Le conseguenze della pace di Lodi nell’Italia del Rinascimento

L’Italia nel 1494. Fonte Wikipedia

In un vecchio post abbiamo tracciato il tortuoso percorso, fatto di decenni di lotte intestine tra i vari potentati in cui era suddivisa la Penisola all’epoca, che portò alla firma della pace di Lodi il 9 aprile 1454. L’articolo, tuttavia, si limitava a tratteggiare solo in maniera estremamente marginale l’impatto che l’evento ebbe sull’Italia del periodo, senza nemmeno accennare alle sue implicazioni sul lungo periodo. Ecco perchè ho deciso di tornare sull’argomento.

La stipula del trattato lasciava un’Italia frammentata in una infinità di staterelli, molto spesso di dimensioni poco superiori a quelle di una signoria trecentesca. A fianco di questo pulviscolo geopolitico, emergevano almeno cinque entità che per dimensioni e potenza primeggiavano sulle altre: si trattava della Repubblica di Venezia, della Repubblica di Firenze, del Ducato di Milano, del Regno di Napoli e dello Stato della Chiesa. Nessuno di questi era tuttavia abbastanza forte da poter imporre la propria egemonia sugli altri, come era stato ampiamente dimostrato nella prima metà del Quattrocento, e questo spinse i loro governanti ad operare a favore del mantenimento dello status quo.

Già solo pochi mesi dopo la firma della pace di Lodi, per la precisione il 30 agosto, a Venezia venne concluso un trattato di alleanza tra la Serenissima, Milano e Firenze che costituì l’embrione da cui nacque in seguito la Lega Italica. Proclamata solennemente il 2 marzo dell’anno successivo, con l’adesione di papa Niccolò V, del Regno di Napoli e di numerosi stati minori, questa sanciva l’integrità territoriale dei suoi membri, anche attraverso il reciproco aiuto in caso di aggressione ai danni di uno dei firmatari, ed una tregua venticinquennale. La nascita della Lega congelò di fatto la situazione politica della Penisola, che rimase pressocchè inalterata per un quaranta anni.

Sisto IV ritratto da Tiziano.
Fonte Wikipedia

La pace così ottenuta poggiava tuttavia su basi decisamente fragili. Gli stati italiani non avevano smesso di guardarsi in cagnesco e di tramare nell’ombra l’uno alle spalle dell’altro, dato che non tutti avevano abbandonato le proprie ambizioni espansioniste. In questo senso Papa Sisto IV ricoprì un ruolo preponderante, divenendo l’eminenza grigia dietro a praticamente tutte le congiure elaborate nel periodo. La sua politica era improntata al rafforzamento del Papato in Umbria e alla creazione di un principato in Italia centrale retto da suo nipote Girolamo Riario, signore di Imola e successivamente anche di Forlì. Tale progetto costituiva una minaccia inaccettabile per Firenze, che rischiava così di ritrovarsi accerchiata su più lati. Fu proprio l’opposizione della famiglia Medici a queste mire una  delle cause scatenanti della Congiura dei Pazzi.

Il 26 aprile 1478 due sacerdoti, assoldati come sicari dalla famiglia di banchieri fiorentini dei Pazzi, pugnalarono a morte Giuliano de Medici e ferirono in modo lieve il fratello Lorenzo durante una messa officiata nel duomo di Firenze. L’atto sacrilego scatenò una vera e propria rivolta popolare contro i congiurati che in breve tempo furono scovati, linciati dalla folla e giustiziati per impiccagione. L’unico imputato ad essere decapitato fu Giovan Battista da Montesecco che, sotto tortura, rivelò tutti i dettagli del complotto, compreso il coinvolgimento del Pontefice. Il fallimento della congiura e la sollevazione del popolo a proprio favore, consolidarono il potere nelle mani di Lorenzo de Medici in un momento cruciale.

Sisto IV, infatti, non era il tipo da arrendersi di fronte alle prime avversità. Fallita la Congiura dei Pazzi, il Papa scomunicò Lorenzo e mosse guerra a Firenze con l’appoggio del re di Napoli e della repubblica senese. Il conflitto produsse enormi devastazioni nel Chianti e in Val d’Elsa, protraendosi per circa due anni, ovvero fino a quando la minaccia ottomana, concretizzatasi con una spedizione in Puglia che aveva portato al Sacco di Otranto (1480), convinse i contendenti a firmare in fretta e furia una pace bianca e a fare quadrato contro il nemico esterno.

Nel 1482 Sisto IV torna nuovamente a tramare nell’ombra, prendendo le parti di Venezia in una diatriba con gli Estensi di Ferrara riguardo al monopolio del commercio del sale. Delle questioni economiche a Sisto importava relativamente poco, ciò che gli premeva era riuscire ad indebolire Ferrara per permettere all’adorato nipote di impossessarsene. Lo scontro militare si risolse in una vittoria totale per la Serenissima, che con la pace di Bagnolo (1484) prese possesso di Rovigo e del Polesine, restituendo ad Ercole I d’Este i territori occupati a sud del Po.  Il povero Girolamo Riario tornò nei suoi possedimenti con le pive nel sacco, senza poter più contare sull’appoggio del Pontefice che nel frattempo era morto a causa di una febbre.

Lorendo de Medici.
Fonte Wikipedia

A succedergli sulla Cattedra di San Pietro fu Innocenzo VIII. Il suo fu un classico esempio di pontificato di transizione, frutto del compromesso tra le due correnti in cui era divisa la Curia romana, spaccata a metà tra i sostenitori di Giuliano della Rovere, il futuro Giulio II, e quelli di Rodrigo Borgia, il futuro Alessandro VI. La scelta cadde su di lui per il suo carattere piuttosto debole e poco ambizioso ed è proprio a causa di ciò che venne abilmente manipolato da quel Lorenzo de Medici, passato alla storia con l’appellativo “Il Magnifico”, che nel frattempo era diventato il vero e proprio ago della bilancia della politica italiana. Il suo instancabile lavoro diplomatico non solo consolidò il ruolo della sua famiglia e di Firenze, ma consentì un ulteriore periodo di pace, anche grazie all’appoggio del Papato. Unica eccezione furono una serie di conflitti tra Santa Sede e regno di Napoli, provocati dal tentativo aragonese di liberarsi dal vincolo feudale che legava Napoli a San Pietro. Si trattò, tuttavia, di un episodio minore che si concluse con un nuovo trattato che sanciva la sostituzione del pagamento annuo di un tributo di 8000 once d’oro con il mantenimento di un contingente militare a difesa del Pontefice.

Nel 1492, la morte in rapida successione di Lorenzo e di Innocenzo privava l’Italia rinascimentale delle due figure che più di chiunque altro si erano prodigate per il mantenimento della pace. Il nuovo capofamiglia dei Medici, Piero il Fatuo, si rivelò del tutto inadatto a raccogliere l’eredità paterna: non solo era privo delle capacità diplomatiche necessarie a mantenere l’equilibrio della penisola, ma la sua esasperata tendenza al clientelismo esasperò la situazione interna a Firenze. A complicare ulteriormente le cose, l’elezione di Alessandro VI diede alla Chiesa un Papa spagnolo poco interessato alle vicende italiane, se non solo durante la seconda metà del proprio pontificato, durante la quale si prodigò per creare un vero e proprio regno da affidare al proprio primogenito Cesare. Inoltre nubi nere si stavano ammassando oltre le Alpi, con Spagna e Francia che iniziavano a volgere lo sguardo su terre che avevano tutto l’aspetto di una mela matura pronta ad essere colta.

Alessandro VI Borgia.
Fonte Wikipedia

Ricapitolando, la pace di Lodi, pur garantendo un periodo di relativa calma e prosperità che costituì l’humus per il Rinascimento, aveva condannato l’Italia alla frammentazione politica, impedendo quel processo che nelle isole britanniche, nella penisola iberica e in Francia aveva portato alla formazione delle monarchie nazionali. L’espansione territoriale aveva reso impossibile il controllo diretto di tutto il territorio da parte del monarca, rendendo necessarie tutta una serie di riforme strutturali nella gestione del potere e del controllo: si tratta della nascita, almeno in forma embrionale, degli stati moderni. In Italia questo tipo di processo manca del tutto, tanto che la struttura del potere negli stati italiani è quasi immutata rispetto ad un secolo prima. Quale che sia la dimensione dell’entità politica, siamo sempre di fronte a dei territori soggetti ad una città dominante, all’interno della quale chi è al governo deve badare bene ad elargire ricompense, regalie e ruoli pubblici per garantirsi l’appoggio delle altre famiglie, pena l’estromissione violenta. La mancanza di una struttura statale degna di questo nome, faceva da specchio all’assenza di eserciti che non fossero composti in buona parte da compagnie di ventura, ben poco affidabili vista la predisposizione a vendersi al miglior offerente.

Se ciò risulta vero soprattutto a Firenze, Venezia e nelle numerose altre repubbliche che componevano il mosaico politico della penisola, in una certa misura lo stesso principio vale anche per Milano e Napoli. Il potere delle famiglie regnanti nel Ducato e nel Regno, infatti, risultava estremamente fragile a causa della mancanza di un forte principio dinastico che legittimasse a pieno gli Sforza e la casa di Aragona. Nel caso di Napoli, infine, si era venuta a creare una vera e propria questione dinastica: Carlo VIII, il re di Francia, vantava attraverso la nonna paterna, Maria d’Angiò, un lontano diritto ereditario sulla corona del Regno di Napoli. Quando, nel 1494, decise di farlo valere, nessuno degli stati italiani era in grado di fronteggiare la potenza militare di una monarchia nazionale. Questa però è un’altra storia.

BIBLIOGRAFIA

A. Prosperi, Dalla Peste Nera alla guerra dei Trent’anni, Torino, Einaudi, 2000

A. Musi, Le vie della modernità, Milano, R.C.S. Libri S.p.A., 2000

La “Stalingrado” austroungarica: l’assedio della fortezza di Przemysl (1914-1915) parte 3

Le fortificazioni di Przemysl nel 1915.
Foto presa da Wikipedia

Ormai consapevole dell’affievolirsi delle possibilità di salvare la città-fortezza, Kusmanek decise di propria iniziativa di intraprendere una serie di azioni volte a danneggiare il più possibile le fortificazioni in caso di sfondamento russo. Fu così che a partire dal 5 marzo i genieri della guarnigione iniziarono a stipare i forti di esplosivi e a minare tutte le infrastrutture di importanza strategica, in modo da impedire ai russi di servirsene dopo la resa. L’idea della resa – e conseguentemente della prigionia in Russia – era ormai stata tacitamente accettata da tutti a Przemysl, come emerge del diario del dottor Thomann che, il 5 marzo, scriveva di essere pronto ad un viaggio di sola andata a Tomsk, Irkutsk o Tashkent, tanto da avere già pronto il necessario.

