Il commodoro Perry e la fine dello Shogunato

I vari han (feudi) durante lo shogunato Tokugawa

L’arrivo delle “navi nere” del commodoro Perry nella baia di Edo – l’attuale Tokyo – fu un evento di portata storica per il Giappone, in quanto diede il via ad una catena di eventi che nel giro di pochi anni portò alla caduta dello shogunato e alla restaurazione del potere imperiale. La storiografia giapponese chiama questo periodo “bakumatsu

Sin dal 1641 i Tokugawa imposero al Sol Levante la politica del sakoku – letteralmente stato chiuso o blindato – al fine di impedire che influenze esterne potessero avere effetti negativi sulla stabilità del paese. Di fatto agli stranieri venne proibito l’accesso all’arcipelago, mentre ai giapponesi veniva proibito di lasciarlo, pena la morte. Unica eccezione fu l’apertura del porto di Nagasaki ai soli mercanti cinesi ed olandesi.

Dopo due secoli di politica isolazionista, il Giappone versava in un grave stato di stagnazione economica, le cui conseguenze erano pagate soprattutto dalle fasce più deboli della popolazione, tanto nelle campagne, dove sempre più frequentemente scoppiavano vere e proprie insurrezioni armate, quanto nei centri urbani. L’isolamento, pur permettendo lo sviluppo di una cultura autoctona unica nel suo genere, aveva inoltre lasciato il paese in un grave stato di arretratezza tecnologica nei confronti dell’Occidente, tanto che la sempre più massiccia presenza europea in Asia Orientale iniziò ad essere percepita con crescente apprensione, sfociando talvolta in autentico timore. Non è un caso, infatti, che in risposta ad un tentativo della Russia, ormai padrona della Siberia e affacciata sul Pacifico, di stabilire rapporti commerciali con il Giappone, lo shogunato rispose con la colonizzazione di Ezo – l’attuale Hokkaido – che fino a quel momento era sottoposto ad una blanda influenza del clan Matsumae che si limitava a commerciare con la popolazione locale, gli Ainu (1792).

Aizawa Seishisai

In ambiente intellettuale iniziarono a svilupparsi diverse voci critiche, la più importante delle quali fu sicuramente quella di Aizawa Seishisai che nel 1825 pubblicò un’opera destinata a diventare uno dei fondamenti per lo sviluppo dell’identità nazionale nipponica, intitolata Shinron (Nuove Tesi). Nel volume egli formulò il concetto di kokutai – sistema nazionale – contrapposto alla frammentazione feudale, esaltando la figura del ruolo dell’Imperatore, all’epoca poco più che una eterea presenza marginale rinchiusa nel palazzo imperiale di Kyoto, e condannando ogni dottrina straniera. Infine concepì il confronto con l’Occidente una occasione storica, ossia la spinta necessaria per un rinnovamento morale del Giappone che avrebbe portato alla nascita di una solida identità nazionale. Rinnovamento morale che si sarebbe inevitabilmente basato sugli antichi miti shinto e di conseguenza sulla tradizione imperiale.

L’incapacità dello shogunato di attuare una politica di risanamento economico, esasperata dal fallimentare tentativo di Mizuno Tadakuni, spinse diversi signori feudali ad agire in autonomia per risanare i propri bilanci. Il clan Mori di Choshu, ad esempio, puntarono all’aumento della produttività agricola, al contenimento delle spese e al miglioramento della propria rete commerciale in modo da reinvestire i proventi nell’acquisto di equipaggiamento occidentale. Anche gli Shimazu di Satsuma puntarono sull’attività commerciale, forti del monopolio esercitato sulla produzione dello zucchero  e del protettorato istituito sul regno delle Ryukyu – l’arcipelago di cui fa parte l’isola di Okinawa – utilizzato per aggirare le restrizioni del sakoku.

