Toccata e fuga a Varsavia (25-27 luglio 2018)

Lo skyline di Varsavia. Il Palazzo della Cultura e della Scienza è in primo piano
Foto dell’autore

Il mio arrivo a Varsavia non è dei migliori. Il volo da Leopoli decolla con un’ora di ritardo sulla tabella di marcia, mentre nella capitale polacca il traffico dell’ora di punta è tale da congestionare anche i grandi viali a quattro corsie: per coprire la distanza tra l’aeroporto, dedicato al celeberrimo compositore Chopin, e la stazione centrale impiego quasi un’altra ora, con l’autobus che procede a passo d’uomo lungo la carreggiata invasa da centinaia, se non migliaia, di veicoli. Il mio piano malefico, abilmente congegnato per recuperare un’ora sfruttando il fuso orario tra Ucraina e Polonia, è naufragato senza appello, lasciandomi in uno stato ibrido tra la frustrazione e l’insofferenza.

Non è lo stato d’animo adatto per partire all’esplorazione di una città, anzi il mio umore è nero, ma mi basta scendere dall’autobus per riprendermi completamente. In fin dei conti dopo tanti anni di attesa sono riuscito ad arrivare a Varsavia e non ho intenzione di farmi guastare l’esperienza. Per questioni pratiche, come i collegamenti da e per l’aeroporto e la rete del trasporto pubblico, ho scelto di pernottare in un albergo nella Nowe Miasto (Città Nuova), nella zona oggi conosciuta come “Centrum” data la sua centralità nell’attuale impianto urbanistico della metropoli. Il quartiere ha un aspetto particolare e ciò è dovuto sia alla ricostruzione ex novo a seguito delle distruzioni causate dalla seconda guerra mondiale, sia ad un rinnovato boom edilizio negli anni successivi al crollo del blocco sovietico, specialmente a partire dall’inizio del nuovo millennio.

Grattacieli a Varsavia
Foto dell’autore

L’aspetto incredibilmente moderno, i marciapiedi gremiti di persone che passeggiano davanti alle insegne luminose dei fast food e alle vetrine dei negozi delle grandi catene di abbigliamento creano uno strano contrasto, a mio avviso piacevole, con le porzioni della città ricostruite fedelmente all’originale. Lo skyline, che conta diversi grattacieli, non sfigurerebbe in qualche grande città nordamericana. Ecco, pur non essendoci mai stato, ho avuto quasi la sensazione di passeggiare per un quartiere di New York, Boston o Chicago. A riportarmi a Varsavia, però, c’è una presenza granitica, inquietante, avvertibile quasi in ogni angolo della città e che grava, almeno metaforicamente, anche su tutta la Polonia: il Palazzo della Cultura e della Scienza.

L’edificio in questione, oltre ad essere il più alto del Paese, è anche il più controverso. Venne infatti realizzato su ordine di Stalin nei primi anni Cinquanta, mentre Varsavia stava lentamente risorgendo dalle proprie ceneri. Costruito ad immagine e somiglianza dell’edificio principale dell’Università Statale di Mosca, è uno dei massimi esempi di architettura stalinista fuori dai confini dell’ex Unione Sovietica. Nelle intenzioni del leader sovietico il palazzo doveva essere un dono dell’URSS al popolo polacco, ma questi ultimi lo hanno sempre visto in modo radicalmente diverso. Dato il ruolo di Stalin nelle vicende polacche del Ventesimo secolo – e sullo stalinismo in Polonia potrei parlare per ore – la struttura è vista da parecchi come una vera e propria provocazione. Da qui tutta una serie di nomignoli, tra i quali il mio preferito è “Chuj Stalina“, letteralmente “cazzo di Stalin”, e ripetute proposte di abbattimento. Personalmente trovo inutile, se non addirittura dannoso, procedere ad una damnatio memoriae fuori tempo massimo: avrebbe avuto senso, forse, dopo il 1991, sull’onda emotiva del crollo del blocco sovietico, ma ora è decisamente troppo tardi. Ormai il palazzo è diventato una icona di Varsavia e abbatterlo sarebbe privare la città di una parte della propria storia e della propria identità. Si tratta di un discorso per certi versi molto simile a quello relativo al Monumento alla Vittoria di Bolzano, che è stato oggetto di un interessante progetto di storicizzazione, in grado di collocare l’edificio all’interno di una cornice storica, preservandone l’integrità strutturale e attenuando il più possibile la sua funzione propagandistica. È questo il grosso problema che l’architettura monumentale dei regimi pone ai contemporanei, data la subordinazione dell’estetica e della funzionalità alla funzione propagandistica. Un problema che, come sempre, andrebbe affrontato con la testa e non con la pancia ed il calcolo elettorale.

Nutro un amore incondizionato, una sorta di venerazione, per la letterature dell’Europa orientale, specialmente se yiddish. Partendo da questo presupposto, Varsavia è legata in maniera indissolubile ad Isaac Bashevis Singer che qui visse e qui ambientò una delle sue opere più famose, “La famiglia Moskat“, di cui ho portato con me una copia. Inutile dire che il giorno dopo, di primissimo mattino, mi sono messo gli scarponi ai piedi e sono uscito alla ricerca dei luoghi del romanzo e della vita dello scrittore. La prima tappa è, ad una decina di minuti scarsi dall’albergo, la via Krochmalna, dove la famiglia Singer visse per anni.