Nonostante l’assenza dell’artiglieria pesante, rimasta impantanata lungo la strada da Sebastopoli al fronte, il 14 marzo i russi tentarono un assalto limitato nel settore settentrionale del perimetro difensivo, riuscendo ad occupare diverse posizioni esterne. Subito i difensori iniziarono a radunare truppe per un contrattacco, ma questo venne abortito sul nascere: la scarsità di cavalli avrebbe reso impossibile lo spostamento di un numero sufficiente di cannoni, costringendo così la fanteria ad andare all’assalto senza alcun tipo di appoggio.

Due giorni dopo, il comandante della guarnigione informò il comando supremo e lo stesso Kaiser Francesco Giuseppe della sua intenzione di tentare uno sfondamento verso est, in modo da tentare un ricongiungimento con le forze di Pflanzer-Baltin in Bukovina. L’idea era quella di sfondare le linee nemiche con un attacco deciso e una volta raggiunti i depositi russi di Mostys’ka e Sadowa Wisznia – rispettivamente da una quindicina e ad una ventina di chilometri da Przemysl – lanciare in battaglia anche le truppe rimanenti. Si trattava di un piano dettato da qualcosa di ancora più profondo della disperazione: una marcia di oltre cento chilometri, in condizioni climatiche sfavorevoli, su strade dissestate, con uomini malnutriti ed in preda allo sconforto, ma agli occhi di Kusmanek preferibile all’avventurarsi attraverso i Carpazi innevati.

Andrei Selivanov, comandante delle truppe russe assedianti.
Foto presa da Wikipedia

Kusmanek non sapeva, però, che i russi non solo potevano contare sulle informazioni raccolte dai contadini della zona, ma erano anche riusciti a violare il codice con cui gli austriaci proteggevano le loro comunicazioni radio. Questo permise a Selivanov di prendere le dovute contromisure con largo anticipo, tanto che i punti di raccolta delle truppe austriache si ritrovarono sotto il tiro di diverse batterie d’artiglieria accuratamente disposte, mentre nella notte tra 18 e 19 marzo i battaglioni si ammassavano pronti a partire all’assalto. Nonostante tutto questo, i riservisti della 23° divisione Honvéd riuscirono a penetrare le linee nemiche per un paio di chilometri, prima di essere investiti sul fianco dal contrattacco portato avanti da una divisione di cavalleria russa. Gli austriaci furono costretti a ritirarsi nuovamente in città, mentre i magiari lasciarono sul campo due terzi dei propri effettivi.

Galvanizzato dal successo e contando sulla prostrazione dell’avversario, Selivanov lanciò una serie di attacchi infruttuosi nell’arco dei due giorni successivi, spingendo gli assediati ad accelerare i preparativi della capitolazione. I genieri collegarono i detonatori alle cariche esplosive, mentre pennacchi di fumo che si levano verso il cielo testimoniarono la distruzione sistematica del denaro contante e dei documenti militari. Gli ultimi cavalli rimasti vennero macellati ed il 21 marzo i cannoni della fortezza esplosero gli ultimi colpi prima di essere danneggiati in maniera irreparabile dai loro serventi.

Due ore prima dell’alba del 22 marzo, due ufficiali austriaci si presentarono davanti alle linee russe, sventolando bandiera bianca, per parlamentare la resa. Selivanov, evidentemente non troppo contento di essere stato svegliato così presto e non aduso alla sottile arte della diplomazia, li fece arrestare e solo l’intervento diretto dello zar, via telefono, riuscì a sbloccare la situazione. Al sorgere del sole, mentre le trattative erano ancora in corso, una serie di fragorose esplosioni rese inutilizzabile la maggior parte delle opere fortificate maggiori, segnando di fatto la fine dell’assedio: la guarnigione di Przemysl si arrese dopo quasi sei mesi consegnando ai russi un bottino di oltre centomila prigionieri, tra cui nove generali e altri duemilaseicento alti ufficiali.

La notizia della resa si diffuse rapidamente in tutto il mondo, minando in modo serio il prestigio ed il morale della Duplice Monarchia e delle sue forze armate. Nei primi mesi di guerra l’Austria-Ungheria aveva perso sul solo fronte galiziano oltre un milione di uomini tra morti, feriti e dispersi. Per completare questa macabra contabilità, vanno poi aggiunte le perdite sul fronte balcanico, numericamente inferiori ma comunque pesanti, dove la piccola Serbia aveva saputo resistere caparbiamente.

I resti della cittadella fortificata di Przemysl nel 2016.
Foto dell’autore

Ma quale fu la reale portata dell’assedio di Przemysl? Come e quanto influì questo episodio sull’andamento della guerra? Innanzitutto bisogna chiedersi cosa spinse Conrad a riporre così tante speranze su di una fortezza che nel 1914 era, come abbiamo visto nella prima parte, già obsoleta, tanto più che nella storia recente in nessun assedio – da Sebastopoli durante la guerra di Crimea a Port Arthur durante la guerra russo-giapponese – i difensori avevano giocato un ruolo risolutivo nell’andamento di un conflitto. Considerando che Conrad era un entusiasta sostenitore del ruolo offensivo delle truppe sul campo, la decisione di tenere a tutti i costi la città sul fiume San risulta incomprensibile, per cui possiamo ipotizzare che si sia trattato di una questione di onore/principio, non troppo dissimile dall’ossessione di Hitler per la conquista di Stalingrado nel 1942.

Le ripetute offensive sui Carpazi causarono perdite notevolmente superiori al numero di prigionieri catturati dai russi dopo la resa della città-fortezza, senza portare alcun tipo di beneficio agli assediati. Anche in questo caso la responsabilità è da ascrivere a Conrad e alla sua ossessione per arrivare a Przemysl seguendo la strada più breve. Le offensive carpatiche furono pianificate in modo superficiale ed eseguite in modo ancora peggiore, mandando le truppe al massacro in inutili assalti frontali attraverso passaggi obbligati facilmente difendibili dai russi. La conformazione del terreno, inoltre, rendeva impossibile alle diverse unità di supportarsi a vicenda, riducendo le offensive ad una serie di piccoli attacchi locali facilmente rintuzzabili. Non è un caso che l’unico successo austriaco avvenne più ad est, in Bukovina, dove gli ampi spazi pianeggianti si prestavano meglio ai movimenti di un ampio numero di truppe. Kusmanek lo aveva intuito, come testimonia il piano disperato elaborato poco prima della resa, Conrad era semplicemente troppo ottuso per farlo.

Cimitero militare russo a Przemysl.
Foto dell’autore

D’altro canto è innegabile che le operazioni di assedio tennero impegnate per diversi mesi una intera armata russa che, sebbene composta di unità di riserva, avrebbe potuto avere un ruolo determinante altrove. Penso, ad esempio, al tentativo di sfondamento verso Cracovia di dicembre 1914 culminato nella battaglia di Limanowa in cui gli austriaci riuscirono, sebbene in leggera inferiorità numerica, a respingere i russi, oppure ai contrattacchi di Brusilov sui Carpazi dove dopo le fallimentari offensive di gennaio e febbraio le linee austriache erano tenute da una manciata di uomini demoralizzati e flagellati dal gelo. Non è un caso che dopo la resa, l’XI armata russa venne smembrata e parte delle truppe inviata a nord per contenere la pressione tedesca, mentre il resto degli reparti venne spedito proprio in Bukovina per ricacciare indietro le formazioni di Pflanzer-Baltin, segno che perfino nella STAVKA c’erano menti più aperte di quelle dell’AOK austriaco. Mettendo da parte le congetture, certo è che l’assedio costò ai russi circa centomila uomini, di cui una metà nel corso gli attacchi insensati di Dimitriev nel settembre 1914.

La notizia della riconquista di Przemysl in un giornale  austriaco.
Foto presa da Wikipedia

La vittoria russa fu comunque effimera, dato che nel maggio dello stesso anno un poderoso attacco austro-tedesco, l’offensiva di Tarnow-Gorlice, riuscì a sfondare le linee zariste causando una reazione a catena che portò al crollo dell’intera linea del fronte. Con la Grande Ritirata, la Russia fu costretta ad abbandonare l’intero saliente polacco, compresa Varsavia, parte della Lituania e gran parte della Galizia austriaca. Anche Przemysl fu interessata da un nuovo assedio, il terzo, ma la sistematica distruzione delle fortificazioni ordinata da Kusmanek impedì ai pochi reparti russi di stanza in città di resistere per molto tempo.

 

[parte 1] [parte 2]

BIBLIOGRAFIA

A. Watson, The Fortress: The Great Siege of Przemysl, London, Penguin Books, 2019

P. Buttar, Collision of Empires. The War on the Eastern Front in 1914, Oxford, Osprey Publishing, 2014

P. Buttar, Germany Ascendant. The Eastern Front 1915, Oxford, Osprey Publishing, 2017

N. Stone, The Eastern Front 1914-1917, London, Penguin Books, 1998

 

La “Stalingrado” austroungarica: l’assedio della fortezza di Przemysl (1914-1915) parte 2

Alla fine di ottobre, la sconfitta delle truppe tedesche sulla Vistola espose pericolosamente il fianco delle formazioni austroungariche in Galizia, costringendo Conrad ad ordinare una nuova ritirata sulla linea del Dunajec. Il 4 novembre le autorità di Przemysl ordinarono una nuova evacuazione di civili, ma molti furono costretti a rientrare in città a causa della presenza di numerose pattuglie di cavalleria russa. Sei giorni dopo la città-fortezza si trovò nuovamente isolata.

Il generale Kusmanek, comandante della fortezza di Przemysl.
Fonte Wikipedia

Rispetto a due mesi prima, i difensori si trovarono ad affrontare una situazione radicalmente diversa. Le riserve della fortezza erano state depauperate dalle truppe alleate e ad aggravare la crisi alimentare contribuiva la presenza in città di diversi reparti di sbandati che, rimasti tagliati fuori dalla ritirata, si erano uniti alla guarnigione. La loro presenza in città comportava un altro tipo di problema. Se in origine le truppe di stanza a Przemysl erano composte interamente da soldati di lingua ungherese, i nuovi reparti provenivano da ogni angolo della Duplice Monarchia, una Babele composta da quattordici lingue diverse. A complicare ulteriormente il problema comunicativo, contribuiva la nuova generazione di sottufficiali giunta al fronte per sostituire i caduti delle prime settimane: costoro fin troppo spesso non parlavano la lingua dei loro sottoposti e non erano nemmeno intenzionati ad impararla. Riassumendo, a novembre si ritrovarono intrappolati a Przemysl più di centoventimila uomini, oltre a diverse migliaia di civili, quando le scorte alimentari della fortezza erano pensate per una guarnigione che a pieni ranghi ne contava soltanto ottantacinquemila.

