arnoldo Mondadori, 1996

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R. H. P. Mason, J. G. Caiger, A History of Japan, Rutland, Tuttle Publishing, 1997

Il commodoro Perry e la fine dello Shogunato

I vari han (feudi) durante lo shogunato Tokugawa

L’arrivo delle “navi nere” del commodoro Perry nella baia di Edo – l’attuale Tokyo – fu un evento di portata storica per il Giappone, in quanto diede il via ad una catena di eventi che nel giro di pochi anni portò alla caduta dello shogunato e alla restaurazione del potere imperiale. La storiografia giapponese chiama questo periodo “bakumatsu

Sin dal 1641 i Tokugawa imposero al Sol Levante la politica del sakoku – letteralmente stato chiuso o blindato – al fine di impedire che influenze esterne potessero avere effetti negativi sulla stabilità del paese. Di fatto agli stranieri venne proibito l’accesso all’arcipelago, mentre ai giapponesi veniva proibito di lasciarlo, pena la morte. Unica eccezione fu l’apertura del porto di Nagasaki ai soli mercanti cinesi ed olandesi.

Dopo due secoli di politica isolazionista, il Giappone versava in un grave stato di stagnazione economica, le cui conseguenze erano pagate soprattutto dalle fasce più deboli della popolazione, tanto nelle campagne, dove sempre più frequentemente scoppiavano vere e proprie insurrezioni armate, quanto nei centri urbani. L’isolamento, pur permettendo lo sviluppo di una cultura autoctona unica nel suo genere, aveva inoltre lasciato il paese in un grave stato di arretratezza tecnologica nei confronti dell’Occidente, tanto che la sempre più massiccia presenza europea in Asia Orientale iniziò ad essere percepita con crescente apprensione, sfociando talvolta in autentico timore. Non è un caso, infatti, che in risposta ad un tentativo della Russia, ormai padrona della Siberia e affacciata sul Pacifico, di stabilire rapporti commerciali con il Giappone, lo shogunato rispose con la colonizzazione di Ezo – l’attuale Hokkaido – che fino a quel momento era sottoposto ad una blanda influenza del clan Matsumae che si limitava a commerciare con la popolazione locale, gli Ainu (1792).

Aizawa Seishisai

In ambiente intellettuale iniziarono a svilupparsi diverse voci critiche, la più importante delle quali fu sicuramente quella di Aizawa Seishisai che nel 1825 pubblicò un’opera destinata a diventare uno dei fondamenti per lo sviluppo dell’identità nazionale nipponica, intitolata Shinron (Nuove Tesi). Nel volume egli formulò il concetto di kokutai – sistema nazionale – contrapposto alla frammentazione feudale, esaltando la figura del ruolo dell’Imperatore, all’epoca poco più che una eterea presenza marginale rinchiusa nel palazzo imperiale di Kyoto, e condannando ogni dottrina straniera. Infine concepì il confronto con l’Occidente una occasione storica, ossia la spinta necessaria per un rinnovamento morale del Giappone che avrebbe portato alla nascita di una solida identità nazionale. Rinnovamento morale che si sarebbe inevitabilmente basato sugli antichi miti shinto e di conseguenza sulla tradizione imperiale.

L’incapacità dello shogunato di attuare una politica di risanamento economico, esasperata dal fallimentare tentativo di Mizuno Tadakuni, spinse diversi signori feudali ad agire in autonomia per risanare i propri bilanci. Il clan Mori di Choshu, ad esempio, puntarono all’aumento della produttività agricola, al contenimento delle spese e al miglioramento della propria rete commerciale in modo da reinvestire i proventi nell’acquisto di equipaggiamento occidentale. Anche gli Shimazu di Satsuma puntarono sull’attività commerciale, forti del monopolio esercitato sulla produzione dello zucchero  e del protettorato istituito sul regno delle Ryukyu – l’arcipelago di cui fa parte l’isola di Okinawa – utilizzato per aggirare le restrizioni del sakoku.

Il rinnovato interesse russo si concretizzò in una nuova richiesta nel 1804 che ebbe lo stesso esito di quella precedente, mentre vascelli inglesi comparvero sempre più frequentemente al largo delle coste nipponiche, almeno finchè l’attenzione britannica non  venne assorbita dalla Cina, dove nel 1839 sarebbe scoppiata la prima guerra dell’oppio. L’indebolimento cinese fu un vero e proprio shock per l’ambiente intellettuale giapponese, in quanto metteva in discussione il primato culturale ed il prestigio del Celeste Impero, minando alla radice il suo ruolo e la sua influenza sull’intera Asia Orientale. Il risultato fu la fine di una certa sudditanza psicologica che stimolò un processo di emancipazione dell’identità giapponese, portando alla luce l’aspirazione di garantirsi un ruolo meno marginale nel mondo. Questo processo, unito alle teorie formulate nello Shinron, giocò un ruolo fondamentale nella creazione dell’identità del Giappone moderno e fu alla base della politica estera del “nuovo Giappone” nei decenni seguenti, ma di questo parlerò in un altro post.

Dall’altra parte del Pacifico, intanto, la corsa alla frontiera aveva portato alla creazione dello stato della California (1850), portando gli Stati Uniti ad affacciarsi sulla West Coast, mentre il fulmineo sviluppo di San Francisco, dovuto in gran parte alla corsa all’oro, dotò gli USA di un grande porto proiettato verso l’Asia ed i porti cinesi. Fu così che il presidente americano Millard Fillmore incaricò il commodoro Perry di salpare alla volta del Giappone con l’ordine di presentare al governo nipponico la richiesta di apertura di pacifiche relazioni diplomatiche, l’apertura dei porti giapponesi alla navi statunitensi dirette in Cina ed infine un accordo commerciale. L’8 luglio 1853 la flotta di Perry, composta da quattro moderne imbarcazioni da guerra, gettò l’ancora nella baia di Edo. Interpretando a modo suo le direttive presidenziali, Perry usò termini a dir poco perentori, quasi da ultimatum, con i rappresentanti dello shogun, aggiungendo che sarebbe tornato l’anno successivo per conoscere la risposta.

Le “navi nere” in una stampa giapponese dell’epoca.

L’arrivo delle “navi nere” accelerò il processo di sgretolamento del potere shogunale, dato che palesò tanto l’incapacità del governo di Edo di rivedere la propria politica isolazionista e di ritagliare un nuovo ruolo al Giappone nel “sistema mondo”, quanto la sua debolezza. Anzichè prendere di petto la situazione, lo shogun preferì sottoporre le richieste americane al vaglio del Consiglio degli Anziani e di tutti i feudatari: la mancanza di unanimità portò ad una frattura, che col tempo diventò insanabile, tra i fautori della resistenza armata ad oltranza e tra chi, spaventato dagli eventi cinesi, era disposto a fare alcune concessioni. Nel tentativo di ricomporre la frattura, il capo del Consiglio degli Anziani propose una soluzione di compromesso che evitava il conflitto armato attraverso alcune concessioni, ma rifiutava l’accordo commerciale. Il trattato di Kanagawa (1854) sanciva l’apertura dei porti di Hakodate e Shimoda al rifornimento delle navi americane e l’invio di un console statunitense nell’ultima località. Analoghi trattati vennero firmati successivamente anche con le altre potenze europee. L’impianto del sakoku era ormai a pezzi e con esso il prestigio dei Tokugawa, tanto che il consenso attorno alla figura imperiale aumentò sensibilmente.

Stampa giapponese che raffigura il sentimento del sonno-joi

Non paghi di quelle che ritenevano aperture insufficienti, i rappresentanti delle potenze occidentali, specialmente il console americano, iniziarono una martellante campagna di pressione per ottenere nuove e più consistenti concessioni. A differenza di quanto accaduto soltanto un paio di anni prima, i daimyo si rivelarono molto più concilianti e consci della necessità di rapporti commerciali con l’estero, pur non smussando la propria ostilità nei confronti degli occidentali, tanto da rifiutare in blocco l’apertura di nuovi porti e l’idea di trasferire le sedi diplomatiche a Edo. Particolarmente critici erano i feudatari dell’ovest (Satsuma, Choshu, Tosa, Hizen, etc.), tradizionali avversari dei Tokugawa sin dai tempi di Sekigahara, ben consapevoli del malcontento che la presenza degli stranieri provocava nella popolazione, specialmente nei samurai più giovani. Fortemente influenzati dal fermento intellettuale di cui abbiamo parlato sopra, è proprio tra le loro fila che emerge l’idea dell’Imperatore come fulcro dell’onore nazionale e non è certo un caso che proprio dalla corte di Kyoto giunsero voci aspramente critiche nei confronti dell’operato del governo di Edo. A complicare ulteriormente una situazione di per sè già complessa, giunse la morte senza eredi di Tokugawa Iesada, che aprì una crisi dinastica tra due rami della famiglia. Ad uscirne vittorioso fu Tokugawa Iemochi il quale decise, come primo atto da nuovo shogun, di concludere le trattative con gli americani accettando ogni loro richiesta, senza interpellare preventivamente i feudatari e la corte imperiale.

Il “Trattato di amicizia e commercio con gli Stati Uniti”, firmato il 29 luglio 1858, fu il primo di quelli che passarono alla Storia come “trattati ineguali”. Ineguali perchè oltre alla concessione di nuovi scali commerciali e del diritto per gli stranieri di risiedere a Edo e nelle località portuali, prevedevano clausole che non garantivano la minima reciprocità di diritti tra le due parti: la limitazione dei dazi doganali sulle merci di importazione impediva di fatto ogni politica protezionista a difesa della debole economia nipponica, mentre la concessione del diritto di extra-territorialità agli occidentali residenti li sottraeva alla giurisdizione giapponese, risultando in una limitazione della sovranità.

Le conseguenze dei trattati si abbatterono come uno tsunami sull’economia giapponese. Le grandi case commerciali si videro costrette a fronteggiare la concorrenza delle compagnie straniere senza le tutele di cui avevano goduto fino a quel momento, mentre le imprese tradizionali che operavano su scala artigianale dovettero affrontare l’importazione di manufatti industriali; l’aumento del costo del riso, poi, andò a colpire tutti coloro che avevano uno stipendio fisso.