La via Krochmalna negli anni 30

Avete presente la sensazione di smarrimento che si prova quando le aspettative che nutrivate verso qualcosa vanno ad impattare contro la realtà oggettiva, andando in frantumi? Giunto all’incrocio tra la via e viale Jana Pawla II, una lunga teoria di anonimi edifici moderni mi segnala ciò che, forse, a livello incoscio avevo già preventivato: la via Krochmalna di Israel, Isaac ed Esther – anch’essa scrittrice, seppur meno conosciuta dei fratelli – non esiste più. Allo stesso modo non esistono più le vie dove Abram Shapiro si trascinava scialaquando denari non suoi e nemmeno le stanze dove il giovane Asa Heschel sfogliava una copia ormai consunta del Tractatus theologico-politicus di Spinoza. È la stessa Varsavia ebraica a non esistere più, ridotta – letteralmente – in cenere insieme a chi ne abitava le strade e le piazze.

Le tracce del passato sono tuttavia difficili da cancellare completamente e qualcuna di esse è sopravvissuta nei dintorni. La principale è senza dubbio la Sinagoga Nozyk, l’unica sinagoga del centro di Varsavia superstite, miracolosamente scampata alla distruzione perchè le autorità naziste decisero di sfruttarla come stalla e magazzino, prima e dopo la liquidazione del ghetto. L’edificio, inaugurato nel maggio del 1902, appartiene alla comunità ortodossa della capitale ed unisce elementi neorinascimentali ad altri neobizantini, manifestando quell’ecclettismo architettonico tanto in voga agli inizi del secolo scorso. A colpirmi, però, sono le misure di sicurezza che proteggono il luogo di culto ed un piccolo negozio kosher: non solo telecamere, ma anche blocchi di cemento per impedire l’accesso ai veicoli e sorveglianti armati, discreti ma comunque presenti e pronti ad intervenire. Non conosco nel dettaglio la situazione attuale delle comunità ebraiche polacche, ma di certo uno spiegamento di forze così imponente lascia presagire che essa sia tutt’altro che rosea. Non è un mistero che in questo angolo d’Europa l’antisemitismo non si sia mai del tutto sopito.

La Sinagoga Nozyk
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Sfruttando le informazioni contenute in alcuni pannelli affissi fuori dal perimetro di sicurezza della sinagoga, continuo la mia esplorazione alla ricerca dei resti del ghetto.  Dopo essermi imbattuto in un gruppo di edifici sopravvissuti alla guerra, purtroppo sigillati da delle impalcature per via di alcuni lavori di restauro, nel cortile interno di un condominio trovo uno dei pochi tratti rimasti in piedi del muro. A prima vista sembra un semplice muro di mattoni rossi, non particolarmente alto, sormontato da del filo spinato e lo si può scambiare facilmente per un’opera di delimitazione tra due proprietà. Eppure, una volta appurata la natura della barriera, non si può non avvertire una certa sensazione di disagio: è uno dei tratti rimasti ancora in piedi del muro che delimitava il Ghetto di Varsavia; stare da un lato o dall’altro di esso faceva la differenza tra la vita e la morte.

Il ,muro del ghetto
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A partire dal 1940, i nazisti stiparono in una manciata di kilometri quadrati oltre mezzo milione di persone. Le condizioni all’interno del ghetto erano scientemente pensate per causare il più alto numero di vittime possibile. Le razioni alimentari previste della autorità naziste alla popolazione ebraica di Varsavia fornivano meno di 200 calorie al giorno, un ammontare ridicolo. Gran parte del cibo consumato all’interno del muro veniva introdotto clandestinamente, ma si trattava di operazioni molto pericolose, in quanto ogni ebreo sorpreso nella parte polacca della città veniva giustiziato seduta stante. Le condizioni igieniche disastrose provocarono lo scoppio di diverse epidemie di tifo, che fecero strage di individui debilitati dalla fame. Il tasso di mortalità raggiunse ben presto i duemila decessi al mese. Oltre al freddo, alla fame e alle malattie, gli ebrei di Varsavia dovevano temere le periodiche Aktionen, i grandi rastrellamenti con cui i nazisti iniziarono a svuotare periodicamente il ghetto, deportando gli internati a Treblinka e Majdanek.

Nella primavera del 1943 la popolazione del ghetto era ormai ridotta a meno di 70.000 unità, la maggior parte delle quali era impiegata nelle attività produttive che producevano beni di consumo destinati agli occupanti. La notizia della ripresa delle deportazioni scaldò gli animi e nell’aprile dello stesso anno scoppiò la rivolta. Himmler in persona ordinò la soppressione dell’insurrezione, la liquidazione del ghetto e la distruzione dello stesso, incaricando della missione Jürgen Stroop, che la portò a termine nel giro di un mese. Ciò che sappiamo degli avvenimenti all’interno del ghetto lo dobbiamo proprio a Stroop, che stilò un preciso rapporto di 75 pagine, corredato da un album fotografico, in cui descrisse dettagliatamente ogni azione e ogni massacro compiuto dalle unità sotto il suo comando. Nonostante la disparità di forze e di armamento, i ribelli contesero ai loro carnefici ogni singolo del palmo del ghetto. Consapevoli della fine che li attendeva, non lottarono per la vita, bensì per morire con dignità, come esseri umani e non da Untermenschen, come venivano considerati dai nazisti.

2 pensieri su “Toccata e fuga a Varsavia (25-27 luglio 2018)

  1. Di solito non leggo articoli lunghi, ma il tuo mi ha appassionato.
    Sarà perché frequento Varsavia da almeno 5 anni (la mia compagna è polacca) e mi è piaciuto ri-passeggiare per luoghi che conosco e adoro. O forse perchè ho potuto approfondire le conoscenze su una città che reputo straordinaria.
    Comunque sono arrivato alla fine e ti ringrazio 🙂

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