I comandanti russi, memori delle pesantissime perdite causate dagli sconsiderati attacchi di Dimitrev, optarono per seguire una nuova strategia. L’XI armata chiese alla base navale di Sebastopoli l’invio di alcuni cannoni navali, da impiegare per ridurre al silenzio le postazioni nemiche meglio difese, e si trincerò intorno alla città, con la non troppo celata speranza di riuscire a prenderla per fame. L’ipotesi era tutt’altro che campata in aria, dato un rapido inventario delle scorte stabilì che queste sarebbero state completamente consumate entro la metà di gennaio. Il comandante Kusmanek fu quindi costretto ad ordinare l’abbattimento e la macellazione di circa la metà degli oltre ventimila cavalli presenti nella fortezza. Si trattò di una scelta disperata e dalle conseguenze fatali, che influì negativamente sulla mobilità delle truppe assediate e sulla loro capacità di concentrare l’artiglieria là dove sarebbe servita.

La carne equina diventò quindi la base della dieta dei soldati austriaci. Addirittura la farina per il pane, ottenuta dai cereali meno nobili, originariamente destinati ad essere foraggio, veniva tagliata con i resti delle carcasse dei quadrupedi essiccate e polverizzate. Nonostante la mattanza, la durata delle provviste fu prolungata soltanto di un mese, tanto che a gennaio le razioni per i militari vennero progressivamente ridotte. Se in origine erano previsti settecento grammi di pane, trecento grammi di carne e duecento grammi di verdure al giorno, questi si ridussero a trecento grammi di pane con in supplemento cinquanta grammi di gallette, settanta grammi di verdure e una piccola porzione di patè di cavallo. Di contro il fabbisogno calorico individuale aumentò di molto, sia per il rigido clima invernale, sia perchè il lavoro precedentemente svolto dagli animali abbattuti doveva ora essere svolto dalla truppa.

Il 18 dicembre alcuni reparti russi sferrarono un attacco contro il settore nord, riuscendo a conquistare alcune postazioni esterne. I contrattacchi austriaci naufragarono a causa del mancato supporto dell’artiglieria ai reparti di fanteria. Il 27 dello stesso mese, il comandante della guarnigione raggruppò una forza di quindici battaglioni – circa seimila uomini – per effettuare una sortita in grado di raggiungere uno dei depositi di rifornimenti russi. Anche in questo caso lo sforzo della truppa venne vanificato da un insufficiente appoggio dell’artiglieria. Il potenziale bellico della guarnigione ormai stava colando a picco: sebbene sulla carta disponesse ancora di ottantaquattromila uomini atti alle armi, solo quindicimila erano truppe di prima linea, mentre i restanti erano riservisti della Landsturm e dell’Honvéd.

Con l’inizio del nuovo anno la situazione alimentare peggiorò ulteriormente, con la fame che divenne endemica. Il dottor Josef Thomann annotò sul suo diario, una fonte di eccezionale interesse sulla vita durante l’assedio, i primi casi di malnutrizione. Dalle sue pagine emerge l’enorme disparità di trattamento tra truppa e ufficiali: se i soldati semplici morivano letteralmente di fame, gli ufficiali vivevano nel lusso, tanto da abbandonarsi a banchetti tanto sontuosi quanto osceni, e gli unici problemi di salute in cui incorrevano erano le malattie veneree.

Ebrei galiziani. Data e luogo ignoti.
Fonte ukrainianjewishwencounter.org

Nonostante un ulteriore abbattimento di cavalli, le condizioni di vita in città continuarono a peggiorare. Se nel diario del dottore vengono contati fino a trecento decessi al giorno per malnutrizione e patologie collegate, le autorità civili contarono una mortalità più che doppia rispetto al tempo di pace. Non solo i militari, ma anche gli abitanti di Przemysl soffrirono enormemente per le privazioni dell’assedio. La fame spinse le varie componenti della cittadinanza le une contro le altre, ma tutte – polacchi, ruteni, tedeschi – sembrarono concordi nell’incolpare la popolazione ebraica di aver ammassato scorte per poi arricchirsi rivendendo il cibo a prezzo maggiorato. In effetti il prezzo delle derrate alimentari era aumentato fino a quaranta volte – come nel caso del pane – rispetto a prima dello scoppio della guerra, ma questo era dovuto alla generale scarsità di risorse piuttosto che all’azione degli “approfittatori giudei” (sic!). Fiutando nell’aria la minaccia di un pogrom imminente, Kusmanek ordinò di aprire i magazzini della fortezza ai civili, per permettere loro l’acquisto di cinque chili di carne equina a prezzo calmierato.

Nel corso dell’inverno gli austriaci provarono a lanciare diverse offensive attraverso i Carpazi nella speranza di riuscire a raggiungere Przemysl, ma tutte queste si risolsero in sanguinosi fallimenti. Fu soprattutto il gelo, più del fuoco nemico, a mietere vittime tra le fila asburgiche: con temperature che scendevano abbondantemente sotto lo zero anche di giorno, non era raro che interi plotoni morissero congelati in trincea. L’unico successo, ammesso che possa essere considerato tale, fu la liberazione di Czernowitz, capoluogo della Bukovina austriaca, a centinaia di chilometri dalla città assediata, durante la seconda offensiva del febbraio 1915. La testardaggine di Conrad, deciso a liberare la fortezza più per una questione di prestigio personale che sulla base di considerazioni strategiche, costò alla Duplice Monarchia oltre mezzo milione di uomini tra caduti, feriti e prigionieri.

Fanteria austriaca sui Carpazi, presumibilmente 1915.
Fonte greatwarproject.org

Nel suo posto di comando lungo il fiume San, Kusmanek si trovava nella difficile situazione di dover decidere se annullare la propria capacità offensiva, limitandosi ad una difesa statica, per cercare di sopravvivere il più a lungo possibile o se mantenersi pronto ad intervenire in supporto all’esercito di soccorso che si sperava sarebbe giunto il prima possibile. Interrogato su quale opzione scegliere, Conrad ordinò di macellare tutti i cavalli restanti eccetto quattromila: una soluzione che non risolveva la questione alimentare e che al tempo stesso non garantiva un potenziale bellico sufficiente. Przemysl ormai sembrava condannata.

[parte 1] [parte 3]

BIBLIOGRAFIA

A. Watson, The Fortress: The Great Siege of Przemysl, London, Penguin Books, 2019

P. Buttar, Collision of Empires. The War on the Eastern Front in 1914, Oxford, Osprey Publishing, 2014

P. Buttar, Germany Ascendant. The Eastern Front 1915, Oxford, Osprey Publishing, 2017

N. Stone, The Eastern Front 1914-1917, London, Penguin Books, 1998

La “Stalingrado” austroungarica: l’assedio della fortezza di Przemysl (1914-1915) parte 1

Il teatro galiziano. Przemysl è il triangolo rosso. Le linee tratteggiate più spesse indicano la rete ferroviaria, mentre quelle più sottili indicano approssimativamente i confini all’agosto 1914.
Mappa realizzata dall’autore su base di Pietro D’Orio.

L’assedio della città-fortezza di Przemysl, città polacca adagiata sulle rive del fiume San in prossimità del confine ucraino, oltre a rappresentare una delle più gravi sconfitte militari mai patite dall’esercito austroungarico durante il primo conflitto mondiale, è anche un interessante caso di studio. Le diverse fasi della battaglia, infatti, mostrano in maniera lampante le peculiarità del fronte orientale rispetto agli altri teatri bellici, peculiarità che diventeranno sempre più marcate con il progredire del conflitto. Inoltre nelle numerose memorie che ci sono pervenute è possibile scorgere le enormi contraddizioni che esistevano all’interno della Duplice Monarchia e che contribuirono a causarne il crollo.

Sin dalla sua nascita la città si trovò al centro di importanti traffici. Oltre ad esercitare un controllo diretto sui punti di attraversamento del San, la presenza del fiume la collocava su una importante direttrice che collegava il Baltico all’Europa Centrale attraverso i Carpazi. La realizzazione della strada ferrata che univa Cracovia a Leopoli,  aumentò ulteriormente la sua importanza come nodo nelle comunicazioni a partire dalla seconda metà dell’Ottocento.

Mortaio Skoda da 305mm.
Fonte Wikipedia

Non deve quindi sorprendere che i vertici militari asburgici la scelsero per realizzare il primo caposaldo di quella che nei loro piani doveva essere una possente linea fortificata imperniata sul corso d’acqua. Crescenti difficoltà finanziarie e l’evoluzione delle dottrine militari spinsero le autorità a ridimensionare i loro progetti, concentrandosi solo su Przemysl. Ulteriori migliorie vennero apportate all’inizio del XX secolo, dando alla piazzaforte il suo aspetto definitivo. Da una cittadella fortificata, che fungeva da posto di comando, dipendevano altri venticinque forti di minori dimensioni, disposti in due anelli concentrici intorno alla città, a cui si aggiungevano dodici postazioni protette per artiglieria da fortezza.

Nel 1914, però, la formidabile postazione difensiva risultava obsoleta, come dimostrato dall’andamento delle ostilità in Belgio. Le fortificazioni di Liegi e Namur, infatti, erano state fatte a pezzi dei grossi calibri da assedio tedeschi, cui erano aggregate alcune batterie di mastodontici mortai Skoda austroungarici, senza che potessero rispondere al fuoco. Per un esercito relativamente arretrato e sprovvisto di un numero sufficiente di bocche di fuoco, come quello zarista, una città-fortezza come quella di Przemysl restava comunque un importante ostacolo.

Fanteria austro-ungarica in riposo durante una marcia nell’estate del 1914.
Fonte Wikipedia

Sin dalle primissime fasi del conflitto, l’alto comando austriaco decise di concentrare i propri sforzi contro la Russia, nella convinzione di poter sferrare un colpo decisivo prima che il colosso slavo fosse in grado di manifestare tutta la sua potenza. Il piano di Conrad era piuttosto semplice: due armate, la I di Dankl e la IV di  Auffenberg, dovevano attaccare verso nord puntando a Lublino per isolare il cosiddetto “saliente polacco”, ossia l’attuale Polonia centrale, possedimento russo che all’epoca si incuneava tra Prussia e Galizia; la III armata di Brudermann, cui presto si sarebbe aggiunta la II di Böhm-Ermolli, dirottata in fretta e furia dal fronte serbo a quello galiziano, invece avrebbe dovuto mantenere un contegno difensivo, cercando di sfruttare a proprio vantaggio la morfologia del terreno per rallentare un possibile attacco dell’esercito zarista su Leopoli. In questa fase Conrad stabilì il suo quartier generale proprio nella cittadella di Przemysl, in modo da poter controllare efficacemente entrambi gli scacchieri.