Hijikata Toshizo, il vicecomandante dello Shinsengumi

La firma dei trattati fu la pietra tombale sull’istituzione dello shogunato. Come era possibile, infatti, che il protettore militare del Giappone cedesse ai barbari senza nemmeno accennare un minimo di resistenza? Il malcontento crebbe a dismisura e a partire dal 1860 iniziò a manifestarsi sotto forma di una vera e propria campagna di terrorismo politico nei confronti dei sostenitori dello Shogun. Ad agire erano soprattutto esponenti di rango medio-basso della casta dei samurai, i cosiddetti shishi o uomini audaci, che ben presto andarono a confluire nel movimento “sonno-joi” – “onore all’Imperatore, fuori i barbari” – che si radicò profondamente nei feudi dell’ovest, concentrati nell’estrema punta occidentale dell’Honshu, nei Kyushu e nello Shikoku. Ben presto i sonno-joi iniziarono a colpire gli interessi economici occidentali, con incendi di magazzini e di imbarcazioni, arrivando a compiere attacchi xenofobi a danno dei singoli cittadini stranieri. Per contrastarli lo shogunato creò un corpo scelto chiamato  Shinsengumi che iniziò una lotta senza quartiere contro gli shishi, una lotta combattuta nei vicoli bui di Kyoto e di Edo: il Giappone era scivolato quasi inconsapevolmente in una nuova guerra civile a bassa intensità.

Stampa giapponese che raffigura la chiusura dello stretto di Shimonoseki

A gettare ulteriore benzina sul fuoco, e a far deflagrare irrimediabilmente la situazione, ci pensò l’Imperatore Komei in persona che, interrompendo una secolare tradizione di non ingerenza nella gestione degli affari di stato, l’11 marzo del 1863 ordinò allo Shogun di espellere tutti i barbari dal Giappone entro i due mesi successivi. Lo shogunato non prese nemmeno in considerazione l’ordine, limitandosi ad ignorarlo, ma altrettanto non fecero i daimyo dell’ovest. Pochi giorni dopo la scadenza dell’ultimatum, infatti, il signore del dominio di Choshu diede ordine di aprire il fuoco su tutte le navi occidentali in transito attraverso lo stretto di Shimonoseki, il braccio di mare che separa le isole di Kyushu e di Honshu.

Soldati europei in una batteria occupata a Shimonoseki

Come rappresaglia una flottiglia americana compì una sortita nello stretto cannoneggiando le postazioni nipponiche, ironicamente dotate anche di artiglieria di fabbricazione statunitense, e affondando alcune imbarcazioni. Quasi contemporaneamente una squadra navale inglese bombardò la città di Kagoshima, capitale del dominio di Satsuma, in risposta all’uccisione di un connazionale avvenuta l’anno precedente. Entrambi gli episodi possono essere considerati esempi da manuale di “diplomazia con le cannoniere”, ossia la tendenza da parte delle potenze occidentali di minacciare o di ricorrere all’uso della forza militare per ottenere accordi e concessioni qualora i canali diplomatici tradizionali non avessero raggiunto lo scopo. Se ciò funzionò a Satsuma, tanto che fu presto raggiunto un accordo con gli inglesi per il pagamento di un adeguato risarcimento, per riaprire lo stretto di Shimonoseki, invece, fu necessario organizzare una spedizione navale in grande stile nel settembre del 1864. Come compensazione gli occidentali pretesero dallo shogunato ben tre milioni di dollari dell’epoca, una quantità di denaro sufficiente ad allestire una piccola flotta di battelli a vapore, e di fronte alla mancanza di liquidità del governo di Edo ottennero l’apertura di un nuovo porto – l’attuale Kobe – e l’abbassamento dei dazi doganali al 5%.

Carta del Giappone in cui sono rappresentati alleati ed avversari dello shogunato

La campagna di Shimonoseki dimostrò ai feudatari dell’ovest l’impossibilità di un confronto militare con le potenze straniere, spingendoli a varare un ambizioso piano di ammodernamento delle proprie forze armate. Lo shogunato, invece, ne uscì ancora una volta umiliato, tanto che scoppiarono diverse ribellioni, la principale delle quali riguardò proprio il dominio di Choshu. L’invio di una spedizione punitiva nel tardo 1864 si risolse in un nulla di fatto grazie alla mediazione di Saigo Takamori, uno dei comandanti delle forze shogunali e samurai al servizio del feudo di Satsuma. I Mori di Choshu non sembravano minimamente intenzionati ad ammainare la bandiera della rivolta, spingendo il governo centrale ad inviare una seconda spedizione punitiva, molto più consistente rispetto alla precedente, nel corso del 1866. Nonostante la grande inferiorità numerica, i ribelli, forti dell’appoggio di Satsuma, Tosa e altri feudi minori, inflissero una cocente sconfitta alle forze governative, grazie soprattutto al vasto impiego di armamenti moderni. Il fallimento della spedizione punitiva fu un avvenimento epocale, in quanto mai in precedenza un esercito dei Tokugawa era stato sconfitto sul campo da un daimyo in rivolta: lo shogunato ormai era un cadavere. La vittoria delle forze ribelli rafforzò enormemente lo schieramento filo imperiale, spingendo la Gran Bretagna ad appoggiare i feudi occidentali, anche in contrapposizione alla Francia che invece aveva scelto il fronte shogunale come partner commerciale.

Tokugawa Yoshinobu, l’ultimo shogun

L’uscita di scena in rapida successione dello Shogun e dell’Imperatore, deceduti rispettivamente nel novembre del 1866 e nel gennaio dell’anno successivo, diede il via ad un a serie di eventi che portarono alla nascita del Giappone moderno. Il nuovo Shogun, Tokugawa Yoshinobu, nel tentativo di ricomporre la frattura che attraversava il paese, provò ad organizzare un nuovo assetto politico – chiamato kobu gattai -attraverso la condivisione del potere con il nuovo Imperatore Mutsuhito, conosciuto come Meiji, senza però avere successo. Nell’ottobre del 1867 il daimyo di Tosa inviò a Edo un memoriale in cui si chiedeva allo Shogun di dimettersi e di rimettere all’Imperatore i poteri, che sarebbero stati esercitati da un consiglio di feudatari, in cambio del mantenimento delle proprietà terriere. Il mese successivo lo Shogun, volendo evitare lo scoppio di una guerra civile, rassegnò le dimissioni. Le forze della coalizione Satsuma-Choshu, che ormai avevano assunto le sembianze di un vero e proprio esercito imperiale, iniziarono a marciare verso Kyoto, dove giunsero all’inizio del 1868. Il 3 gennaio, guidate da Saigo Takamori, le forze della coalizione occuparono il palazzo imperiale e davanti ad un gruppo di cortigiani e feudatari venne letto un proclama che annunciava la restaurazione del potere imperiale. Dopo 250 anni il sipario della Storia scendeva sullo shogunato Tokugawa, mentre all’ombra del Fuji sbocciava un nuovo Giappone, ma di questo parleremo un’altra volta.

BIBLIOGRAFIA

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R. Caroli, F. Gatti, Storia del Giappone, Roma-Bari, Gius. Laterza & Figli, 2004

R. H. P. Mason, J. G. Caiger, A History of Japan, Rutland, Tuttle Publishing, 1997

 

L’Italia del Quattrocento e la pace di Lodi

Il centro-nord nel 1402. In verde il Ducato di Milano alla morte di Gian Galeazzo.
(Wikipedia)

La pace di Lodi, firmata nella città lombarda il 9 aprile 1454 dai rappresentanti delle maggiori potenze italiane dell’epoca, è un evento chiave per la storia medievale della penisola ed ebbe, come vedremo in questo altro post, pesanti conseguenze per i decenni ed i secoli a venire.

Come si può notare osservando le tavole di un qualsiasi atlante storico, la situazione geopolitica italiana all’inizio del Quattrocento è estremamente differente da quella attuale. Il centro-Sud presenta un aspetto più omogeneo e stabile – tale assetto si manterrà quasi inalterato per altri quattro secoli – con lo Stato della Chiesa, ancora scosso dallo Scisma d’Occidente che verrà ricomposto soltanto nel 1418 con il Concilio di Costanza, a governare sul Lazio, sull’Umbria e su parte delle Marche,  i due possedimenti aragonesi costituiti dal Regno di Sardegna e dal Regno di Sicilia, ed infine il regno di Napoli in mano angioina . Il centro-nord, invece, appare letteralmente balcanizzato, frammentato in decine di stati e staterelli che rappresentano il retaggio dell’epoca comunale prima e delle signorie dopo. Particolarmente frammentate erano le Marche e la Romagna che, pur essendo nominalmente sottoposte all’autorità papale ed inquadrate nella Provincia Romandiolae, erano suddivise in una miriade di potentati, spesso poco più grandi di un Comune medievale, de facto indipendenti.  La repubblica di Venezia occupava parte del Veneto, dell’Istria e della Dalmazia, mentre il Friuli era sottoposto all’autorità del Patriarcato di Aquileia. Ad ovest, invece, il Piemonte era diviso nei possedimenti dei Savoia che, attraverso due rami della famiglia, governavano sull’omonima contea e sul ducato di Torino – successivamente riuniti da Amedeo VIII nel 1416 – e nei marchesati di Saluzzo e Monferrato. Scendendo verso sud la Liguria era governata – sotto la fortissima influenza di Milano – dalla Repubblica di Genova, che amministrava anche la Corsica, mentre la Toscana era occupata per la maggior parte dalla Repubblica di Firenze, con a margine la piccola Repubblica di Lucca ed i possedimenti dei Malaspina sulla Lunigiana e nella zona apuana.  Infine a Mantova si trovavano i Gonzaga, mentre a Ferrara e Modena governavano gli Estensi.

Lo stato più potente dell’epoca era senza dubbio il Ducato di Milano che con Gian Galeazzo Visconti raggiunse la sua massima espansione territoriale, con ampi possedimenti in Piemonte, Veneto, Bologna e addirittura Toscana. Tuttavia, come spesso accade, il momento di massimo splendore coincise con l’inizio di un inarrestabile declino. Alla morte di Gian Galeazzo (1402) i domini viscontei iniziarono a cadere letteralmente a pezzi, a causa di continui intrighi di palazzo e dell’inattitudine dei suoi successori. In Veneto, ad esempio, la Repubblica di Venezia riuscì a prendere possesso di Verona e Padova rispettivamente nel 1402 e 1405, mentre in Toscana Siena riottenne la propria autonomia già nel 1404, mentre due anni dopo Pisa e buona parte della costiera tirrenica vennero inglobate da Firenze, ormai divenuta una potenza in grado di proiettarsi anche fuori dalla regione.