Il rinnovato interesse russo si concretizzò in una nuova richiesta nel 1804 che ebbe lo stesso esito di quella precedente, mentre vascelli inglesi comparvero sempre più frequentemente al largo delle coste nipponiche, almeno finchè l’attenzione britannica non  venne assorbita dalla Cina, dove nel 1839 sarebbe scoppiata la prima guerra dell’oppio. L’indebolimento cinese fu un vero e proprio shock per l’ambiente intellettuale giapponese, in quanto metteva in discussione il primato culturale ed il prestigio del Celeste Impero, minando alla radice il suo ruolo e la sua influenza sull’intera Asia Orientale. Il risultato fu la fine di una certa sudditanza psicologica che stimolò un processo di emancipazione dell’identità giapponese, portando alla luce l’aspirazione di garantirsi un ruolo meno marginale nel mondo. Questo processo, unito alle teorie formulate nello Shinron, giocò un ruolo fondamentale nella creazione dell’identità del Giappone moderno e fu alla base della politica estera del “nuovo Giappone” nei decenni seguenti, ma di questo parlerò in un altro post.

Dall’altra parte del Pacifico, intanto, la corsa alla frontiera aveva portato alla creazione dello stato della California (1850), portando gli Stati Uniti ad affacciarsi sulla West Coast, mentre il fulmineo sviluppo di San Francisco, dovuto in gran parte alla corsa all’oro, dotò gli USA di un grande porto proiettato verso l’Asia ed i porti cinesi. Fu così che il presidente americano Millard Fillmore incaricò il commodoro Perry di salpare alla volta del Giappone con l’ordine di presentare al governo nipponico la richiesta di apertura di pacifiche relazioni diplomatiche, l’apertura dei porti giapponesi alla navi statunitensi dirette in Cina ed infine un accordo commerciale. L’8 luglio 1853 la flotta di Perry, composta da quattro moderne imbarcazioni da guerra, gettò l’ancora nella baia di Edo. Interpretando a modo suo le direttive presidenziali, Perry usò termini a dir poco perentori, quasi da ultimatum, con i rappresentanti dello shogun, aggiungendo che sarebbe tornato l’anno successivo per conoscere la risposta.

Le “navi nere” in una stampa giapponese dell’epoca.

L’arrivo delle “navi nere” accelerò il processo di sgretolamento del potere shogunale, dato che palesò tanto l’incapacità del governo di Edo di rivedere la propria politica isolazionista e di ritagliare un nuovo ruolo al Giappone nel “sistema mondo”, quanto la sua debolezza. Anzichè prendere di petto la situazione, lo shogun preferì sottoporre le richieste americane al vaglio del Consiglio degli Anziani e di tutti i feudatari: la mancanza di unanimità portò ad una frattura, che col tempo diventò insanabile, tra i fautori della resistenza armata ad oltranza e tra chi, spaventato dagli eventi cinesi, era disposto a fare alcune concessioni. Nel tentativo di ricomporre la frattura, il capo del Consiglio degli Anziani propose una soluzione di compromesso che evitava il conflitto armato attraverso alcune concessioni, ma rifiutava l’accordo commerciale. Il trattato di Kanagawa (1854) sanciva l’apertura dei porti di Hakodate e Shimoda al rifornimento delle navi americane e l’invio di un console statunitense nell’ultima località. Analoghi trattati vennero firmati successivamente anche con le altre potenze europee. L’impianto del sakoku era ormai a pezzi e con esso il prestigio dei Tokugawa, tanto che il consenso attorno alla figura imperiale aumentò sensibilmente.