Se a nord l’esercito di Francesco Giuseppe riuscì a raccogliere qualche successo a Krasnik e Komarow, più per disorganizzazione del nemico che per meriti propri, arrivando a minacciare i sobborghi di Lublino, ad est l’andamento della guerra fu decisamente diverso. Sottostimando le forze nemiche, che consistevano nella III armata di Ruzsky e nella VIII di Brusilov, Brudermann contravvenne agli ordini e lanciò una serie di attacchi sconsiderati che si risolsero in un totale fallimento pagato con pesanti perdite. Impossibilitato a mantenere la linea del fronte contro un nemico numericamente soverchiante, fu costretto a ritirarsi a ovest di Leopoli, che venne occupata dai soldati dello zar il 4 settembre. Nel frattempo Conrad aveva ordinato alla IV armata di ruotare verso sud-est per andare a fornire supporto alle truppe in ritirata, ma la formazione venne intercettata dalle forze russe nella zona di Rawa Ruska, a metà strada circa tra Leopoli e Lublino. Il sacrificio della retroguardia, il XIV corpo dell’Arciduca Giuseppe Ferdinando composto da truppe provenienti da Tirolo e Trentino,  impedì la completa distruzione dell’armata, ma non il crollo del fronte. L’11 settembre, infatti, Conrad fu costretto ad ordinare la ritirata generale sulla linea del San.

Le origini della guerra dei Cent’Anni

La battaglia di Crécy, tratta da le “Grandes Chroniques de France”.
Fonte Wikipedia

Il termine “guerra dei Cent’anni” è stato coniato piuttosto recentemente. Appare infatti per la prima volta agli inizi dell’Ottocento in Francia e approda poco dopo in Inghilterra, per poi diffondersi in tutto il mondo. Si tratta, tuttavia, di una definizione piuttosto imprecisa, non solo riguardo la durata, dal 1337 al 1453 di anni ne passano centosedici, ma anche riguardo alla natura stessa del conflitto, che appare inframezzato da periodi di tregua lunghi fino a ventisei anni, permettendo agli storici una suddivisione più precisa: se la storiografia francese si limita a riconoscere una prima (1337-1389) ed una seconda fase (1415-1453), quella inglese parla di guerra edoardiana (1337-1360), guerra carolina (1369-1389), guerra dei Lancaster (1415-1429) e di fase finale (1429-1453).

Quale che sia la periodizzazione utilizzata, il conflitto rimane uno dei momenti topici del basso Medioevo. Le gesta di personaggi come Edoardo il Principe Nero o Giovanna d’Arco riecheggiano ancora oggi ad oltre seicento anni di distanza, mentre all’epoca le battaglie di Crécy  e di Agincourt posero una pietra tombale al ruolo della cavalleria pesante sui campi di battaglia europei. Infine appare difficile pensare che la Francia avrebbe potuto portare a compimento la trasformazione in uno stato nazionale  se fosse uscita sconfitta dal conflitto.

Con il lento declino del Sacro Romano Impero, nel Trecento il regno di Francia ed il regno di Inghilterra non conoscono rivali in termini di ricchezza, potenza e prestigio: a conti fatti sono l’equivalente, a livello europeo, di due superpotenze. Vi sono però delle differenze sostanziali che è bene tenere a mente.

Sebbene meno popolosa, l’Inghilterra può contare su di una maggiore coesione territoriale e giuridica, con la maggior parte del territorio sotto il controllo diretto del sovrano, mentre il potere dei feudatari risulta quasi trascurabile. Il potere del re è però limitato dalla Magna Charta del 1215: redatta sotto il regno di Giovanni Senza Terra, subordina l’autorità regia in ambito amministrativo e finanziario ad un parlamento composto da grande nobiltà, alti prelati e rappresentanti della gentry (piccola nobiltà, prevalentemente cavalieri) e delle città.

Filippo IV di Francia e famiglia.
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Dal canto suo la Francia può contare su di una popolazione dalle tre alle quattro volte più numerosa rispetto alla rivale, ma appare anche molto più frammentata. Il re di Francia, che a partire da Filippo IV il Bello inizia a liberarsi dal vincolo degli Stati generali, esercita la sua autorità soltanto su due terzi del territorio francese, mentre il resto del regno è diviso in contee e ducati, il più potente dei quali è senza dubbio quello di Aquitania. Sapete chi è per buona parte del basso Medioevo duca di Aquitania? Il re di Inghilterra.

Sembra una situazione paradossale – e in fin dei conti lo è – ma per diversi secoli il re inglese si trova ad essere contemporaneamente parigrado e vassallo del re di Francia. Vale la pena soffermarsi sull’argomento, perché è proprio qui che risiede in nuce la causa scatenante della guerra dei Cent’anni, più che nella questione dinastica – sulla quale ritorneremo – che comunque ha un suo peso, ma risulta insufficiente come casus belli se esaminata singolarmente.

La situazione in Francia nel 1180. In scala di rosso/rosa i possedimenti inglesi.
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Il paradosso inglese ha origine nel 1066, quando Guglielmo il Conquistatore, già duca di Normandia e quindi vassallo del re di Francia, sconfigge nella battaglia di Hastings l’ultimo sovrano degli Anglosassoni, Harold II, venendo così incoronato re d’Inghilterra. La situazione si complica ulteriormente il secolo successivo, quando alla morte di Stefano di Blois (1154) il trono inglese è affidato ad Enrico II il Plantageneto, già duca di Normandia, conte di Angiò e del Maine e dal 1152 duca di Aquitania dopo il matrimonio con Eleonora: oltre metà del territorio francese è così in mano inglese, sebbene l’autorità continui ad appartenere, almeno formalmente, al sovrano francese.

Nel corso del Duecento i ruoli sembrarono invertirsi, quando a seguito della prima guerra dei baroni (1215-1217) Luigi VIII di Francia riesce a sedersi brevemente sul trono inglese grazie all’appoggio dei baroni rivoltosi, i quali però in breve tempo gli voltano le spalle preferendogli il legittimo erede Enrico III. Nel frattempo, sull’altro lato della Manica, con la firma del trattato di Chinon (1214) i sovrani francesi riescono ad annettere ai domini della corona la Normandia, il Maine e l’Angiò, ridimensionando enormemente il territorio governato dagli inglesi.

La rappacificazione, apparentemente definitiva, tra le due dinastie arriva nel 1259, con il trattato di Parigi, che ribadisce quanto stabilito a Chinon, lasciando però l’Aquitania come feudo ai Plantageneti . C’è però una condizione, che per l’orgoglio di un sovrano può risultare umiliante. Il godimento dei diritti feudali è infatti vincolato all’omaggio feudale: in quanto feudatario, ogni nuovo re d’Inghilterra avrebbe dovuto rendere omaggio al re di Francia prima di essere riconosciuto signore di quelle terre.

L’Aquitania è davvero così importante? La risposta è indubbiamente positiva. Si tratta di una zona densamente popolata e piuttosto ricca dal punto di vista economico: è proprio in questo periodo che, per soddisfare le continue richieste della corona e della nobiltà inglesi, la coltivazione della vite e la produzione di vino diventano la colonna portante dell’economia di Bordeaux e dintorni. La piccola nobiltà locale, infine, tende a preferire il blando governo inglese a quello di matrice molto più centralista del re di Francia.

L’omaggio feudale di Edoardo d’Inghilterra nei confronti di Filippo di Francia.
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Il trattato di Parigi si dimostra fin da subito inconclusivo. Le scaramucce tra i due poteri si susseguono senza soluzione di continuità, con diversi tentativi da parte inglese di trasformare il loro feudo continentale in allodio, ossia in una proprietà libera da vincoli.  D’altra parte il trattato appena firmato lega loro le mani, facendo pendere sul loro capo la spada di Damocle della revoca del feudo per fellonia. Il re di Francia, nel frattempo, cerca in tutti i modi di imporre una tutela sempre più stretta sui grandi feudatari, ribadendo la propria autorità ad ogni occasione, e non si lascerebbe sfuggire l’opportunità di mettere le mani su uno dei ducati più ricchi del paese.

Questa situazione apparentemente senza via d’uscita sembra sbloccarsi con la morte nel 1314 di Filippo IV di Francia, cui succede Luigi X che però muore soltanto due anni dopo. Per oltre trecento anni la dinastia dei Capetingi ha sempre generato figli maschi a cui trasmettere la corona, ma ora l’unico discendente in vita di re Luigi è Giovanna di Navarra. Se oggi ci appare scontato che una donna possa ereditare una corona – pensate ad Elisabetta II d’Inghilterra – nel Quattordicesimo secolo è impensabile, anche a causa del diritto successorio che, basandosi sulla Lex salica, esclude esplicitamente questa possibilità. La corona di Francia passa quindi nelle mani di Filippo V, fratello di Luigi, e alla morte senza eredi di costui, nelle mani di un altro fratello, Carlo IV. Tutto sembra essersi risolto, ma la sorte vuole che anche Carlo muoia senza eredi nel 1328, portando così all’estinzione del ramo principale dei Capetingi.

Schema riassuntivo della successione al trono francese.
Opera di Emyrys.

Si apre quindi un problema di successione, con due pretendenti che reclamano la corona di Francia. Il primo è Filippo VI di Valois, figlio di Carlo di Valois che era fratello minore del defunto Filippo IV. Il secondo è niente meno che Edoardo III d’Inghilterra, nato dall’unione tra Edoardo II e Isabella, figlia di Filippo IV. A spuntarla è prevedibilmente il Valois che viene incoronato nel 1328: non solo si tratta di un uomo maturo, mentre Edoardo ha sedici anni, ma in più è francese e la sua incoronazione scongiura il rischio di avere un re straniero. Inoltre la Lex salica parla chiaro e se Giovanna non aveva potuto ereditare la corona, anche Isabella non poteva trasmettere un titolo che non le spettava.

Inizialmente Edoardo III accetta con riluttanza la decisione dei grandi feudatari francesi, ma successivamente cambia idea. Al sostegno francese al regno di Scozia egli risponde stringendo legami sempre più forti con le città fiamminghe, in rotta con la Francia sin dall’inizio del secolo, anche grazie al matrimonio con Filippa di Hainaut, figlia del Conte d’Olanda e Zelanda. Vedendo in questo un atto di insubordinazione, Filippo VI procede alla confisca dell’Aquitania.

È in questo momento che Edoardo ha una idea gravida di conseguenze: l’unico modo per liberare l’Aquitania dalle pretese francesi è diventare egli stesso re di Francia. Il 7 ottobre del 1337 Edoardo denuncia pubblicamente l’omaggio feudale, dichiarando Filippo VI usurpatore e reclamando la corona francese. Il 1 novembre dello stesso anno il vescovo di Lincoln, giunto a Parigi, lancia formalmente il guanto di sfida: scoppia così, nel modo più teatrale possibile, uno dei conflitti più sanguinari e devastanti del basso Medioevo.

 

BIBLIOGRAFIA

P. Contamine, La guerra dei Cent’anni, Bologna, Il Mulino, 2007

A. Prosperi, Dalla Peste Nera alla guerra dei Trent’anni, Torino, Einaudi, 2000

 

Crécy, 1346: il tramonto della cavalleria pesante in Europa

Edoardo III d’Inghilterra.
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Edoardo III d’Inghilterra non si trovava in una posizione invidiabile quando, il 26 agosto 1346, fu costretto a dare battaglia. Sul campo di Crécy, in Piccardia (nord della Francia), il logoro esercito inglese si trovò ad affrontare l’esercito francese al completo: ben cinquantamila armati, tra cui dodicimila cavalieri pesanti desiderosi di cacciare gli invasori dal sacro suolo di Francia. Per ribaltare una situazione disperata, l’unica carta giocabile dal sovrano inglese era la scelta del luogo dove combattere. Come vedremo si trattò di una scelta decisiva.