Filippo Maria Visconti, Duca di Milano
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L’occasione si presentò nel 1423, con la  morte del signore di Forlì. Costui nominò Filippo Maria Visconti, signore di Milano, come tutore di suo figlio ed erede, all’epoca ancora minorenne. Tale decisione fu contestata dalla vedova, figlia del signore di Imola, che prese il potere assumendo la reggenza per conto del figlio. Quella che in apparenza può sembrare l’ennesima banale scaramuccia dinastica tra piccoli potentati, degenerò rapidamente in un trentennio di lotte sanguinose, passate alla storia come Guerre di Lombardia, che coinvolsero quasi tutti gli stati italiani. I forlivesi, per nulla contenti di farsi governare da una “forestiera”, si ribellarono alla vedova del loro defunto signore, costringendola a riparare alla corte paterna, e chiesero aiuto al Ducato di Milano. Firenze vide in questo una nuova puntata espansionistica dei Visconti – e di conseguenza una minaccia ai propri interessi – e dichiarò guerra a Milano inviando un esercito in Romagna. La campagna si risolse in un disastro, tanto che la stessa Imola cadde nelle mani dei capitani di ventura viscontei, mentre altre sconfitte, su tutte quella di Zagonara, costrinsero i fiorentini a chiedere aiuto agli aragonesi di Napoli. I milanesi, dal canto loro, penetrarono in Toscana, dove vennero sonoramente sconfitti. Temendo un rafforzamento del potere dei Visconti, Venezia decise di allearsi con Firenze e nel 1426 l’esercito della Serenissima guidato dal Carmagnola riuscì ad espugnare Brescia. Il Duca di Milano, impegnato su troppi fronti, si vide costretto a chiedere l’intercessione papale per aprire le trattative di pace. In modo del tutto disinteressato, il Pontefice si fece consegnare dal Visconti le città di Forlì ed Imola, ristabilendo la presenza pontificia in Romagna, prima di iniziare i sondaggi diplomatici. Il trattato di pace – firmato alla fine del 1426 – stabiliva, tra le altre cose, il passaggio di Brescia ai veneziani e la restituzione al Ducato di Milano dei territori liguri occupati dai fiorentini.

Pace fatta, amici come prima. Invece no. Il Visconti, istigato dall’Imperatore Sigismondo del Lussemburgo, si rifiutò di ratificare il documento e nella primavera del 1427 la guerra tornò ad infuriare. Nonostante alcuni successi iniziali, i milanesi furono presto travolti dalle truppe veneziane, mentre l’attacco congiunto di Amedeo VIII di Savoia e del Marchese del Monferrato rendeva vacillante il confine occidentale del Ducato. La vittoria del Carmagnola a Maclodio costrinse il Visconti a chiedere una nuova pace che venne firmata nel 1428. Il nuovo trattato, oltre a confermare il dominio della Serenissima su Brescia, imponeva un governatore veneto anche a Bergamo e Crema. Firenze, invece, vide riconfermato il possesso di tutte le piazzeforti perse durante il conflitto.

Francesco Sforza
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La pace sembra essere nuovamente nell’aria, se non fosse che i fiorentini, in preda ad uno di quegli attacchi di campanilismo violento squisitamente toscano, prima stroncarono una rivolta a Volterra e poi volsero l’esercito verso Lucca, colpevole di aver appoggiato i Visconti nel conflitto appena concluso. I lucchesi disperati chiesero aiuto a Milano ed è qui che inizia la tragicommedia. Il signore di Milano era vincolato dal trattato che gli imponeva di non intromettersi negli affari di Firenze: come fece, quindi, ad aiutare gli alleati? La soluzione escogitata da Filippo Maria Visconti fu quella di finanziare di nascosto un esercito di ventura guidato dal celebre Francesco Sforza, in modo da mantenere una parvenza di estraneità alla faccenda. Lo Sforza arrivò a Lucca, sconfisse i fiorentini ed estorse loro la favolosa cifra di 50.000 ducati, quindi levò le tende abbandonando i lucchesi alla vendetta di Firenze. Immaginate la faccia del Visconti che a questo punto si vide costretto a chiedere aiuto ai genovesi, al momento subordinati a Milano, i quali inviarono un esercito di soccorso che sconfisse gli assedianti sulle rive del Serchio nel dicembre del 1430.

Paolo Uccello, La Battaglia di San Romano
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Con i fiorentini a leccarsi le ferite, cosa potrebbe mai impedire alla pace di sbocciare? L’intervento genovese preoccupò i veneziani che vi lessero un tentativo di espansione dell’unica grande potenza in grado di competere per il controllo delle rotte commerciali nel Mediterraneo. Di conseguenza il leone di San Marco chiuse il libro ed impugnò la spada, riaprendo di fatto le ostilità. Il 1431 iniziò malissimo per i veneziani, che vennero sconfitti dallo Sforza a Soncino e a Cremona. A peggiorare ulteriormente la situazione, i Savoia si unirono ai milanesi avventandosi sul Monferrato, mentre l’Imperatore Sigismondo si schierò apertamente a favore di Milano, scatenando la sua cavalleria nella pianura veneta. L’unica vittoria per la Serenissima venne dal mare, quando la flotta veneziana sconfisse quella genovese al largo di San Fruttuoso. Nel frattempo il Carmagnola, comandante in capo delle truppe venete, iniziò ad attirare su di se sospetti a causa della sua condotta. Accusato di essere stato corrotto dai Visconti, venne arrestato e decapitato per tradimento. In Toscana i fiorentini ebbero la meglio sui senesi, alleati di Milano, nella battaglia di San Romano, ma le sorti del conflitto vennero decise nella battaglia di Delebio nel tardo autunno del 1432, quando i milanesi travolsero le truppe della Serenissima. Il trattato di pace, firmato l’anno successivo, fu relativamente clemente, in quanto riconfermava lo status quo. Le ripetute sconfitte, tuttavia, minarono il prestigio di Venezia, dove il doge Francesco Foscari fu quasi costretto ad abdicare, e di Firenze, dove il popolo si ribellò costringendo Cosimo de Medici all’esilio. Il Monferrato, invece, divenne uno stato satellite del Ducato di Savoia.

Alfonso V d’Aragona
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Se a Nord si era raggiunto un equilibrio precario, le cupe vampe della guerra divamparono nuovamente al Sud, precisamente nel Regno di Napoli, alla morte di Giovanna II di Angiò che riaccese il vecchio conflitto tra Aragonesi ed Angioini. La defunta regina aveva nominato il Duca di Calabria Renato d’Angiò come suo erede, ma la mancanza dell’approvazione papale spinse Alfonso V di Aragona a far valere i propri diritti sbarcando con un esercito in Campania. Gli ex nemici di un tempo fecero fronte comune e così Milano, Venezia e Firenze si trovarono insieme a supportare il casato d’Angiò. A sostenere il peso maggiore di questo conflitto fu Genova che, impegnata in una lunga disputa per il controllo della Sardegna proprio con gli Aragonesi, temeva un rafforzamento dei propri rivali. Una battaglia navale al largo di Ponza si risolse in una catastrofica sconfitta per Alfonso che, insieme ai suoi fratelli, cadde nelle mani dei genovesi che, successivamente, lo consegnarono a Filippo Maria Visconti. Il Duca di Milano, probabilmente preoccupato per un consolidamento della presenza francese in Italia, liberò Alfonso ed i suoi fratelli senza chiedere alcun riscatto, riconoscendolo a tutti gli effetti come re di Napoli, ma si schierò al suo fianco abbandonando i suoi ex alleati. I genovesi, che nell’impresa avevano investito enormi risorse, non la presero molto bene: si ribellarono ai milanesi e, smarcandosi da ogni vincolo di tutela, si resero indipendenti a tutti gli effetti. Forte dell’appoggio visconteo, il re d’Aragona sbarcò nuovamente nel Regno di Napoli (1436).

Pieter Paul Ruben, La Battaglia di Anghiari. Copia dell’originale, andato perduto, opera di Leonardo
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Il voltafaccia del Visconti portò alla creazione di una nuova lega antiviscontea cui aderirono Firenze, Venezia, il Papato e anche Francesco Sforza che divenne intimo amico di Cosimo de Medici, rientrato nel frattempo nella città del giglio dove era tornato al governo. La nuova fase del conflitto si risolse in una serie di disastrose sconfitte per i milanesi che culminarono nel 1440 con la sconfitta di Soncino contro i veneziani e di Anghiari contro i fiorentini. Il Visconti, quindi, decise di imbonirsi lo Sforza promettendogli in moglie la figlia Bianca Maria in cambio della mediazione con Venezia. Nel 1441 venne firmata la pace di Cremona con la quale Milano riconosceva il dominio veneziano su Ravenna, quello fiorentino sul Casentino, l’indipendenza di Genova e la fine delle intromissioni lombarde in Toscana e Romagna. Nella stessa occasione venne celebrato lo sposalizio tra la figlia del Duca di Milano e lo Sforza, che così entrò a pieno titolo in linea di successione. Nello stesso anno, infine, Alfonso V schiacciò le ultime resistenze angioine: il dominio aragonese sul Meridione era ormai completo.

La morte senza eredi diretti di Filippo Maria Visconti (1447) getta il Ducato di Milano nel caos. Alcuni nobili locali e giuristi dell’università di Pavia proclamarono la nascita dell’Aurea Repubblica Ambrosiana, mentre la maggior parte delle città lombarde proclamò l’indipendenza, come Pavia, mentre Lodi e Piacenza si sottomisero a Venezia. I repubblicani si videro costretti a chiedere aiuto allo Sforza che nel giro di un anno ridusse all’obbedienza i centri ribelli e nel 1448 inflisse una devastante sconfitta ai veneziani nella battaglia di Caravaggio.  Qui, con un voltafaccia clamoroso, firmò un accordo con la Serenissima: i veneziani affidavano allo Sforza il comando della guerra in Lombardia in cambio del mantenimento del confine sull’Adda, garantendo al capitano di ventura l’appoggio di Venezia nella conquista di Milano. I repubblicani furono presi dal panico e, anticipando i tempi, chiesero aiuto ai francesi che inviarono un esercito di mercenari in loro soccorso.