Stampa giapponese che raffigura il sentimento del sonno-joi

Non paghi di quelle che ritenevano aperture insufficienti, i rappresentanti delle potenze occidentali, specialmente il console americano, iniziarono una martellante campagna di pressione per ottenere nuove e più consistenti concessioni. A differenza di quanto accaduto soltanto un paio di anni prima, i daimyo si rivelarono molto più concilianti e consci della necessità di rapporti commerciali con l’estero, pur non smussando la propria ostilità nei confronti degli occidentali, tanto da rifiutare in blocco l’apertura di nuovi porti e l’idea di trasferire le sedi diplomatiche a Edo. Particolarmente critici erano i feudatari dell’ovest (Satsuma, Choshu, Tosa, Hizen, etc.), tradizionali avversari dei Tokugawa sin dai tempi di Sekigahara, ben consapevoli del malcontento che la presenza degli stranieri provocava nella popolazione, specialmente nei samurai più giovani. Fortemente influenzati dal fermento intellettuale di cui abbiamo parlato sopra, è proprio tra le loro fila che emerge l’idea dell’Imperatore come fulcro dell’onore nazionale e non è certo un caso che proprio dalla corte di Kyoto giunsero voci aspramente critiche nei confronti dell’operato del governo di Edo. A complicare ulteriormente una situazione di per sè già complessa, giunse la morte senza eredi di Tokugawa Iesada, che aprì una crisi dinastica tra due rami della famiglia. Ad uscirne vittorioso fu Tokugawa Iemochi il quale decise, come primo atto da nuovo shogun, di concludere le trattative con gli americani accettando ogni loro richiesta, senza interpellare preventivamente i feudatari e la corte imperiale.

Il “Trattato di amicizia e commercio con gli Stati Uniti”, firmato il 29 luglio 1858, fu il primo di quelli che passarono alla Storia come “trattati ineguali”. Ineguali perchè oltre alla concessione di nuovi scali commerciali e del diritto per gli stranieri di risiedere a Edo e nelle località portuali, prevedevano clausole che non garantivano la minima reciprocità di diritti tra le due parti: la limitazione dei dazi doganali sulle merci di importazione impediva di fatto ogni politica protezionista a difesa della debole economia nipponica, mentre la concessione del diritto di extra-territorialità agli occidentali residenti li sottraeva alla giurisdizione giapponese, risultando in una limitazione della sovranità.

Le conseguenze dei trattati si abbatterono come uno tsunami sull’economia giapponese. Le grandi case commerciali si videro costrette a fronteggiare la concorrenza delle compagnie straniere senza le tutele di cui avevano goduto fino a quel momento, mentre le imprese tradizionali che operavano su scala artigianale dovettero affrontare l’importazione di manufatti industriali; l’aumento del costo del riso, poi, andò a colpire tutti coloro che avevano uno stipendio fisso.

Hijikata Toshizo, il vicecomandante dello Shinsengumi

La firma dei trattati fu la pietra tombale sull’istituzione dello shogunato. Come era possibile, infatti, che il protettore militare del Giappone cedesse ai barbari senza nemmeno accennare un minimo di resistenza? Il malcontento crebbe a dismisura e a partire dal 1860 iniziò a manifestarsi sotto forma di una vera e propria campagna di terrorismo politico nei confronti dei sostenitori dello Shogun. Ad agire erano soprattutto esponenti di rango medio-basso della casta dei samurai, i cosiddetti shishi o uomini audaci, che ben presto andarono a confluire nel movimento “sonno-joi” – “onore all’Imperatore, fuori i barbari” – che si radicò profondamente nei feudi dell’ovest, concentrati nell’estrema punta occidentale dell’Honshu, nei Kyushu e nello Shikoku. Ben presto i sonno-joi iniziarono a colpire gli interessi economici occidentali, con incendi di magazzini e di imbarcazioni, arrivando a compiere attacchi xenofobi a danno dei singoli cittadini stranieri. Per contrastarli lo shogunato creò un corpo scelto chiamato  Shinsengumi che iniziò una lotta senza quartiere contro gli shishi, una lotta combattuta nei vicoli bui di Kyoto e di Edo: il Giappone era scivolato quasi inconsapevolmente in una nuova guerra civile a bassa intensità.