Ma come ci era arrivato l’esercito inglese in Piccardia? La battaglia di Crécy va inquadrata nel contesto della Guerra dei cent’anni (1337-1453) che vide la dinastia inglese dei Plantageneti ed il ramo di Valois della famiglia francese dei Capetingi affrontarsi per il controllo del trono di Francia. Nel luglio del 1346 Edoardo salpò alla volta della penisola del Cotentin in Normandia insieme al primogenito sedicenne, Edoardo il Principe Nero, e a circa dodicimila armati, in buona parte arcieri gallesi.

Con il grosso dell’esercito francese impegnato nell’assedio di Aigulloin in Guascogna, all’epoca possesso inglese, o disperso in varie guarnigioni tra la riva settentrionale della Senna ed il confine con le Fiandre, la Normandia era virtualmente indifesa e l’esercito inglese potè sbarcare indisturbato. Edoardo iniziò quindi una sistematica campagna di devastazione, razziando e dando alle fiamme ogni centro abitato posto sul cammino delle sue truppe.

I luoghi descritti nel post. Il luogo della battaglia è evidenziato in rosso.
Cartina opera dell’autore con l’aiuto di Pietro D’Orio

Il culmine fu raggiunto il 26 luglio a Caen, il principale centro culturale ed economico della regione. La città fu investita dall’assalto congiunto delle truppe di terra e della flotta inglese che aveva risalito il fiume Odon e, nonostante la strenua resistenza della guarnigione, venne espugnata in breve tempo: diverse centinaia di abitanti vennero massacrati, mentre la razzia si protrasse per ben cinque giorni. Sebbene all’epoca il saccheggio fosse la prassi per rifornire qualsiasi esercito, una devastazione di tale portata – che nel corso del conflitto divenne quasi un marchio di fabbrica dei comandanti inglesi – rimane un quesito aperto. Si può legittimamente supporre che che si trattò di un modo per mostrare ai francesi l’impotenza e l’incapacità del loro sovrano, cercando al tempo stesso di costringerlo a dare battaglia con le poche forze a sua disposizione.

Dopo la mattanza di Caen, Edoardo si rimise in marcia con la non troppo velata intenzione di raggiungere la Fiandre, dove nel frattempo era sbarcata una piccola forza inglese che si era unita ai rivoltosi locali. La fortuna, però, sembrava aver voltato le spalle al sovrano inglese.

Filippo VI di Francia.
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Dopo aver preso in consegna l’orifiamma, il sacro stendardo dei reali francesi conservato presso l’abbazia di Saint-Denis, il re di Francia Filippo VI emanò una chiamata alle armi generale nella regione compresa tra Rouen ed Amiens. Per guadagnare tempo affinché la campagna di reclutamento potesse dare i suoi frutti e per costringere il nemico a ritirarsi nuovamente verso la Normandia, diede ordine di abbattere la maggior parte dei ponti sulla Senna, distaccando consistenti guarnigioni a difesa dei pochi rimasti.

Quando l’avanguardia inglese giunse alle porte di Rouen, scoprendo che una nutrita forza nemica era già giunta in città, una certa inquietudine iniziò a serpeggiare tra le truppe.  Edoardo diede ordine di costeggiare la Senna in cerca di un guado o di un ponte, venendo seguito a distanza dall’esercito francese, padrone della sponda settentrionale. Come uscire dall’impasse? Il Plantageneto decise di giocarsi tutto puntando direttamente su Parigi, confidando in qualche reazione inconsulta da parte dell’avversario. L’azzardo funzionò, perché l’esercito francese abbandonò l’inseguimento, raggiungendo la capitale dopo una lunga marcia forzata, preparandosi ad affrontare un assedio.

Giunto alle porte di Parigi, Edoardo non provò nemmeno a saggiare le difese della città, ma attraversò la Senna su un ponte di fortuna costruito dai suoi genieri, con sommo scorno del sovrano francese. Quella che sembrava una beffa, però, iniziò ben presto a tramutarsi in tragedia. Filippo, infatti, temendo una eventualità del genere aveva dato ordine di fare terra bruciata in tutte le terre comprese tra la Senna e la Somme per privare gli inglesi di qualsiasi sostentamento. L’esercito invasore fu così costretto a sparpagliare i propri saccheggiatori su una area più vasta: i gruppi isolati diventarono così facile preda dei contadini locali, sottoponendo così le forze inglesi ad un lento e continuo stillicidio.

Edoardo il Principe Nero insieme al padre Edoardo III.
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A corto di rifornimenti e tallonato dall’esercito francese, desideroso di lavare nel sangue l’onta subita alle porte di Parigi, l’unica possibilità per Edoardo era quella di abbandonare il grosso del bottino e procedere verso la Somme e la Piccardia e qui unirsi con i rinforzi provenienti dalla Fiandre, con cui era costantemente in contatto. Come potessero comunicare due forze separate da decine e decine di chilometri di territorio nemico, lontane dalla costa, in una epoca in cui non esistevano le telecomunicazioni è uno dei grandi misteri della storia militare: non esistono ipotesi convincenti, sebbene sia pressoché pacifico che i due eserciti manovrarono in perfetta coordinazione.

Sfuggendo più volte al contatto con il nemico e dopo vari tentativi di attraversare il fiume, il 24 agosto l’esercito inglese riuscì a guadare la Somme dopo aver sbaragliato un consistente presidio francese nella battaglia di Blanchetaque. Giunto a Crécy il giorno successivo, Edoardo si rese conto della futilità di logorare ulteriormente le sue truppe già prostrate dalla lunga ritirata, decidendo così di dare battaglia l’indomani.

L’espansionismo giapponese durante il periodo Meiji (1868-1912)

Mutsuhito nel 1890.
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Parlando di espansionismo giapponese, si è portati a pensare alla prima parte del periodo Showa (1926-1989) con le campagne militari in Manciuria e in Cina e con la creazione della Sfera di co-prosperità della Grande Asia orientale durante il secondo conflitto mondiale. In realtà la tendenza ad ingrandirsi all’esterno dell’arcipelago nipponico si era già palesata, seppur con motivazioni diverse, già durante il regno dell’imperatore Mutsuhito. Di lui ho già parlato ampiamente in relazione alla restaurazione del potere imperiale e al conseguente processo di modernizzazione del paese (quiqui), mentre con questo post ci concentreremo sulla sua politica estera.

Il Giappone dell’epoca viveva in uno stato di relativa sudditanza – economica e in parte psicologica – nei confronti delle potenze occidentali, a causa della firma dei cosiddetti “trattati ineguali”. Si trattava di veri e propri contratti capestro che, a fronte di enormi concessioni commerciali alle nazioni europee e agli Stati Uniti, garantivano poco o nulla ai nipponici. Priorità del nuovo governo imperiale divenne presto quella di ottenerne una revisione in termini più paritari e al tempo stesso evitare di essere colonizzati da Francia e Inghilterra, che all’epoca si stavano espandendo in Asia orientale. Se da un lato l’azione di governo puntò ad entrare nel novero delle “nazioni civili” attraverso modernizzazione e industrializzazione, dall’altro puntò ad ottenere il rispetto attraverso l’uso delle armi e di una versione propria della politica delle cannoniere.

Soldati giapponesi e aborigeni taiwanesi nel 1874
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Il primo episodio in tal senso fu la spedizione punitiva a Taiwan del 1874, azione di rappresaglia all’uccisione di una cinquantina di marinai provenienti dal Regno delle Ryūkyū, formalmente stato indipendente ma in realtà tributario del Giappone, da parte di alcuni aborigeni taiwanesi. Il governo giapponese, diede voce al sovrano delle Ryūkyū, chiedendo un risarcimento e la punizione dei responsabili alla Cina, che esercitava la sua giurisdizione sull’isola, ottenendo un secco rifiuto. In risposta a ciò i nipponici inviarono un contingente di tremila uomini a Taiwan. Con la pretesa di punire gli esecutori dell’eccedio, il governo nipponico intendeva procedere all’occupazione della regione. Nonostante il sostanziale fallimento dell’operazione, a causa delle malattie che falciarono il corpo di spedizione e della decisa reazione cinese, questa dimostrò la determinazione giapponese di far valere i propri diritti anche ricorrendo alle armi.

Inoltre l’episodio contribuì a chiarire definitivamente lo status delle Ryūkyū. L’arcipelago, infatti, si trovava da più di due secoli nella scomoda situazione di essere sia tributario del Giappone che della Cina. Con la forza delle lusinghe e la promessa di un titolo nobiliare con relativa rendita annuale, il governo giapponese convinse l’ultimo sovrano delle isole ad abdicare e a trasferire la piena sovranità a Tokyo. L’annessione venne formalizzata nel 1879 e le isole vennero inserite nella neonata prefettura di Okinawa.

Sho Tai, ultimo re delle Ryukyu.
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Ad attirare maggiormente l’attenzione giapponese era però la Corea. Da secoli i coreani stavano attuando una politica isolazionista in tutto e per tutto simile al sakoku dei Tokugawa, mantenendo rapporti solo con la Cina e con il daimyo di Tsushima. Sin dal 1868, anno della restaurazione del potere imperiale, il governo di Tokyo tentò di allacciare relazioni diplomatiche senza intermediazione. Il tentativo si concluse con un fallimento totale, tanto che gli emissari imperiali non vennero nemmeno ricevuti.

Se già nel 1873 Saigo Takamori aveva proposto una spedizione nella penisola, per creare una valvola di sfogo al crescente malumore all’interno della classe dei samurai, bisognerà aspettare tre anni prima di arrivare ad uno scontro diretto. Nel 1876, in occasione di un periodo di grave instabilità politica, dovuto a questioni di successione dinastica, i giapponesi decisero di passare all’azione militare in modo da prevenire qualsiasi tentativo di penetrazione occidentale in Corea. Il modus operandi fu in tutto simile alla diplomazia delle cannoniere europea: l’invio di una nave militare presso l’isola di Gangwha causò la prevedibile reazione dei forti costieri che in breve tempo vennero messi a tacere. Messo con le spalle al muro dalla minaccia di una invasione vera e propria, il governo coreano fu costretto a firmare il Trattato di Amicizia nippo-coreano. Il documento prevedeva, oltre all’apertura di relazioni diplomatiche e commerciali attraverso il porto di Busan, l’extraterritorialità dei cittadini nipponici ed una serie di altre concessioni come la libertà, per i marinai giapponesi, di sorvegliare e mappare le coste della penisola. Il trattato di Gangwha fu a tutti gli effetti un trattato ineguale, il primo stretto da una potenza asiatica ai danni di un’altra: nemmeno un quarto di secolo dopo l’arrivo delle navi nere di Perry, il Giappone aveva già fatto suo il lato peggiore del mondo occidentale.