Cosimo de Medici
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Tra alterne vicende e continui cambi di schieramento – decisamente troppi per essere raccontati su un blog – lo Sforza riuscì infine ad entrare nel capoluogo lombardo il 25 marzo 1450 e tra le acclamazioni della folla si proclamò nuovo Duca. Venezia nel frattempo non aveva abbandonato le sue mire espansionistiche in Lombardia e questo preoccupò enormemente Cosimo de Medici. Costui, oltre ad avere ottimi rapporti personali con lo Sforza, aveva consistenti interessi economici a Milano attraverso il Banco Medici. Forte dell’appoggio popolare – la Serenissima aveva infatti stretto accordi con gli odiatissimi senesi – Cosimo potè voltare le spalle agli ex alleati veneti per schierarsi con Milano. Con Venezia si schierarono il regno di Napoli, l’Imperatore Federico III d’Asburgo ed i Savoia. Nonostante la vittoria milanese di Ghedi (1453), l’esito del conflitto venne deciso da eventi lontani.

Il 9 maggio dello stesso anno, infatti, l’esercito turco guidato dal sultano Maometto II riuscì a conquistare Costantinopoli, ponendo di fatto fine al millenario Impero bizantino. L’evento ebbe un’eco enorme in tutto il Mediterraneo: i Turchi iniziarono a fare paura. I timori erano particolarmente forti a Venezia, che aveva possedimenti ed interessi commerciali tanto nella penisola balcanica, quanto nel Mediterraneo orientale. Particolarmente scosso fu anche Papa Niccolò V che tentò invano di organizzare una nuova crociata e, con maggiore fortuna, di sedare le animosità tra i vari stati italiani. Dal canto loro i sovrani italiani si resero conto che l’espansionismo ottomano era un pericolo concreto e che in queste condizioni proseguire in una lotta fratricida sarebbe stato un suicidio. Si aprirono così delle trattative che culminarono nella firma della pace di Lodi.

L’Italia nel 1494. I confini ricalcano quasi inalterati quelli stabiliti nel 1454.
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Il trattato prevedeva il riconoscimento di Francesco Sforza come Duca di Milano, di Alfonso V come Re di Napoli e del fiume Adda come confine naturale tra Milano e Venezia. Inoltre, la presenza di un potente nemico esterno, portò alla nascita della Lega Italica, una alleanza difensiva tra i vari stati italiani. Il trattato, prevedendo l’integrità territoriale di tutti i firmatari e l’appoggio militare in caso di aggressioni esterne, congelò di fatto la situazione della penisola, mantenendo la frammentazione politica. Se ciò impedì l’accentramento del potere nelle mani di un singolo sovrano e la conseguente nascita di uno stato nazionale, analogamente a quanto stava accadendo in Inghilterra, Francia e Spagna, la pace di Lodi regalò all’Italia un quarantennio di pace – turbato soltanto da pochi eventi a carattere locale – che fu alla base di quell’enorme sviluppo culturale passato alla Storia come Rinascimento.

L’introduzione delle armi da fuoco in Giappone

Ashigaru mentre impugnano dei tanegashima

Analogamente a quanto accaduto in Europa qualche secolo prima, l’introduzione delle moderne armi da fuoco nel Giappone feudale ebbe un impatto epocale sulla conduzione della guerra e sulla stessa storia dell’arcipelago. Nonostante la vicinanza con la Cina, luogo dove nacque la polvere da sparo, e l’intenso scambio culturale e commerciale con essa, le armi da fuoco giunsero nel Sol Levante da molto più lontano, ovvero dalla colonia portoghese di Goa, in India. Ad onor del vero, dal Celeste Impero erano giunti in Giappone i cosiddetti “teppo“, letteralmente “bastoni di ferro”, delle rudimentali armi del tutto simili agli ingombranti archibugi europei del XV secolo, che tuttavia non ebbero mai un grande utilizzo, proprio a causa delle loro dimensioni e della difficoltà nell’utilizzo.

È il 1543 e l’arcipelago giapponese è sconvolto da quasi un secolo dalle violenze del Sengoku Jidai, l’età degli Stati Combattenti: lo shogunato Ashikaga che esercitava il potere sin dal 1336 è in una crisi irreversibile e non riesce più a tenere a bada i vari daimyo, i signori feudali, che iniziano a combattere tra di loro per ottenere la supremazia. Un giorno, una giunca cinese diretta ad Okinawa è costretta ad ormeggiare a Tanegashima, all’estremità settentrionale dell’arcipelago delle Ryukyu, per sfuggire ad una violenta tempesta. A bordo dell’imbarcazione vi è una compagnia di avventurieri portoghesi e tra il loro equipaggiamento fanno bella mostra di sè anche alcuni archibugi. Il signore dell’isola, Tanegashima Tokitaka, intuisce immediatamente le potenzialità di queste nuove armi e, non si sa se con le buone o con le cattive, riesce ad ottenerne alcuni esemplari che invia immediatamente al suo miglior fabbro, con l’intenzione di replicarle per equipaggiare il proprio esercito. Gli armaioli di Tanegashima, però, non riescono a replicare lo scodellino, la parte dell’arma in cui la polvere da sparo entra in contatto con la miccia accesa, generando così lo scoppio che lancia il proiettile fuori dalla canna dell’arma. Il problema verrà risolto soltanto l’anno successivo, quando i portoghesi torneranno sull’isola con un loro armaiolo da mettere al servizio del feudatario.

All’epoca l’isola di Tanegashima era un feudo vassallo del clan Shimazu, che dal castello di Hyuga controllava la parte meridionale del Kyushu, la più meridionale delle grandi isole che compongono l’arcipelago giapponese. Fu in virtù di questo legame di vassallaggio che gli Shimazu furono il primo grande clan ad entrare in possesso dei Tanegashima-teppo, gli archibugi di derivazione portoghese, e ad utilizzarli nel corso del vittorioso assedio del castello di Kijiki, nel 1549. Pur trattandosi di uno scontro piuttosto marginale, fu il primo impiego documentato di armi da fuoco moderne in Giappone. In breve tempo anche gli altri signori feudali iniziarono ad interessarsi a questo nuovo tipo di armamento e tra coloro che compresero fin da subito le potenzialità dell’archibugio vi fu il giovane Oda Nobunaga, che già nel 1550 impressionò i propri rivali facendo sfilare ben 500 archibugieri in formazione.

Ashigaru in posizione dietro a degli scudi di legno

Ben presto la corsa alle armi da fuoco assunse proporzioni colossali, tanto che nei 10 anni successivi vennero prodotti qualcosa come 300.000 archibugi. Gli armaioli nipponici, inoltre, riuscirono a migliorare ulteriormente il modello portoghese, sia attraverso la realizzazione di calibri più grandi e con maggior potere di penetrazione, sia con l’introduzione di una custodia laccata in grado di proteggere il meccanismo di sparo dall’acqua, rendendo di fatto possibile l’uso delle armi da fuoco anche sotto la pioggia. L’afflusso di un così massiccio numero di archibugi si riflesse inevitabilmente sui campi di battaglia. Fino a quel momento, infatti, il peso principale degli scontri era sostenuto dalla casta militare dei samurai che affrontandosi in una serie di duelli singoli determinava l’andamento della battaglia. A rimpolpare le fila degli eserciti vi era poi una massa informe di contadini coscritti, gli ashigaru, truppe armate alla leggera, poco addestrate, molto poco fedeli e che di fatto sopravvivevano grazie al saccheggio sistematico dei territori che attraversavano. Nell’ultimo periodo, inoltre, la cavalleria ebbe un ruolo crescente, soprattutto grazie alle innovazioni apportare dal clan Takeda, fino al punto di diventare padrona del campo di battaglia. L’arrivo dei Tanegashima-teppo rivoluzionò tutto questo. Pur essendo notevolmente lenti da caricare – un arciere poteva scoccare 15 dardi nel lasso di tempo necessario ad un archibugiere per ricaricare dopo aver sparato – erano estremamente facili ed intuitivi da utilizzare, tanto da richiedere un addestramento minimo, diventando così l’arma d’elezione della fanteria leggera. Di conseguenza il numero di ashigaru sul campo di battaglia aumentò vertiginosamente, portando alla dilatazione delle forze schierate e alla necessità di elaborare nuove tattiche per gestire le truppe al meglio. Lo stesso addestramento degli ashigaru migliorò notevolmente, trasformandoli da soldati dal morale scarso a formazioni disciplinate in grado di sostenere l’urto della battaglia. L’aumento del ruolo degli archibugieri sul campo di battaglia ebbe l’effetto opposto su quello dei samurai: le maestose armature e le katane dei seguaci del Bushido, la via del guerriero, nulla potevano contro le palle sparate in un mare di fiamme e fumo dalle armi portate dai nanban, i mercanti stranieri. L’unica minaccia per gli ashigaru era costituita dalla cavalleria.

Ritratto di Oda Nobunaga

Ancora nel 1572, sul campo innevato di Mikatagahara, la cavalleria dei Takeda fece scempio degli archibugieri di Tokugawa Ieyasu, travolgendoli con una carica a ranghi serrati mentre questi ricaricavano le loro armi dopo aver sparato una prima salva. Tokugawa, che aveva riposto ogni speranza di vittoria contro un nemico tre volte superiore proprio nei nuovi armamenti, subì una cocente sconfitta e si narra che riuscì a mettersi in salvo con soli cinque uomini. La supremazia della cavalleria sulla fanteria veniva nuovamente confermata con il sangue e nessun uomo sembrava essere in grado di metterla in discussione. Un uomo, certo, ma un demone? Da semplice strumento per impressionare nemici e alleati, i Tanegashima-teppo erano diventati, nelle mani di Oda Nobunaga, uno straordinario mezzo per imporre il proprio potere militare e, conseguentemente, perseguire il Tenka Fubu (letteralmente “una sola insegna militare sotto il cielo”, dove con Tenka si può intendere il Giappone) a scapito degli altri signori feudali. Per ironia della sorte anche i suoi più acerrimi nemici, gli Ikko-ikki, un gruppo eterogeneo di contadini, monaci guerrieri e piccola nobiltà decaduta che si opponeva al potere dei grandi feudatari, arrivando a controllare vaste aree dell’Honshu, si rivelarono estremamente abili nello sfruttare le nuove armi da fuoco. Nel corso del decennale conflitto che vide affrontarsi i due schieramenti, lo stesso Nobunaga fu vittima di quelle armi micidiali che tanto amava. A Nagashima, ad esempio, le raffiche degli Ikko-ikki inflissero enormi perdite all’esercito del clan Oda che, dopo un temporale improvviso, si ritrovò con oltre il 90% degli archibugi resi inservibili dall’acqua: fu per un soffio che la ritirata non si trasformò in una rotta disordinata sotto l’incalzante fuoco nemico.

