Crécy, 1346: il tramonto della cavalleria pesante in Europa

Il campo di battaglia. In blu gli inglesi, in rosso i francesi.
Fonte Wikipedia

Il sovrano inglese si era così assicurato il non secondario vantaggio di decidere con largo anticipo il campo di battaglia. Decise si schierare il suo esercito su un terreno agricolo che lentamente saliva a formare una bassa collina, chiuso ai lati da ostacoli naturali – nella fattispecie un corso d’acqua e delle foreste – in modo da convogliare il nemico in una sorta di percorso obbligato. Così facendo riuscì a ridimensionare enormemente il vantaggio numerico di Filippo, le cui forze erano circa quattro volte superiori a quelle di Edoardo.

Quando nel pomeriggio del 26 agosto l’esercito francese – composto da dodicimila cavalieri pesanti, circa seimila balestrieri genovesi e un numero compreso tra i venti ed i venticinquemila fanti – raggiunse il campo di battaglia, si trovò di fronte circa dodicimila inglesi già perfettamente schierati in assetto difensivo, su un terreno solcato da fossati e altri ostacoli realizzati durante l’attesa. Memore delle esperienze fatte sui campi di battaglia scozzesi, Edoardo aveva ordinato che tutti combattessero appiedati, compresi i cavalieri che vennero inseriti, insieme ai lancieri, tra le fila degli arcieri, in modo da infondere loro coraggio. Gli inglesi schierarono anche cinque bombarde che ebbero un ruolo più che marginale nel corso della battaglia.

Filippo VI prese subito l’iniziativa, ordinando ai balestrieri di avanzare per ingaggiare il nemico dalla distanza, aprendo dei varchi nello schieramento avversario attraverso i quali avrebbe dovuto lanciarsi il fiore all’occhiello dell’esercito francese: la cavalleria pesante. La balestra era l’equivalente medievale di un fucile di grosso calibro. Con una gittata superiore a quella di un arco comune, era in grado di scagliare dardi piccoli e massicci in grado di perforare la corazza di un cavaliere da grande distanza. A differenza dell’arco, inoltre, non richiedeva un lungo addestramento per poter essere utilizzata con profitto. Di contro un balestriere necessitava di un tempo di ricarica infinitamente superiore a quello di un qualsiasi arciere, tanto da necessitare di un grande scudo, chiamato pavese, per proteggersi durante questa fase.

Balestrieri a Crècy. Si noti l’assenza degli scudi.
Fonte Wikipedia

A Crécy i balestrieri entrarono in battaglia mentre erano ancora in assetto di marcia, con i loro scudi rimasti nelle retrovie insieme ai carri delle salmerie. Inoltre erano spossati dalla lunga marcia sotto la canicola, placata solo da un violento temporale che però bagnò le corde delle balestre, rendendole così meno efficaci. Giunti a circa centocinquanta metri di distanza dal nemico, i genovesi – in realtà si trattava di mercenari provenienti un po’ da tutta l’Italia settentrionale – lanciarono una prima salva di dardi che tuttavia risultò inefficace. Di contro gli arcieri gallesi risposero con diverse scariche di frecce che causarono pesanti perdite nelle fila nemiche.

Demoralizzati, senza protezioni, subissati di frecce e terrorizzati dal fragore delle bombarde inglesi che nel frattempo erano entrate in azione, i balestrieri sbandarono iniziando ad abbandonare il campo. Su cosa accadde in quel momento le fonti non sono concordi. Alcuni dicono che gli italiani, accusati di tradimento, vennero attaccati dalla fanteria francese, mentre altri asseriscono che siano stati deliberatamente travolti dalla carica della cavalleria pesante. Quest’ultima opzione appare poco credibile, perché ciò avrebbe significato smorzare la potenza della carica, rendendola inutile. Appare molto più probabile che il conte di Alençon, comandante delle truppe montate francesi, abbia ordinato l’assalto credendo di aver scorto un varco nello schieramento avversario, coinvolgendo accidentalmente i balestrieri in ritirata.