Lo sbarco dei soldati giapponesi a Gangwha.
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A partire da questo momento le ingerenze di Tokyo negli affari interni coreani diventarono una costante, aprendo la strada ad un confronto diretto con la Cina imperiale, che a sua volta aveva fortissimi interessi nell’area. Si venne così a creare una spaccatura all’interno della società coreana tra i conservatori filo-cinesi ed i progressisti che vedevano nel Giappone un modello da imitare per l’edificazione di una via asiatica alla modernità. Le due fazioni si trovarono ben presto ai ferri corti e furono proprio i progressisti a fare la prima mossa.

Sfruttando il violento scontro franco-cinese per il controllo dell’Annam (l’odierno Vietnam centrale) nel corso del 1884, un gruppo di progressisti organizzò un colpo di stato ai danni degli avversari. Con l’appoggio del governo giapponese, presero in custodia il sovrano coreano e diedero il via ad una epurazione degli avversari. L’intervento della guarnigione cinese di Seul, forte di un migliaio di uomini, costrinse i congiurati a fuggire in Giappone nell’arco di un paio di giorni. Non solo Tokyo rifiutò di consegnare i fuggitivi alle autorità coreane, ma con l’invio di sette navi da guerra riuscì a strappare la firma di un nuovo trattato ineguale nel 1885. Nello stesso anno, infine, Cina e Giappone firmarono la Convenzione di Tientsin che sanciva il ritiro immediato delle truppe dei due paesi dalla Corea, oltre al divieto di invio di forze militari senza avvisare preventivamente l’altra potenza. Di fatto la convenzione stabilì la nascita di una sorta di co-protettorato sino-giapponese sulla penisola, senza tuttavia costituire un deterrente efficace contro nuove escalation.

I rapporti tra i due paesi rimasero estremamente tesi, anche a causa di continue provocazioni reciproche, e deflagrarono in modo definitivo nel 1894, in occasione della cosiddetta Rivolta Donghak. Le politiche oppressive di un governatore locale causarono una violenta rivolta contadina, in special modo tra coloro che avevano abbracciato la dottrina Donghak, un curioso sincretismo tra sciamanesimo coreano e insegnamenti neo-confuciani, che propugnava la lotta per la democrazia e i diritti umani basilari.

Gojong di Corea.
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Il governo coreano, terrorizzato dalla prospettiva del dilagarsi incontrollato della rivolta, chiese aiuto al governo cinese, che inviò un corpo di spedizione. Il Giappone accusò la Cina di aver violato la Convenzione di Tientsin, in quanto non informato dell’invio di truppe da parte del Celeste Impero, ed inviò a sua volta un esercito in Corea. Le truppe nipponiche, anziché contrastare i ribelli, puntarono direttamente su Seul dove presero in ostaggio re Gojong e rimpiazzarono il governo esistente con un altro composto interamente da elementi filo-giapponesi. Il nuovo governo conferì al Giappone il diritto di espellere le forze cinesi dal paese.

Cristianesimo nel Giappone feudale tra evangelizzazione e persecuzione

Un samurai che snuda la lama della sua katana e si lancia nella mischia invoncando la protezione di Gesù Cristo e della Vergine Maria. Un daimyo, un grande feudatario, inginocchiato a capo scoperto in attesa di essere battezzato da un missionario europeo. Si tratta di immagini che si discostano leggermente dalla nostra idea di Giappone, eppure furono estremamente comuni tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, durante i decenni conclusivi del Sengoku jidai, il periodo degli stati combattenti.

L’arrivo, del tutto casuale, di alcuni mercanti portoghesi sulle coste dell’isola di Tanegashima, a sud del Kyushu, ebbe conseguenze durature. Il contatto con gli europei, infatti, non soltanto aprì le porte del Sol Levante alle merci provenienti dal Vecchio Mondo, inaugurando così una serie di fruttuosi scambi commerciali, ma permise l’introduzione delle armi da fuoco – per saperne di più clicca qui – e l’arrivo di missionari cattolici che si prodigarono fin da subito a diffondere il Verbo.

Giovanni III  ritratto da Cristovao Lopes.
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Durante il regno di Giovanni III d’Aviz, la Corona portoghese aveva affidato alla neonata Compagnia di Gesù il compito di evangelizzare i possedimenti coloniali nelle Indie Orientali, all’epoca composti da una serie di avamposti commerciali dislocati tra India, Molucche e Macao. A tal scopo il sovrano nominò responsabile niente meno che Francesco Saverio, uno dei fondatori dell’ordine gesuita. Costui, dopo aver organizzato l’apostolato missionario a Goa, raggiunse il Giappone nel 1549, sbarcando a Kagoshima, capoluogo della provincia di Satsuma, e operando fin da subito le prime conversioni.

In genere i giapponesi si dimostrarono tolleranti nei confronti della nuova fede, così come lo erano stati secoli prima nei confronti delle dottrine buddhiste. La diffusione del cristianesimo fu sicuramente aiutata da una serie di equivoci, nati da alcune somiglianze con il Dharma buddhista. L’idea di una rinascita in cielo, infatti, non era del tutto avulsa dagli insegnamenti della scuola della Terra Pura, mentre la figura di Cristo non appariva troppo diversa da quella di Amida. Perfino tra i samurai, la casta dei guerrieri, si diffuse una certa simpatia nei confronti di Ignazio de Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù: si trattava pur sempre di un soldato di Cristo e tra guerrieri vi è sempre stata una forma di mutuo rispetto.

Le conversioni riguardarono anche numerosi feudatari, i daimyo, presto imitati dai loro sottoposti. Nei feudi di Bungo e Amakusa, accadde addirittura che gli abitanti fossero obbligati a seguire la conversione del loro signore. In molti casi, però, queste furono dettate più da motivi economici che non prettamente religiosi: molti feudatari, infatti, credevano di poter ottenere accordi commerciali più vantaggiosi – ed un numero maggiore di armi da fuoco – se avessero abbracciato la fede degli europei. Non deve quindi sorprendere che in più di una provincia i missionari venissero allontanati quando non erano accompagnati da mercanti.

L’opera di evangelizzazione, tuttavia, non fu priva di resistenze, soprattutto da parte del clero buddhista una volta che emersero insanabili differenze dottrinali. Uno dei pensatori più interessanti in questo frangente è indubbiamente Suzuki Shosan (1579-1655). Egli interpretò la teologia cristiana alla luce della fede buddhista. Dio, il Deus dei portoghesi, altro non è un grande Buddha, al quale si attribuisce una libertà infinita e la creazione dell’universo. In questa ottica Cristo diventa una sua manifestazione personale, un avatar. Tuttavia la pretesa cristiana dell’adorazione di un solo Buddha appare illogica agli occhi dei fedeli shinto-buddhisti. Perchè mai abbandonare Amida, Kannon e gli innumerevoli kami a favore di un Dio che manda il Cristo in croce per espiare i peccati dell’umanità?

Francesco Saverio.
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A peggiorare la situazione contribuì l’intransigenza di molti missionari. Lo stesso Francesco Saverio predicava l’esclusivismo religioso, secondo cui l’unica religione accettabile era quella cristiana. Il suo zelo gli costò l’espulsione dal feudo di Satsuma appena un anno dopo l’accoglienza calorosa che gli era stata accordata dal signore locale. Come se ciò non bastasse l’eccesso di zelo dei neoconvertiti provocò il danneggiamento e la distruzione di diversi santuari buddhisti, il che causò un profondo malcontento.

Tra alti e bassi, l’opera dei missionari fu coronata dal successo. Alla morte di Oda Nobunaga, nel 1582, in Giappone si trovavano 200 chiese ed oltre 250.000 fedeli, concentrati in prevalenza nei dintorni di Nagasaki, città-sede delle missioni commerciali portoghesi. L’opera dei missionari cristiani fu enormemente favorita dal signore del clan Oda. Nella sua opera di riunificazione del paese, infatti, si era trovato ad affrontare i potenti monasteri buddhisti e gli estremisti della lega Ikko-ikki. Convinto che la diffusione del Cristianesimo potesse arginare l’influenza dei suoi nemici, Nobunaga non si fece il minimo problema a fornire appoggio e protezione ai missionari cattolici.

Il suo successore, Toyotomi Hideyoshi, continuò con la politica di supporto ai cristiani, ma le cose cambiarono nel 1587. Tornato a Kyoto dopo aver sottomesso il dominio di Satsuma, il feudo più importante del Kyushu, e dopo aver incontrato i leader gesuiti a bordo di alcuni vascelli portoghesi, decretò l’espulsione di tutti i preti stranieri dal paese entro venti giorni, lasciando presagire la messa al bando della religione cristiana. I gesuiti furono accusati di aver fomentato l’odio contro i fedeli shinto-buddhisti, mentre ai portoghesi fu rinfacciato il rapimento di diversi giapponesi poi venduti come schiavi. L’applicazione del decreto fu quanto mai blanda. I missionari finsero di partire alla volta di Macao, ma in massima parte si nascosero nei dintorni di Nagasaki. I mercanti portoghesi, infine, poterono continuare i loro traffici esattamente come prima.

A cosa fu dovuto questo repentino cambio di atteggiamento? Dal suo palazzo di Kyoto, Hideyoshi non si era mai reso conto della reale situazione nel Kyushu. Il numero di convertiti era aumentato enormemente, mentre nell’importante centro di Nagasaki il potere effettivo era esercitato dai gesuiti e di conseguenza dai portoghesi, in virtù della consuetudine della corona portoghese di considerare l’evangelizzazione come un affare di Stato. Insomma, il reggente vide nella penetrazione del cristianesimo una minaccia al suo potere, oltre ad un potenziale cavallo di Troia per la conquista del paese. Numerosi feudatari, infatti, erano in contatto diretto con le potenze europee proprio tramite il clero cattolico. L’editto del 1587 è quindi da leggersi come una sorta di grave avvertimento.

Memoriale dei Ventisei Martiri del Giappone a Nagasaki.
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Un fatto ben più grave accadde dieci anni dopo a Kyoto. Ventisei cristiani – i cosiddetti “martiri di Nagasaki” – tra cui sette francescani spagnoli, accusati di essere entrati illegalmente nel paese e di aver fatto opera di proselitismo, vennero torturati e crocefissi sulla collina di Tateyama. Anche in questo caso si trattò di un segnale destinato agli europei, una vera e propria dimostrazione di forza. La corona spagnola aveva di recente preso possesso delle Filippine, avvicinandosi pericolosamente alle coste nipponiche, dopo che i missionari ne avevano convertito la popolazione. A differenza del Portogallo, la Spagna era una vera e propria superpotenza: una minaccia che non poteva essere sottovalutata.