Raffigurazione della battaglia di Nagashino

Il canto del cigno della cavalleria avvenne due anni dopo, nella piana ai piedi del castello di Nagashino, in una battaglia che vide confrontarsi il clan Takeda, maestri nell’arte della guerra a cavallo, ed il clan Oda. In questa occasione Nobunaga riuscì a schierare il favoloso numero di 3000 archibugi, una concentrazione di fuoco mai vista prima nel Sol Levante. Memore della sconfitta subita dal suo alleato Ieyasu a Mikatagahara, decise di schierare i suoi archibugieri disponendoli su tre file, in modo da garantire un fuoco costante, proteggendoli con un contingente di lancieri e palizzate di legno. Quando i Takeda lanciarono i loro cavalieri all’attacco, confidando in una facile vittoria, il loro impeto venne spezzato da un uragano di fuoco. Quale eresia! Nobili guerrieri macellati da poveri contadini illetterati, inaudito! Fu in tutto e per tutto una versione nipponica della carica francese a Crecy, 229 anni prima: il fiore della nobiltà francese trafitto da una miriade di frecce, i cronisti dell’epoca riferirono che il sole ne fu oscurato, scoccate da cinquemila arcieri gallesi al soldo del re inglese. Sebbene a Nagashino i combattimenti continuarono ad infuriare per ore, era ormai chiaro a tutti che una forza di ashigaru ben addestrata ed equipaggiata poteva dominare il campo di battaglia. Da questo momento in poi molti cavalieri decisero di iniziare a combattere appiedati, come normali samurai, mentre le unità di cavalleria si trasformarono da punte offensive da lanciare contro il fronte nemico per spezzarlo, a unità più leggere, utili ad aggirare i fianchi del nemico e a rastrellare gli avversari in fuga.

Le armi da fuoco giocarono un ruolo importante anche nell’epica battaglia di Sekigahara, del 21 ottobre 1600. Si trattò di uno scontro immane, che vide impegnati sul campo circa duecentomila uomini, una enormità per il Giappone dell’epoca, appartenenti a pressocché tutti i clan principali e a moltissimi clan minori. Si trattò dell’ultimo grande scontro del Sengoku Jidai e consacrò la vittoria di Tokugawa Ieyasu, il vecchio alleato di Oda Nobunaga, che diede vita allo shogunato Tokugawa che resse il paese fino alla Restaurazione Meiji del 1869.

La guerra di confine sovietico-giapponese e le conseguenze di Khalkhin Gol

Zhokov (a destra) in compagnia di altri due alti ufficiali

Sin dai tempi della guerra del 1904-05, l’Impero Russo e l’Impero del Giappone si trovarono in grave contrasto a causa di interessi contrastanti in Estremo Oriente, spesso arrivando alle vie di fatto. Tale situazione venne ereditata dall’Unione Sovietica che, durante gli anni ’30, si vide costretta a difendersi dalla crescente pressione nipponica che provocò una vera e propria guerra non dichiarata.

Le acquisizioni russe dopo i trattati ineguali

In realtà l’interesse russo per la regione del basso Amur e la Manciuria risale a prima del XX secolo. Già alla metà del secolo precedente, infatti, con il trattato di Aigun e altri accordi successivamente passati alla storia con il nome di “trattati ineguali”, il governo dello zar era riuscito a farsi cedere dalla Cina della dinastia Quing una enorme fascia di territorio lungo il corso dei fiumi Amur e Ussuri. Dal canto suo il Giappone aveva pretese sulla penisola coreana sin dai tempi delle spedizioni di Toyotomi Hideyoshi (XVI secolo), riuscendo ad ottenerne il controllo soltanto nel 1895 a seguito della prima guerra sino-giapponese. Il trattato di Shimonoseki, inoltre, assegnava al Giappone anche la penisola di Liaodong e l’importante scalo di Port Arthur. Non appena i termini del trattato divennero di dominio pubblico, però, la Russia, spalleggiata da Francia e Germania, costrinse i giapponesi a riconsegnare ai cinesi la penisola, in cambio di un consistente indennizzo, successivamente impiegato per l’acquisto di moderne navi da guerra in Inghilterra. Tuttavia i russi non rispettarono il patto ed occuparono immediatamente Port Arthur, causando notevole irritazione in Giappone e creando il casus belli per la guerra russo-giapponese che scoppiò un decennio dopo e si risolse con una clamorosa sconfitta per le forze zariste. Per ironia della sorte la flotta russa venne praticamente annientata nello stretto di Tsushima dalle moderne navi giapponese acquistate con i soldi della compensazione di un decennio prima. L’umiliazione subita costò alla Russia la parte meridionale dell’isola di Sakhalin, l’intera penisola di Liaodong e l’abbandono di ogni pretesa sulla Manciuria, oltre al riconoscimento della zona di influenza giapponese sulla Corea, che venne annessa nel 1910. Inoltre, a livello di politica interna, fu la scintilla che portò alla rivoluzione del 1905.

Il “barone pazzo” Roman von Ungern-Sternberg

Successivamente i giapponesi parteciparono con entusiasmo e con un largo spiegamento di truppe all’intervento alleato nella Russia dilaniata dalla guerra civile. Il 3 agosto 1918, infatti, occuparono Vladivostok con una divisione di fanteria, seguita in breve tempo da una seconda: per novembre in territorio russo si trovavano oltre 70.000 soldati nipponici guidati dal generale Otani che in seguito fu posto al comando di tutte le truppe straniere nell’Estremo Oriente russo. I giapponesi si rifiutarono di avventurarsi ad ovest del lago Bajkal, assicurando invece il controllo delle linee ferroviarie, di città e punti strategici. Per tutta la durata della guerra civile rifornirono di munizioni e finanziamenti due comandanti russi: il generale Gregorij Semenov, atamano dei cosacchi del Transbajkal, e il generale Ivan Kalmykov, atamano dei cosacchi dell’Ussuri; più tardi questo appoggio si sarebbe esteso al generale barone von Ungern-Sternberg in Mongolia (1). L’intervento nipponico, tuttavia, si rivelò fallimentare a causa delle enormi spese sostenute a fronte dell’impossibilità di ottenere risorse economiche, anche a causa della crescente pressione dei bolscevichi che sconfissero tutti i signori della guerra fantoccio al soldo del Sol Levante. Il 20 ottobre del 1922 i giapponesi evacuarono Vladivostok che venne occupata dai sovietici cinque giorni dopo, sancendo la fine della guerra civile.

Con il consolidamento dell’Unione Sovietica, gli interessi in Asia Centrale e in Manciuria si fecero più pressanti. L’attenzione sovietica era rivolta in particolar modo alla Transmanciuriana, una linea ferroviaria strategicamente rilevante che univa Vladivostok a Chita e che, attraversando il territorio della Manciuria, costituiva una notevole scorciatoia rispetto al tracciato tradizionale della Transiberiana. Tale ferrovia venne costruita ai tempi dello zar con capitali russi e la collaborazione della Cina dei Quing. Nel 1924, attraverso un protocollo segreto, i sovietici annullarono ogni trattato e convenzione inerente la linea, rimandando ogni decisione in merito ad una successiva conferenza da tenersi con rappresentanti del governo cinese. Nel frattempo, lasciando il governo cinese all’oscuro, presero contatto con il signore della guerra manciuriano Zhang Xueliang, offrendogli attraverso un accordo segreto un potere decisionale enorme sulla gestione della linea in cambio della protezione degli interessi sovietici nell’area: di fatto, lavorando nell’ombra, i sovietici si garantirono il totale controllo

Soldati sovietici in posa con bandiere cinesi catturate

della ferrovia. I cinesi provarono a riprendere il controllo della Transmanciuriana nel 1929, scatenando così un breve conflitto sino-sovietico: l’Armata Rossa piegò la resistenza del Kuomitang ed il governo cinese fu costretto a firmare il trattato di Khabarovsk che sanciva definitivamente lo status quo precedente al conflitto. I sovietici, inoltre, mostrarono notevole interesse per lo Xinjiang, la regione più occidentale dell’attuale Repubblica Popolare Cinese, abitata dagli Uiguri di fede islamica: Mosca, infatti, appoggiò militarmente ed economicamente Sheng Shicai, un signore della guerra locale che nei primi anni ’30 si ribellò al governo centrale e diede vita ad uno stato indipendente sulla carta, ma di fatto dipendente in tutto e per tutto dall’Unione Sovietica che infatti esercitava il vero controllo.

L’ingresso delle truppe giapponesi a Mukden

Ritornando in Manciura, il conflitto del 1929 aveva lasciato un vuoto di potere nella regione e i giapponesi decisero di approfittarne. Il 18 settembre del 1931, nei pressi di Mukden, un agente nipponico fece detonare della dinamite vicino al tracciato di una ferrovia gestita da una società giapponese: usando il finto attentato come pretesto per denunciare l’insicurezza della zona e la necessità di proteggere gli interessi del Sol Levante, l’esercito del Kwantung iniziò l’occupazione dell’intera Manciuria. Le difese cinesi vennero scardinate velocemente, non senza atrocità da parte delle truppe imperiali, e nel febbraio dell’anno successivo venne proclamata la nascita del Manchukuo, uno stato fantoccio che nel 1934 prenderà l’altisonante nome di “Impero della Grande Manciuria”, con a capo l’ultimo imperatore della dinastia Quing, Puyi che, ancora bambino, venne detronizzato dopo la rivoluzione cinese del 1912.