Quali che fossero le motivazioni di fondo, i cavalieri francesi si trovarono a caricare su un terreno in salita, ammorbidito dal già citato temporale, costeggiato di ostacoli e pieno di fanti in ritirata in preda al panico. Alençon puntò direttamente allo stendardo del Principe Nero, convinto che Edoardo avrebbe rotto lo schieramento per correre in aiuto del suo primogenito. Il re inglese, però, non mosse un dito, convinto che suo figlio dovesse guadagnarsi gli speroni da solo. Prevedibilmente la prima carica francese, bersagliata da nugoli di frecce e poi arrestata definitivamente dagli uomini d’arme e dai lancieri inglesi, fallì miseramente con pesanti perdite, tra cui lo stesso Alençon.

Una carica di supporto, comandata da Giovanni I di Boemia si concluse alla stessa maniera. Nonostante fosse cieco, il re di Boemia e conte di Lussemburgo si fece legare al proprio destriero e partecipò personalmente all’azione, pensando così di infondere coraggio ai propri uomini. Anche lui morì spada in pugno, coronando così l’ideale della cavalleria medievale.

I francesi continuarono a caricare senza successo per altre tredici volte, venendo ogni volta respinti dopo aver pagato un pesante tributo in termini di perdite. Lo stesso Filippo VI venne raggiunto al volto da una freccia salvandosi per miracolo. Perso l’orifiamma e incalzato da un contrattacco della fanteria inglese, al calare delle tenebre il re francese ordinò la ritirata. Il re inglese, vittorioso su un nemico numericamente superiore, potè quindi dirigersi verso la città di Calais che venne posta sotto assedio a partire dai primi giorni di settembre.

La morte di Giovanni I del Lussemburgo in una incisione di Delort.
Fonte Wikipedia

Era già accaduto in passato, a Courtrai (1302) o a Morgarten (1315), che delle forze di fanteria riuscissero a sconfiggere delle truppe montate. Si era però sempre trattato di azioni secondarie, più simili ad atti di guerriglia ed imboscate che a battaglie campali vere e proprie. A Crécy morirono qualcosa come undici nobili, tra cui un re, e oltre millecinquecento cavalieri, in massima parte trafitti dai dardi scoccati da dei contadini. Contadini, fatto questo sì inusuale, che mantennero la posizione per tutta la durata della battaglia, nonostante le numerose cariche di cavalleria ed il confronto diretto con avversari meglio armati, meglio protetti e meglio addestrati.

Crécy cambiò le carte in tavola ed i rapporti di forza sul campo di battaglia, come dimostra il fatto d’arme, in tutto e per tutto simile, di Azincourt datato 1415. I cavalieri rinunciarono alle cotte di maglia per adottare le più protettive, ma al tempo stesso più ingombranti, armature a piastre e abbandonarono l’uso del cavallo per combattere a piedi. Durò comunque poco, il crepuscolo della cavalleria era ormai giunto alle sue battute finali. Commisurato alla sua utilità in battaglia, il costo di mantenimento di un singolo cavaliere appariva spropositato. Per un qualsiasi signore era molto più conveniente assoldare dei mercenari svizzeri, sulle cui formazioni a quadrato irte di alabarde si infranse la boria degli Asburgo e dei conti di Borgogna. Questa però è un’altra storia.

Ringrazio nuovamente Pietro D’Orio per avermi aiutato, fornendomi gli strumenti e le conoscenze, a realizzare la carta geografica che rappresenta i luoghi descritti. Con la pratica confido di riuscire a farne di migliori!

BIBLIOGRAFIA

M. Howard, La guerra e le armi nella storia d’Europa, Roma-Bari, Editori Laterza, 1978

P. Contamine, La guerra dei Cent’anni, Bologna, Il Mulino, 2007

A. Prosperi, Dalla Peste Nera alla guerra dei Trent’anni, Torino, Einaudi, 2000

D. Nicolle, Crécy 1346. Triumph of the Longbow, Oxford, Osprey Publishing, 2002

 

 

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