La morte di Hideyoshi (1598) e la battaglia di Sekigahara (1600) spianarono la strada a Tokugawa Ieyasu. Nonostante un’iniziale tolleranza nei confronti dei cristiani, Ieyasu non si fidava di loro. Anzi, il fatto che la dottrina cattolica fosse così diffusa proprio nei possedimenti dei principali tozama daimyo, i feudatari che a Sekigahara si erano schierati contro di lui e che ora erano esclusi dal governo del paese, lo spinse a mettere i cristiani sotto stretta sorveglianza. Il nuovo shogun, infatti, temeva non solo che i suoi ex nemici potessero rivolgersi alle potenze europee per sollevarsi contro il suo governo, ma anche che le conversioni di massa potessero spianare la strada ad una invasione spagnola.

Il punto di rottura giunse nel 1612. Gli spagnoli continuavano imperterriti ad inviare più missionari che mercanti, mentre la comparsa nel Pacifico delle flotte olandesi ed inglesi offrì allo shogun la possibilità di commerciare con nazioni meno bigotte e non legate a Roma. La persecuzione iniziò blandamente, sotto forma di editti che invitavano i cristiani alla moderazione. Ben presto, però, le misure dello shogunato divennero più drastiche.

Nel 1614 la repressione colpì soprattutto la zona di Nagasaki, con violenza maggiore rispetto al passato. Il 27 gennaio, Ieyasu promulgò un nuovo editto che prevedeva l’espulsione di tutti i missionari e preti stranieri, oltre a mettere fuorilegge il Cristianesimo. Per la prima volta i convertiti giapponesi erano in pericolo di vita a causa della loro fede. Dal canto loro i missionari europei, convinti di avere a che fare con una nuova versione dell’editto del 1587, fecero finta di lasciare il paese. Gli eventi successivi dimostrarono che si sbagliavano enormemente.

Statua della Madonna con le sembianze di Kannon.
Fonte Wikipedia

Nel 1618 il nuovo shogun, Tokugawa Hidetada, diede il via ad una persecuzione in grande stile. Ne furono vittime tanto i giapponesi convertiti, quanto i missionari stranieri. Se per questi ultimi le autorità nipponiche si limitavano alla deportazione fuori dal paese, i primi furono oggetto di vessazioni di ogni tipo. Tra chi decise di abiurare pubblicamente, in molti continuarono a praticare in clandestinità, diventando kakure kirishitan, letteralmente cristiani nascosti. Costoro apparivano in pubblico come devoti buddhisti, ma nel segreto delle loro abitazioni continuavano a celebrare i riti cattolici. Le preghiere vennero modificate in modo da assomigliare a canti buddhisti, mentre i santi e la Madonna iniziarono ad essere raffigurati come manifestazioni del Buddha stesso.

La situazione peggiorò ulteriormente con l’ascesa di Tokugawa Iemisu. I missionari sorpresi all’interno del paese vennero torturati a morte, mentre i carnefici escogitarono un metodo quasi infallibile, chiamato yefumi, per smascherare i kakure kirishitan: agli arrestati veniva intimato di calpestare una immagine sacra e in caso di rifiuto venivano suppliziati, insieme al resto della loro famiglia. La legge giapponese dell’epoca, infatti, non riconosceva il concetto di responsabilità individuale: per colpa delle azioni di un singolo le sanzioni potevano colpire tutto il suo nucleo famigliare e, nei casi più gravi, tutto il suo villaggio.

Tavoletta usata per lo yefumi.
Fonte Wikipedia

Nel 1637, la rivolta di Shimabara rappresentò l’ultimo colpo di coda dei convertiti giapponesi. Diverse migliaia di contadini appartenenti all’ex feudo cristiano di Arima, nel Kyushu settentrionale, si ribellarono al loro nuovo feudatario. La reazione dello shogunato fu spietata e la rivolta venne soffocata nel sangue, anche grazie all’aiuto offerto dalla flotta olandese, che bombardò con efficacia le roccaforti ribelli. La locale comunità cristiana venne passata a fil di spada e sostituita da coloni provenienti da altre parti del Giappone. Le autorità infine istituirono nella zona il sistema del teruake: ogni abitante venne affiliato ad un tempio buddhista che rilasciava un certificato di “ortodossia” e fedeltà al governo shogunale.

Ulteriore conseguenza della rivolta, su scala molto più grande, fu l’inaugurazione della politica del sakoku, ossia dello stato chiuso. Agli stranieri venne proibito l’accesso al suolo giapponese – nel 1640 degli ambasciatori portoghesi vennero decapitati per essere approdati – con l’unica eccezione degli olandesi, cui era permesso l’attracco a Nagasaki. Come se ciò non bastasse a diverse migliaia di cittadini nipponici residenti all’estero, tra cui molti cristiani che si erano rifugiati nelle Filippine per sfuggire alle persecuzioni, fu impedito il rientro in patria.

Le persecuzioni contro i kakure kirishitan proseguirono ancora per qualche decennio, con intensità calante. Le ultime crocefissioni sono attestate intorno al 1660. Il culto clandestino riuscì tuttavia a sopravvivere ben celato agli occhi delle autorità e, quando a seguito della Restaurazione Meiji, nella seconda metà dell’Ottocento venne ristabilita le piena liberta di culto, diverse migliaia di cristiani nascosti poterono tornare a praticare alla luce del sole.

 

BIBLIOGRAFIA

K. G. Henshall, Storia del Giappone, Milano, Arnoldo Mondadori, 2016

R. H. P. Mason, J. G. Caiger, A History of Japan, Rutland, Tuttle Publishing, 1997

K. M. Panikkar, Storia della dominazione europea in Asia, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1958

L. V. Arena, Lo spirito del Giappone. La filosofia del Sol Levante dalle origini ai giorni nostri, BUR Rizzoli, 2016

L. V. Arena, Samurai. Ascesa e declino di una grande casta di guerrieri, Milano, Arnoldo Mondadori, 2002

Breitenfeld, 1631. L’ascesa di Gustavo II Adolfo di Svezia

Gustavo II Adolfo a Breitenfeld (opera di Johann Walter)
fonte: Wikipedia

17 settembre 1631, Breitenfeld, Elettorato di Sassonia, ad una manciata di km dalla città di Lipsia. Un poderoso esercito cattolico, comandato dal conte di Tilly, si scontra con l’esercito svedese, guidato dal re Gustavo II Adolfo, cui era aggregato un contingente sassone. Nonostante la superiorità numerica, dovuta alla fuga delle truppe sassoni, la battaglia si concluse con una completa sconfitta della compagine imperiale: nasceva così la leggenda del Leone di Mezzanotte.

L’inizio dell’impegno svedese in terra tedesca risaliva ad appena un anno prima, quando Gustavo sbarcò sull’isola di Usedom, a poca distanza da Stettino, con un esercito di 13.000 uomini. All’epoca la Germania era devastata da una serie di lotte fratricide tra nobiltà cattolica e protestante, iniziate con la Defenestrazione di Praga del 1618 e passate alla storia con il nome di Guerra dei Trent’Anni.

Ferdinando II d’Asburgo
fonte: Wikipedia

Il sovrano svedese assurse immediatamente al ruolo di paladino dello schieramento protestante, ponendosi come protettore dei suoi correligionari dai tentativi accentratori dell’Imperatore – il cattolicissimo Ferdinando II d’Asburgo – e dalle intemperanze delle sue soldataglie. Egli stesso alimentò il proprio mito, tanto che successivamente venne dipinto come un guerriero disinteressato che combatteva a fianco degli oppressi per la realizzazione di una monarchia costituzionale e liberale (sic!). Le fonti coeve, tuttavia, ci narrano un’altra storia.>p>

Gustavo II fu un sovrano bellicoso, un freddo calcolatore, che approfittò di un momento di grande debolezza dell’Impero per mettere in atto il proprio disegno egemonico sul Baltico. Cosa che effettivamente riuscì, dato che fino al secolo successivo la Svezia fu una delle superpotenze dell’epoca.

Corazzieri imperiali
fonte: Wikipedia

Come fu possibile che un paese scarsamente abitato – i dati demografici ci parlano di un milione scarso di abitanti – come la Svezia riuscì a prevalere su paesi ben più ricchi e densamente popolati? Una certa importanza la ebbero i fondi francesi, che permisero al sovrano svedese il mantenimento di un’armata spropositata senza dissestare le finanze del regno, ma ancora più determinante fu il comportamento delle milizie cattoliche. Quando le truppe di Tilly saccheggiarono la ricca città di Magdeburgo, faro del protestantesimo tedesco, riducendola in cenere e causando la morte della maggior parte dei suoi ventimila abitanti, i principi protestanti si schierarono compatti a fianco di Gustavo che ottenne senza il minimo sforzo ulteriore denaro, truppe di rinforzo e rifornimenti.

Il fattore più importante del successo svedese, tuttavia, fu l’insieme delle grandi riforme militari introdotte dal re di Svezia. Analizzare la battaglia di Breitenfeld ci permette di coglierle nella loro interezza e di comprendere a pieno il loro impatto sul campo.

Sul campo di battaglia una forza disciplinata e ben addestrata è in grado di prevalere anche in condizione di grave inferiorità numerica e l’esercito svedese era una delle compagini militari meglio addestrate dell’epoca. Gustavo II stabilì una leva ventennale obbligatoria per tutti gli svedesi atti alle armi, sebbene a conti fatti soltanto un uomo su dieci finiva sotto le armi. I restanti nove venivano tassati per provvedere al suo equipaggiamento: le forniture erano infatti di compentenza dello Stato e in questo il sistema svedese superò quello introdotto in epoca coeva dal Wallenstein, gettando i semi di quella che successivamente diventerà la logistica. Un sistema di questo tipo era tuttavia estremamente gravoso per le finanze di un paese non certo ricco come la Svezia del XVII secolo, tanto che durante l’avventura in terra tedesca solo una piccola parte dell’esercito, la colonna vertebrale per così dire, era formata da veterani di lungo corso che avevano già avuto il battesimo del fuoco contro la Danimarca, la Polonia e la Russia. Il resto della truppa era costituito da mercenari e da contingenti alleati, tutti addestrati a combattere “alla svedese”.

Statua del conte di Tilly presso il Museo di Storia Militare di Vienna
fonte: Wikipedia

Sul campo di Breitenfeld, Tilly schierò il proprio esercito nella consueta formazione a tercio, termine di origine spagnola con cui all’epoca si indicavano formazioni miste di fanteria, di dimensioni variabili, composte da picchieri e archibugieri. Nel corso del tempo la proporzione tra le due componenti variò e all’epoca della battaglia era diventata canonica una composizione con due terzi di armi da fuoco e un terzo di picche. Il comandante cattolico optò per formazioni relativamente piccole: millecinquecento uomini disposti su dieci file da centocinquanta uomini ciascuna. Dodici di queste formazioni furono schierate in formazioni da tre tercio, con quello centrale leggermente avanzato rispetto a quelli laterali, mentre altre due vennero dispiegati sui fianchi dello schieramento.