Già dal 1933 i nipponici cercarono di instaurare un altro governo fantoccio, il Mengjiang (che verrà ufficialmente proclamato nel 1939), nella Mongolia Interna e su altre zone della Cina settentrionale. I confini tra gli stati fantoccio giapponesi da un lato e l’Unione Sovietica e la Mongolia, di fatto stato fantoccio sovietico, dall’altro erano tutto meno che ben definiti, cosa che in breve tempo portò ad una vera e propria guerra non dichiarata. Fonti dell’Esercito Imperiale Giapponese parlano di qualcosa come 152 violazioni minori solo tra il 1932 ed il 1934, mentre la diplomazia sovietica definiva apertamente i giapponesi come “nemici fascisti”. Nel gennaio del 1935 si giunse al primo scontro armato, quando diverse dozzine di cavalieri mongoli sconfinarono e attaccarono una pattuglia del Manchukuo nei pressi del tempio buddista di Halhamiao, per poi ritirarsi all’arrivo dei rinforzi giapponesi. Nel giugno dello stesso anno, truppe dell’esercito del Kwantung attaccarono una pattuglia dell’Armata Rossa dopo che questa aveva sconfinato nei pressi del lago Khalka. Altri scontri a fuoco si succedettero negli anni successivi, arrivando all’impiego di blindati e aerei da combattimento. La situazione peggiorò ulteriormente nel 1937, quando il Giappone dichiarò guerra alla Cina e l’Unione Sovietica reagì fornendo a quest’ultima un discreto quantitativo di armamenti e, soprattutto, qualche migliaio di “volontari” da impiegare come consiglieri militari.

Nel luglio del 1938, nei pressi del Lago Chasan, sul confine sovietico-coreano, si ebbe il primo scontro con impiego di truppe a livello divisionale. I sovietici occuparono delle alture nei pressi del bacino che i giapponesi consideravano parte del territorio coreano. L’ambasciatore nipponico a Mosca chiese il ritiro delle truppe sovietiche, ma la richiesta venne rigettata. Di conseguenza l’esercito giapponese lanciò una serie di assalti con l’ausilio di corazzati leggeri che costrinse i sovietici a sloggiare dalle alture contese. In risposta il commissario alla difesa Voroshilov mobilitò l’intera 1° Armata costiera e la flotta del Pacifico, inviando il generale Blucher ad assumere il controllo del settore. Il contrattacco russo, seppur al prezzo di perdite pesantissime, costrinse i giapponesi a ritirarsi e a chiedere la cessazione delle ostilità. Per il povero Blucher si trattò di una vittoria di Pirro: le pesanti perdite registrate furono ascritte all’incapacità del comandante che, una volta accusato di essere una spia al soldo di Tokyo, venne processato e giustiziato dal NKVD.

Soldati giapponesi attraversano il fiume Khalkhin Gol

L’ultimo, più grande e pregno di conseguenze, episodio della guerra di confine sovietico-giapponese si verificò l’anno successivo, sul fiume Khalkhin Gol in Mongolia. Tutto ebbe inizio in maggio, quando dei reparti di cavalleria mongola scambiarono dei colpi di arma da fuoco con la loro controparte del Manchukuo. I giapponesi reagirono inviando rinforzi nella zona, ammassando per giugno ben 30.000 uomini, presto imitati dai sovietici che inviarono nella zona contesa l’allora semi sconosciuto comandante di corpo d’armata Zhukov con un discreto numero di mezzi corazzati. L’escalation non accennava a fermarsi, tanto che il 27 giugno l’aviazione imperiale lanciò un raid a sorpresa contro le basi aeree in Mongolia: pur ottenendo una vittoria, l’assalto non aveva avuto l’imprimatur del Comando Supremo di Tokyo, che anzi proibì all’aviazione e all’esercito del Kwantung qualsiasi altra iniziativa del genere. In luglio il centro dell’azione si spostò su un fronte di appena quattro chilometri nei pressi della confluenza del fiume Holsten con il Khalkin Gol. Nel corso di un massiccio attacco i giapponesi riuscirono ad attraversare il fiume e a realizzare una piccola testa di ponte che, tuttavia, venne eliminata da un rapido contrattacco corazzato, seppur a prezzo di perdite considerevoli. Il comandante sovietico, ormai, era deciso a regolare i conti una volta per tutte e pianificò una controffensiva su larga scala per il mese di agosto. Utilizzando qualcosa come 4000 automezzi per trasportare munizionamento e rifornimenti di vario genere, concentrò ben tre brigate corazzate da utilizzare unitamente ad altre due brigate motorizzate che schierò ai lati della sua formazione, mentre il centro era tenuto dal grosso delle forze di fanteria. Agli inizi del mese Zhukov lanciò una serie di attacchi preparatori che si rivelarono un completo fallimento, ma gli

Truppe sovietiche all’assalto a Khalkhin Gol

permisero di saggiare la reale consistenza delle truppe avversarie. All’alba del 20 agosto l’artiglieria e l’aviazione sovietica iniziarono a martellare le postazioni nipponiche, mentre tre divisioni di fanteria attraversarono il fiume per tenere impegnati i difensori. Contemporaneamente i fianchi dello schieramento sovietico si lanciarono all’attacco per aggirare il grosso della formazione giapponese, applicando per la prima volta la strategia che Zhukov impiegherà con successo – e su scala infinitamente maggiore – a Stalingrado e a Kursk contro le più esperte truppe tedesche ed i loro alleati. Pur ritrovandosi completamente accerchiate, le truppe imperiali continuarono a combattere fino al 31 agosto, cioè fino al momento in cui da Tokyo arrivò l’ordine di cessare ogni attività ostile nel settore. A spingere il governo giapponese a questa decisione, giocò un ruolo non indifferente l’annuncio il 23 agosto del patto Molotov-Ribbentrop che lasciò il Giappone isolato diplomaticamente. Tale mossa diplomatica «convinceva i giapponesi […] di non poter contare sull’aiuto tedesco, di cui erano formalmente alleati e che firmavano un accordo con il nemico che il stava sconfiggendo in Oriente». (2)

Alla luce di ciò, la battaglia di Khalkin Gol ebbe delle conseguenze di importanza vitale per l’andamento della Seconda Guerra Mondiale. La sconfitta, infatti, contribuì a convincere il Giappone a rivolgere la propria attenzione verso il Sud-est asiatico ed il Pacifico, scenario in cui tentò di realizzare la cosiddetta “Sfera di coprosperità della Grande Asia Orientale“, nome altisonante per mascherare un progetto imperialista e di sfruttamento intensivo delle risorse e delle popolazioni locali che, tuttavia, accettarono in gran parte l’occupazione giapponese, in quanto consideravano una potenza occupatrice asiatica preferibile ad una occidentale. Il successo di Zhukov , che diventerà uno dei maggiori comandanti sovietici durante la Grande Guerra Patriottica, venne oscurato dalle notizie provenienti dall’Europa orientale, dove all’alba del 1 settembre 1939 le truppe tedesche attaccarono la Polonia, seguite due settimane dopo da quelle sovietiche che presero possesso delle attuali porzioni occidentali di Bielorussia e Ucraina. Il 13 aprile 1941 i giapponesi stipularono un patto di non aggressione con l’Unione Sovietica che rimase in vigore anche dopo l’avvio di Barbarossa, il 21 giugno dello stesso anno, contribuendo in larga misura alla vittoria sovietica contro la Germania. Per ironia della sorte il trattato che salvò l’URSS venne violato da Stalin nell’agosto del 1945, quando agli sgoccioli del secondo conflitto mondiale l’Armata Rossa invase la Manciuria e occupò la porzione meridionale dell’isola di Sakhalin – persa nel 1905 – e le isole Curili. Il notevole quantitativo di armamenti catturato dai sovietici venne messo interamente a disposizione dell’esercito di Mao che, anche grazie a questo aiuto, riuscì a prevalere sulle forze di Chiang Kai-Shek, che furono costrette a ritirarsi sull’isola di Taiwan.

 

Ps. Tutte le foto sono state prese da Wikipedia per una questione di comodità. Per lo stesso motivo per la traslitterazione del cirillico in alfabeto latino è stata usata la versione presente sullo stesso sito, tranne che per Blucher e Voroshilov.

 

(1)David Bullock, La guerra civile russa 1918-1922. Dalla Rivoluzione d’Ottobre alla nascita dell’Unione Sovietica, Gorizia, Leg Edizioni, 2017, p. 132;

(2)Andrea Graziosi, L’URSS di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica 1914-1945, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 448

Sulle tracce della Storia: destinazione Galizia

galiziaAgosto. Il mese in cui c’è chi parte per le ferie e chi viaggia. A quale categoria appartengo lo rivela in maniera abbastanza esplicita il nome di questo blog, soprattutto se per viaggio intendiamo qualcosa che vada oltre il mero spostamento tra due o più luoghi distinti sulla superficie terrestre, un qualcosa più simile ad un Erlebnis o ad una ricerca. Ricerca di chi e di che cosa lo diremo dopo – il plurale è voluto e c’è un motivo ben preciso se l’ho usato – per ora accontentiamoci di parlare del dove: Galizia.

Ga-li-zia. Tre sillabe che portano alla mente Santiago de Compostela, il golfo di Biscaglia, la costa atlantica spagnola, ma no, noi andremo nell’altra Galizia, quella dimenticata, smembrata e travolta dalla furia degli eventi del secolo ventesimo. Quella Galizia che fino a cento anni fa costituiva l’ultima periferia dell’Austria-Ungheria, distesa nelle piane smisurate di là dei Carpazi, col nome altisonante di Regno di Galizia e Lodomiria, e che oggi è divisa a metà tra Polonia e Ucraina.

Galizien. Un nome che gronda sangue e dolore: quello dei fanti mandati al macello mentre la belle epoque usciva di scena aprendo il sipario all’orrore della guerra moderna, qui come nelle Fiandre o sull’Isonzo; quello del popolo ebraico, che in città come Leopoli costituiva oltre il 30% della popolazione, passato per i camini di Auschwitz, Belzec, Majdanek e altre fabbriche della morte lasciando un vuoto che non è più stato colmato; quello di intere popolazioni deportate senza alcuna colpa, se non quella di appartenere al gruppo etnico sbagliato nel secolo in cui i nazionalismi hanno stravolto in maniera definitiva la geografia umana d’Europa.

Perchè andare ad impantanarsi in un posto del genere, vi starete chiedendo. Per raccontare una storia, vi rispondo io. Anzi, vi rispondiamo noi, dato che non sarò solo in questa avventura, ma sarò accompagnato da Marzia Antinori, giovane fotografa e videomaker romana, carissima amica, nonchè una delle poche persone al mondo in grado di sopportare la mia compagnia per un lasso di tempo superiore alle ventiquattro ore. La storia che vogliamo raccontare, io con le parole e lei attraverso le lenti della macchina fotografica, è quella del fronte galiziano, a sua volta parte del più ampio fronte orientale, durante la prima guerra mondiale. Si tratta di un fronte completamente dimenticato, ancor più di quello mesopotamico, dagli storici e soprattutto dalla memoria collettiva austro-tedesca. Eppure è stato proprio qui che la duplice monarchia, pur riuscendo infine a sconfiggere la Russia sconvolta dalla rivoluzione, perse la guerra. È nelle ubertose campagne ucraine, nei boschi dei Carpazi, nelle paludi di Podolia e non sulle Dolomiti che l’esercito del Kaiser subì perdite spaventose. Stime attendibili ci dicono che nei primi mesi di guerra gli austriaci persero, tra morti, feriti, prigionieri e disertori, più uomini che sul fronte dell’Isonzo durante i quattro anni di guerra italo-austriaca. Le cronache ci raccontano di reggimenti decimati, con gli effettivi ridotti al 10-20%, di intere compagnie spazzate via dal gelo dell’inverno carpatico durante le notti passate in trincea.

In Galizia fummo mandati al macello anche noi sudtirolesi, eppure non vogliamo ricordarlo. Chi si è autoproclamato tutore della memoria storica locale e delle tradizioni preferisce continuare a rinfocolare le tensioni tra italofoni e germanofoni e in questo le vicende del fronte italiano risultano più politicamente spendibili. La Galizia, che ormai esiste solo nelle pagine degli atlanti storici, è troppo remota, troppo poco “interessante”, quindi non meritevole di essere ricordata. Sia ben chiaro, per noi i caduti di Rawa-Ruska, dell’Ortigara o di Verdun hanno la stessa identica dignità: tutti sono uomini strappati alla loro vita e ai loro affetti per essere precipitati nell’orrore della guerra industriale, costretti ad uccidere ed essere uccisi in nome di qualcosa di talmente sfuggente da risultare incomprensibile per la maggior parte di loro. Non abbiamo interesse a fare classifiche di importanza tra fronti e battaglie, non vogliamo suddividere i morti in caduti di serie A e serie B, soltanto un idiota lo farebbe. Noi vogliamo raccontare, come già detto prima, una storia. Null’altro.

Vi è, infine, un ultimo motivo che mi spinge – questa volta la prima persona singolare è d’obbligo – ad intraprendere questo viaggio, un motivo personale. In Galizia e sui Carpazi ha combattuto il mio bisnonno materno. Urgroßvater Josef Mandl, Kaiserjäger, prelevato dalla Val d’Ultimo, spedito in treno a versare sangue für Gott, Kaiser und Vaterland e infine riportato a casa con qualche dito dei piedi in meno, ma vivo. Ammetto che in questo sono stato pesantemente influenzato dall’ultimo libro di Paolo Rumiz, “Come cavalli che dormono in piedi”. Tuttavia, se Rumiz si è mosso sulle tracce di suo nonno Ferruccio attrezzato con foto e diari, io viaggio alla cieca, a mani vuote, se non con una vaghissima indicazione geografica che vuol dire tutto e niente. Chi lo sa, magari l’archivio storico di Vienna potrà essermi di aiuto in futuro. Per ora, però, accontentiamoci di metterci lo zaino in spalla e partire verso Est sulle tracce della Storia. À bientôt.

Mengele e il genocidio degli Herero: le radici del male

mengeleCosa accomuna uno dei più famosi criminali di guerra nazisti, il dottor Josef Mengele, ad una popolazione stanziata nell’attuale Namibia? Apparentemente nulla, sia dal punto di vista geografico – il medico tedesco non mise mai piede in Africa – sia da quello cronologico – i fatti qui esposti si verificarono ben prima della sua nascita. In realtà, nascosto sotto la superficie, vi è un legame molto profondo. Procediamo con ordine.

All’alba del ventesimo secolo la Namibia faceva parte dell’impero coloniale tedesco con il nome di Africa Tedesca del Sud-Ovest. Qui, a differenza degli altri possedimenti tedeschi, si trasferì un numero relativamente elevato di coloni, attirati dalle miniere di rame e diamanti, oltre che dalla disponibilità di terra da coltivare. La popolazione locale venne rapidamente privata del bestiame e delle terre fertili e costretta in schiavitù. Come si può facilmente immaginare queste misure causarono un crescente malcontento che esplose nel gennaio del 1904 quando, capitanati da Samuel Maharero, gli Herero scesero sul piede di guerra attaccando le fattorie dei coloni. In breve tempo i ribelli riuscirono ad avere ragione delle esigue truppe coloniali, arrivando ad assediare i principali centri abitati e a sabotare la rete ferroviaria. Incoraggiati da questi successi anche i Nama presero le armi insorgendo contro i colonizzatori.

La reazione tedesca con si fece attendere e per sedare la rivolta fu scelto un uomo che in Cina si era già distinto nella repressione della Ribellione dei Boxer, il generale Lothar von Trotha, al comando di 15.000 truppe regolari. Costui eseguì i suoi ordini con così tanto zelo da dare il via a quello che viene convenzionalmente definito come il primo genocidio del XX secolo, un evento che con il senno di poi sembra anticipare in modo inquietante gli orrori della seconda guerra mondiale. L’11 agosto del 1904 affrontò e sconfisse le forze ribelli nella battaglia di Waterberg. Circondati su tre lati, gli Herero furono costretti a ritirarsi nell’arido deserto del Kalahari incalzati dalle truppe tedesche che avevano ordine di avvelenare i pozzi e di sparare a vista su ogni indigeno, donne e bambini compresi.  Lo stesso trattamento venne riservato anche ai Nama e ai San. Il numero delle vittime è tuttora imprecisato, ma le diverse stime oscillano tra il 75% ed il 50% della popolazione nativa. Un genocidio in piena regola e come tale è stato recentemente riconosciuto dallo stesso governo tedesco.

E Mengele? Non me ne sono dimenticato, tra un po’ ci arriveremo. Nel dicembre del 1904 il cancelliere del Reich von Bülow ordinò a von Trotha di costruire dei Konzentrationslager dove “accogliere” gli Herero sopravvissuti. In realtà si trattava di anticamere della morte, in cui i prigionieri – specialmente le donne – erano in balia dei capricci delle guardie, non ricevevano abbastanza cibo ed erano sottoposti ad esperimenti medici. Sì, avete letto bene: i medici tedeschi praticarono sperimentazione umana su cavie non consenzienti e non informate dei rischi, il tutto ben prima dell’ascesa di Hitler. Tra tutti vale la pena ricordare il caso del dottor Eugen Fischer. Ossessionato dalla purezza razziale, usò come cavie centinaia di bambini Herero e mulatti nati dall’unione di uomini tedeschi e olandesi con donne native, raccogliendo campioni di ossa e crani che poi spedì ai colleghi in Germania. Sebbene raccapriccianti, le conclusioni dei suoi “studi” vennero accolte con favore dall’ambiente scientifico tedesco. Fischer raccomandava la proibizione dei matrimoni misti, in modo da evitare l’insorgere di una “razza mista”, arrivando a caldeggiare lo sterminio delle “razze inferiori”. Sembra una anticipazione della follia nazista… e lo è. Le leggi di Norimberga, il fondamento giuridico della politica razziale nazista, si basarono proprio sui lavori di Fischer. Gli esperimenti e la carriera di Fischer non si fermarono con la fine dell’impero coloniale tedesco, anzi. Nel 1930 divenne direttore dell’Istituto di antropologia Kaiser Wilhelm, mentre tre anni dopo venne nominato rettore dell’Università William Frederick. Qui condusse ulteriori studi sui mulatti nati dalle relazioni tra donne tedesche e soldati coloniali francesi nel primo dopoguerra, procedendo sistematicamente alla loro sterilizzazione, e, allo scoppio del secondo conflitto mondiale, anche sui deportati zingari ed ebrei. Indovinate di chi fu mentore? Proprio di Josef Mengele e di moltissimi altri medici nazisti che basarono i propri “studi” sui suoi lavori.

La storia di Fischer, che dopo la seconda guerra mondiale era ancora considerato un eminente e stimato studioso, ci dimostra che l’eugenetica e la folle ricerca della purezza razziale non siano nate all’improvviso con l’avvento del Terzo Reich, ma sono state il frutto di un pensiero ben radicato all’interno della comunità scientifica – tedesca e non – a cavallo tra XIX e XX secolo. La stessa sperimentazione umana operata dai nazisti e dagli omologhi nipponici dell’Unità 731 non è da considerarsi come un evento isolato, un lampo di lucida follia, bensì come la naturale conseguenza della suddivisione dell’umanità in esseri umani degni di vivere e in subumani tutt’al più degni di lavorare come schiavi o peggio. Una lezione che non dovremmo dimenticare, soprattutto in questi tempi difficili.

Via XXX Aprile

Questo post, in origine, era un semplice stato su Facebook, motivo per cui non c’è nessuna immagine allegata. Visto che a quanto pare è piaciuto, credo sia degno di essere inserito in questo blog.

I nomi delle strade, spesso, sono in grado di raccontare la storia di un luogo meglio di pile e pile di libri. Talvolta riportano eventi famosi, mentre altre ci parlano di di fatti ormai dimenticati dai più. Poi ci sono le strade che ci ricordano i nostri scheletri nell’armadio, come via XXX aprile a Merano. C’è un motivo se le è stato assegnato quel nome, anzi, di motivi ce ne sono nove. Morti.

Prima di raccontare questa storia facciamo un piccolo passo indietro. Il 25 aprile 1945 l’insurrezione organizzata dal CLN porta alla liberazione di Torino e Milano, mentre gli Alleati raggiungono il Po dopo aver sfondato la Linea Gotica. Il 29 dello stesso mese, a Caserta, i generali Wolff e von Senger firmano la resa incondizionata delle truppe tedesche impiegate sul fronte italiano, resa che entrerà in vigore alle 14.00 del 2 maggio. La guerra è ormai agli sgoccioli e anche a Merano si inizia a respirare un’aria diversa. La caccia all’ebreo organizzata dal SOD nel settembre del ’43, le bombe alleate che avevano squassato Sinigo soltanto qualche settimana prima ormai sembrano storia lontana. Anche le pattuglie della Wehrmacht per le strade fanno meno paura, tanto che qualcuno prende coraggio.