Gustavo II Adolfo rimescolò le carte in tavola, perfezionando le riforme militari recentemente introdotte nelle Province Unite, l’attuale Olanda, da Guglielmo e Maurizio d’Orange. L’unità base dell’esercito svedese era il battaglione, che nella cavalleria diventava squadrone, composto da circa 400 uomini e suddiviso a sua volta in quattro compagnie di cento uomini. Due battaglioni andavano a formare un reggimento di circa 800 uomini e due reggimenti formavano una brigata di circa 1600 soldati. Ogni unità era dotata di propri ufficiali e questo rendeva le truppe svedesi molto più flessibili e mobili rispetto al tercio cattolico.

Matthias Sindelar, il Wunderteam e l’Austria degli anni Trenta

Matthias Sindelar, il Mozart del pallone

Il mondo del pallone può essere usato come filo conduttore per raccontare la storia, o parte di essa, di un paese? Non lo so, ma ho voluto provarci in ogni caso. A vederla oggi, l’Austria non sembra un paese dalla solida tradizione calcistica. Eppure negli anni ’30 la nazionale austriaca raggiunse vette di gioco sublimi, diventando una delle selezioni più forti al mondo, tanto da meritarsi l’appellativo di Wunderteam (letteralmente “la squadra delle meraviglie”).

Artefice ed anima di questo successo fu Hugo Meisl, uno dei migliori allenatori mai nati nel paese alpino, se non il migliore. Il suo era un calcio incredibilmente moderno per i tempi, fatto di rapidi passaggi in successione ed incentrato sulla fludità dei cambi di ruolo in campo. Stella e capitano del Wunderteam era l’altrettanto meraviglioso Matthias Sindelar, giocatore capace di guadagnare la nomea di Mozart del pallone.

Tra il 1931 ed il 1932, la selezione austriaca inanellò una serie di 14 vittore consecutive, aggiudicandosi così la Coppa Internazionale, l’antenata degli attuali Europei. Ai mondiali del 1934 la squadra arrivò fino alla semifinale, dove venne battuta dalla nazionale italiana, guidata da Vittorio Pozzo, che vincerà la competizione. Seguiranno un secondo posto all’edizione successiva della Coppa Internazionale ed un argento alle Olimpiadi di Berlino nel 1936.

L’estensione della Repubblica dell’Austria tedesca nel 1918, confrontata con i confini dell’Austria contemporanea.
Fonte Wikipedia

I pronostici per i mondiali del 1938 erano decisamente favorevoli al Wunderteam, ma la prematura morte di Meisl e gli eventi internazionali segneranno la fine di quella che fu una delle più belle nazionali al mondo. A questo punto occorre fare un piccolo salto indietro di circa venti anni. Nell’autunno del 1918, ancora prima della sconfitta sul campo, l’Impero austro-ungarico crollò come un castello di carta: uno dopo l’altro i vari territori che componevano la Duplice Monarchia dichiararono l’indipendenza, modificando radicalmente l’assetto geopolitico dell’Europa centro-orientale e dei Balcani. Il 12 novembre dello stesso anno venne proclamata la Repubblica dell’Austria tedesca, un’entità statale comprendente il territorio dell’odierna Austria e, almeno a livello formale, il Sudtirolo, il nord della Slovenia e le zone a maggioranza tedesca dei Sudeti, nata con lo scopo dichiarato di condurre il paese verso un’unione con la Germania. Tale proposito venne tuttavia frustrato l’anno successivo dalla firma del Trattato di Saint Germain che, oltre a ridurre l’Austria alle dimensioni attuali, proibiva esplicitamente la fusione tra i due paesi di lingua tedesca.

La neonata repubblica austriaca ebbe una vita piuttosto travagliata. Il paese era infatti attraversato sia da forti spinte centrifughe, sia percorso da una profonda spaccatura tra la capitale governata dai socialdemocratici – la cosiddetta Vienna Rossa – e le città industriali, dove il partito comunista trovava sempre maggiori consensi tra gli operai, da un lato ed il resto del paese, molto più conservatore ed orientato sulle posizioni del partito cristiano-sociale, dall’altro. La presenza di diversi corpi paramilitari legati ai vari partiti politici portò a numerosi episodi di violenza, il più famoso dei quali è senza dubbio la rivolta del luglio 1927. A seguito dell’assoluzione di tre nazionalisti, responsabili della morte di un veterano e di un bambino, il partito socialdemocratico proclamò lo sciopero generale contro il governo, all’epoca retto dai cristiano-sociali. Una folla inferocita si riversò nelle strade della capitale diretta verso il Parlamento, ma, non riuscendo a sfondare il cordone di polizia, deviò verso il Palazzo di Giustizia che venne dato alle fiamme. A questo punto le forze di polizia, armate di fucili, aprirono il fuoco sulla folla: si contarono 89 morti e oltre 600 feriti.

Engelbert Dollfuss

La rivolta di luglio radicalizzò ulteriormente gli elementi conservatori, portando ad una escalation di violenza che si trascinò fino agli anni ’30. Tale radicalizzazione si manifestò anche con l’elezione di Engelbert Dollfuss a cancelliere nel maggio del 1932. Dollfuss improntò la sua azione di governo all’autoritarismo fondando il Vaterländische Front (Fronte Patriottico), con lo scopo dichiarato di riunire tutti i patrioti austriaci in un singolo partito. L’anno successivo il cancelliere austriaco riuscì a sospendere i lavori del parlamento e a rendere il Fronte Patriottico l’unico partito legale in Austria, stroncando nel sangue la resistenza dello Schutzbund socialdemocratico. Nasceva in questo modo il cosiddetto “austrofascismo”, un regime che attingeva tanto dal conservatorismo cattolico e dal nazionalismo austriaco, quanto dal corporativismo e dal fascismo italiano. Proprio l’Italia fascista diventò il principale alleato di Dollfuss, che ora doveva affrontare la duplice minaccia proveniente dai nazionalsocialisti austriaci foraggiati dalla Germania, dove nel frattempo era diventato cancelliere Adolf Hitler, che non faceva alcun mistero dei propri intenti espansionistici.

Furono proprio i nazisti austriaci, appoggiati dal governo federale bavarese, a mettere in scena un tentativo di colpo di stato nel luglio del 1934. Nonostante l’uccisione del cancelliere da parte dei cospiratori, il resto del governo austriaco riuscì a fuggire, mentre lo schieramento di quattro divisioni italiane sul Brennero consigliò ad Hitler di non intervenire mentre i golpisti venivano schiacciati dalle forze fedeli al Fronte Patriottico.

Il nuovo cancelliere austriaco, Kurt von Schuschnigg, si trovò presto ad affrontare un quadro geopolitico radicalmente diverso da quello del suo predecessore. La guerra di aggressione in Abissinia ed il fallimento del Fronte di Stresa avevano isolato diplomaticamente l’Italia che lentamente iniziò a spostarsi su posizioni sempre più filo tedesche. La Germania, da parte sua, dopo la rimilitarizzazione della Renania aveva ripreso la sua politica di ingerenza negli affari interni austriaci, tanto che, nel 1936, i due paesi avevano sottoscritto un trattato contente una clausola segreta che imponeva l’ingresso di esponenti filo nazisti all’interno del governo di Vienna.

Parata per l’Anschluss a Vienna.
Fonte Bundesarchiv

Hitler aspettò pazientemente fino all’inizio del 1938, quando impose a von Schuschnigg un vero e proprio ultimatum: pena l’occupazione militare del paese, l’Austria avrebbe dovuto rendere nuovamente legale il partito nazista austriaco ed inserire tre suoi esponenti nella compagine di governo. Il cancelliere accettò le condizioni, decisione che venne accolta con manifestazioni di giubilo da parte dei simpatizzanti nazisti. La pressione tedesca si fece sempre più opprimente, tanto che Hitler pretese e ottenne la destituzione di von Schuschnigg che venne sostituito dal fedelissimo Seyss-Inquart, un nazista della prima ora. Nel pomeriggio dell’11 marzo, infine, le truppe della Wehrmacht iniziarono l’occupazione del paese, dopo che l’ambasciatore tedesco a Roma ebbe la certezza del non intervento italiano.

La scheda elettorale del referendum truffa. Notare la posizione centrale e le maggiori dimensioni del “sì” rispetto al “no”. Fonte Wikipedia

L’annessione ed il conseguente referendum truffa sancirono il fato dell’Austria e della sua nazionale. Destino del Wunderteam, infatti, era quello di confluire nella nuova selezione del Reich tedesco. Per celebrare l’annessione dell’Austria e per creare una sorta di scenografico passaggio di testimone calcistico, i gerarchi nazisti idearono una di quelle messe in scena che tanto piacciono ai regimi: la nazionale austriaca avrebbe indossato per un’ultima volta i propri colori per giocare e, almeno nelle intenzioni degli alti papaveri del Reich, perdere contro la nazionale tedesca. Come data venne scelto il 3 aprile 1938. L’Anschlussspiel, questo il nome dato all’evento dalla propaganda del regime, entrò negli annali della storia del calcio, consegnando Sindelar alla leggenda.

Il capitano, infatti, giocò la migliore partita della sua carriera, facendosi beffe degli avversari, tanto da permettersi di sbagliare di proposito davanti alla porta tedesca, prima di segnare il vantaggio austriaco al 70′. Nel finale il gol di Karl Sesta sancì la vittoria del Wunderteam per 2-0.

Alla fine dell’incontro, il cerimoniale prevedeva che tutti i giocatori coinvolti nell’evento omaggiassero le autorità con il saluto nazista. Sesta e Sindelar, che in occasione della prima rete era andato a festeggiare proprio sotto la tribuna centrale dove sedevano i gerarchi, furono gli unici a rifiutarsi. Un atto di coraggio tutt’altro che scontato nell’Austria dell’epoca.

La tomba di Sindelar a Vienna

Convocato successivamente nella nazionale del Reich, Sindelar non solo rifiutò sdegnosamente, ma in aperta polemica appese direttamente le scarpe da calcio al chiodo, ritirandosi a vita privata. Per nulla al mondo avrebbe indossato i colori della Germania nazista. Morirà poco dopo, agli inizi del 1939, in circostanze mai del tutto chiarite: se l’autopsia indicò in un avvelenamento da monossido di carbonio la causa della morte, resta comunque vero che l’ex campione fosse sorvegliato dalla Gestapo e che le autorità viennesi conclusero le indagini in modo piuttosto sbrigativo. Presumibilmente non sapremo mai la verità sulla morte di Sindelar, in quanto i documenti relativi sono andati in massima parte distrutti o smarriti durante il secondo conflitto mondiale.  Al suo funerale parteciparono oltre 40.000 persone e nel sessantesimo anniversario della morte, nel 1999, venne eletto miglior calciatore austriaco di sempre.