La mattina del 30 aprile i vigili urbani tentano, fallendo, di occupare il municipio. In contemporanea iniziano a formarsi diversi cortei spontanei, il più grande dei quali parte dalla stazione e imbocca corso Libertà (all’epoca corso Diaz) sotto lo sguardo apparentemente indifferente dei militari tedeschi. All’improvviso, però, rieccheggiano degli spari. Gli atti della Corte d’Assise di Bolzano ci dicono che a fare fuoco sono membri delle SS con l’incoraggiamento e la partecipazione attiva di alcuni meranesi. Le cronache narrano di feriti finiti con un colpo alla nuca da un ufficiale tedesco, di sputi e calci sui cadaveri riversi sull’asfalto. Una brutta storia, ben presto dimenticata come tante altre in questa terra.

Non è nemmeno l’ultimo colpo di coda della belva nazista in Sudtirolo. Il 2 maggio, infatti, nove operai italiani in servizio presso la polveriera di Cengles vengono fucilati appena fuori dal paese di Lasa da un reparto germanico sopraggiunto da Silandro. Il giorno successivo tocca al capoluogo. Approfittando della resa tedesca, gruppi partigiani iniziarono ad occupare i punti strategici della città su ordine del comando alleato. La reazione germanica è durissima e costa la vita ad una quarantina di persone, di cui una ventina fucilate da una squadra di paracadutisti all’interno dello stabilimento Lancia. Si dice che la gente ha la memoria corta, in questa terra ce l’ha corta e selettiva.

I criminali di guerra italiani

Rodolfo_GrazianiNB. Il seguente post si concentra nello specifico sui criminali di guerra italiani nel secondo conflitto mondiale, per altro in maniera poco approfondita. Non deve essere quindi considerato come uno studio a se stante, bensì come la terza parte di una introduzione all’argomento.

Il trattato di pace (art. 38 nella bozza del 1946 e art. 45 della versione definitiva firmata il 10 febbraio 1947) prevedeva che l’Italia arrestasse e consegnasse ai paesi richiedenti i sospettati di crimini di guerra.

La UNWCC aveva raccolto un totale di 1283 fascicoli riguardanti presunti criminali di guerra italiani, ripartiti tra Francia, Regno Unito, Grecia, Etiopia e soprattutto Jugoslavia (che da sola ne ricercava oltre 800). Tra i personaggi di spicco figuravano il generale Roatta (comandante della II Armata in Slovenia), il generale Pirzio Biroli (governatore dell’Amara, Etiopia e successivamente del Montenegro), Rodolfo Graziani (Vicerè d’Etiopia e successivamente comandante delle Forze Armate della RSI, raffigurato nella foto) e il maresciallo Badoglio.

Badoglio, ricercato per l’uso di armi chimiche in Etiopia e per i bombardamenti indiscriminati contro gli ospedali della Croce Rossa, era anche il primo interlocutore degli Alleati. Fu lui, infatti, il Capo del Governo dopo la caduta di Mussolini e fu lui ad annunciare l’armistizio dell’8 settembre 1943. Inoltre era estremamente gradito a Churchill e al Foreign Office britannico che vedevano in lui una garanzia contro il comunismo. Infatti, quando il suo fascicolo venne visionato dalla Commissione per le epurazioni nel settembre del ’45, il governo inglese inviò un telegramma al proprio ambasciatore a Roma, invitandolo a far presente i meriti del maresciallo presso gli Alleati. Il fascicolo venne archiviato e Badoglio non fu mai processato.

Allo stesso modo l’estradizione di altri criminali, che ora ricoprivano posizioni chiave presso il ministero della Guerra e nelle Forze Armate, sarebbe stata fonte di grave imbarazzo politico per il governo inglese.

Restringendo il cerchio della nostra analisi alle sole richieste jugoslave, le prime partirono già dal febbraio del 1944 e furono nuovamente presentate alla UNWCC l’anno successivo1. Il governo italiano in risposta elaborò un documento noto come “Note relative all’occupazione italiana in Jugoslavia2 e presentò una lista di 200 criminali jugoslavi, in cui compariva anche il nome di Tito. Allo stesso tempo iniziarono a girare le prime voci sulle foibe.

Nel 1946 Lord Halifax dichiara che l’atteggiamento migliore da seguire è quello dello stallo, in quanto il rifiuto delle estradizioni contravveniva alla Dichiarazione di Mosca del 1943. In questo modo il Foreign Office britannico prese tempo usando come pretesto presunti problemi tecnici in modo da scaricare la patata bollente in mani italiane. Nell’aprile dello stesso anno, per cercare di calmare le acque, il governo De Gasperi annunciò l’istituzione di una Commissione preposta ad indagare su questi presunti crimini. I lavori, tuttavia, procedettero con estrema lentezza e nel 1951 i lavori furono archiviati grazie ad un cavillo.

Nel 1948, a seguito della rottura tra Tito e Stalin, la Jugoslavia, che ora non poteva più contare sull’appoggio sovietico, cessò completamente le richieste di estradizione.

Ben diverso atteggiamento ci fu nei confronti dei militari italiani colpevoli di crimini contro soldati alleati. Esemplare è il caso del generale Bellomo che, per ironia della sorte, era l’unico generale antifascista dell’intero Esercito italiano e che si guadagnò una medaglia d’oro combattendo contro i tedeschi a Bari subito dopo l’armistizio del 1943. Bellomo fu arrestato, processato e condannato a morte per l’uccisione di un prigioniero di guerra inglese operata da due guardie durante un tentativo di fuga. Nei fatti funse da capro espiatorio per tutti i crimini fascisti commessi contro i prigionieri di guerra britannici in Nord Africa.

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Seconda parte. Meccanismi di rimozione di Stato: l’armadio della vergogna

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Note:

1A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005 pp. 244-245

2G. Oliva, Si ammazza troppo poco, Le Scie Mondadori, Milano 2006, p. 143

Meccanismi di rimozione di Stato: l’armadio della vergogna

sannastazzemaL’impunità dei criminali di guerra nazisti va di pari passo con quella dei loro colleghi italiani responsabili di analoghe violazioni dei diritti umani nei territori occupati di Jugoslavia, Grecia e Albania.

Sin dall’ottobre del 1943 venne costituita a Londra la United Nations War Crimes Commission (UNWCC), incaricata di stilare elenchi di criminali di guerra, in previsione dell’allestimento di un Tribunale internazionale. Per quanto riguarda l’Italia essa venne a trovarsi nella duplice condizione di stilare liste di militari germanici implicati in violazioni dei diritti umani e di veder comparire i propri soldati in liste analoghe stilate dai governi greco e jugoslavo.

Per quanto riguarda i criminali nazisti, già dall’agosto 1945, il governo Parri decide di delegare ad un tribunale internazionale l’accertamento dei reati “non localizzabili” commessi da alti ufficiali germanici, esprimendo, tuttavia, preoccupazione per la possibile applicazione dei medesimi principi verso militari italiani. Ciò avrebbe significato che gli ufficiali di alto livello (comandanti di armata, di corpo e di divisione) sarebbero stati processati da un tribunale internazionale, mentre i responsabili locali dalla magistratura ordinaria italiana. I vari incartamenti sarebbero stati raccolti dalla Procura generale presso il Tribunale supremo militare che avrebbe provveduto a spartirli tra la magistratura alleata e quella italiana, ma in realtà non fece altro che aiutare il processo di insabbiamento.

Nel 1950 (governo De Gasperi), anno in cui i tribunali alleati in Germania chiusero i battenti, il bilancio dei procedimenti contro i criminali di guerra nazisti è molto poco confortante. Ci furono, infatti, solo 5 condanne, per un massimo di 15 anni, contro le 1500 della Francia, le 1700 della Jugoslavia e le 50 della Danimarca1. Come mai questa disparità di giudizio? Franzinelli giustamente indica due possibilità: o una occupazione particolarmente mite, o l’abdicazione della magistratura repubblicana ai propri doveri istituzionali contro i criminali di guerra. Escludendo la prima, per ovvie ragioni, rimane solo la seconda.

Motivo di questo atteggiamento è sicuramente da ricercarsi nel mutato assetto geopolitico: si era agli inizi della Guerra Fredda. La Germania (o almeno quella occidentale) non era più un nemico, bensì un alleato strategico contro il “moloch” sovietico. Per questo motivo gli americani iniziarono una sistematica revisione dei processi appena conclusi: molti condannati videro le loro pene ridotte o furono amnistiati, come accadde all’industriale Krupp. Inoltre, molti ex nazisti erano stati reintegrati nei ranghi del neonato esercito federale, analogamente a quanto accadde agli ex fascisti in Italia.

Nella seconda metà degli anni ’50 le cose non accennano a cambiare, visto che il procuratore generale Mirabella, il ministro Martino (Esteri) e il ministro Taviani (Difesa) decretano una linea di condotta di assoluta inerzia in nome della ragion di Stato. Infine, il 14 gennaio 1960, si giunge all’archiviazione provvisoria di 695 fascicoli ordinata dal procuratore generale Santacroce. Tali fascicoli vennero occultati in uno sgabuzzino inaccessibile al pianterreno di Palazzo Cesi, in via dell’Acquasparta, a Roma. Il delicato materiale processuale fu stipato in un armadio di legno con le ante appoggiate contro la parete; l’ingresso della stanzina era protetto da un cancello di ferro chiuso a chiave2. Rimasero lì fino al 1994, quando vennero ritrovati casualmente. Altri 1300 fascicoli, contenenti vaghissime informazioni, furono inviati alle procure territoriali per salvare le apparenze. Santacroce si fece interprete della volontà politica del Governo e nella fattispecie del ministero della Difesa, all’epoca presieduto da Giulio Andreotti.

La vicenda dei criminali di guerra italiani ricercati da Etiopia, Grecia e soprattutto Jugoslavia è per certi versi molto simile.

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Terza parte. I criminali di guerra italiani

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Note:

1M. Franzinelli, Le stragi nascoste, Oscar Mondadori, Milano 2003, p. 123

2M. Franzinelli, Le stragi nascoste, Oscar Mondadori, Milano 2003, p. 137