Stampa giapponese che raffigura la chiusura dello stretto di Shimonoseki

A gettare ulteriore benzina sul fuoco, e a far deflagrare irrimediabilmente la situazione, ci pensò l’Imperatore Komei in persona che, interrompendo una secolare tradizione di non ingerenza nella gestione degli affari di stato, l’11 marzo del 1863 ordinò allo Shogun di espellere tutti i barbari dal Giappone entro i due mesi successivi. Lo shogunato non prese nemmeno in considerazione l’ordine, limitandosi ad ignorarlo, ma altrettanto non fecero i daimyo dell’ovest. Pochi giorni dopo la scadenza dell’ultimatum, infatti, il signore del dominio di Choshu diede ordine di aprire il fuoco su tutte le navi occidentali in transito attraverso lo stretto di Shimonoseki, il braccio di mare che separa le isole di Kyushu e di Honshu.

Soldati europei in una batteria occupata a Shimonoseki

Come rappresaglia una flottiglia americana compì una sortita nello stretto cannoneggiando le postazioni nipponiche, ironicamente dotate anche di artiglieria di fabbricazione statunitense, e affondando alcune imbarcazioni. Quasi contemporaneamente una squadra navale inglese bombardò la città di Kagoshima, capitale del dominio di Satsuma, in risposta all’uccisione di un connazionale avvenuta l’anno precedente. Entrambi gli episodi possono essere considerati esempi da manuale di “diplomazia con le cannoniere”, ossia la tendenza da parte delle potenze occidentali di minacciare o di ricorrere all’uso della forza militare per ottenere accordi e concessioni qualora i canali diplomatici tradizionali non avessero raggiunto lo scopo. Se ciò funzionò a Satsuma, tanto che fu presto raggiunto un accordo con gli inglesi per il pagamento di un adeguato risarcimento, per riaprire lo stretto di Shimonoseki, invece, fu necessario organizzare una spedizione navale in grande stile nel settembre del 1864. Come compensazione gli occidentali pretesero dallo shogunato ben tre milioni di dollari dell’epoca, una quantità di denaro sufficiente ad allestire una piccola flotta di battelli a vapore, e di fronte alla mancanza di liquidità del governo di Edo ottennero l’apertura di un nuovo porto – l’attuale Kobe – e l’abbassamento dei dazi doganali al 5%.

Carta del Giappone in cui sono rappresentati alleati ed avversari dello shogunato

La campagna di Shimonoseki dimostrò ai feudatari dell’ovest l’impossibilità di un confronto militare con le potenze straniere, spingendoli a varare un ambizioso piano di ammodernamento delle proprie forze armate. Lo shogunato, invece, ne uscì ancora una volta umiliato, tanto che scoppiarono diverse ribellioni, la principale delle quali riguardò proprio il dominio di Choshu. L’invio di una spedizione punitiva nel tardo 1864 si risolse in un nulla di fatto grazie alla mediazione di Saigo Takamori, uno dei comandanti delle forze shogunali e samurai al servizio del feudo di Satsuma. I Mori di Choshu non sembravano minimamente intenzionati ad ammainare la bandiera della rivolta, spingendo il governo centrale ad inviare una seconda spedizione punitiva, molto più consistente rispetto alla precedente, nel corso del 1866. Nonostante la grande inferiorità numerica, i ribelli, forti dell’appoggio di Satsuma, Tosa e altri feudi minori, inflissero una cocente sconfitta alle forze governative, grazie soprattutto al vasto impiego di armamenti moderni. Il fallimento della spedizione punitiva fu un avvenimento epocale, in quanto mai in precedenza un esercito dei Tokugawa era stato sconfitto sul campo da un daimyo in rivolta: lo shogunato ormai era un cadavere. La vittoria delle forze ribelli rafforzò enormemente lo schieramento filo imperiale, spingendo la Gran Bretagna ad appoggiare i feudi occidentali, anche in contrapposizione alla Francia che invece aveva scelto il fronte shogunale come partner commerciale.

Tokugawa Yoshinobu, l’ultimo shogun

L’uscita di scena in rapida successione dello Shogun e dell’Imperatore, deceduti rispettivamente nel novembre del 1866 e nel gennaio dell’anno successivo, diede il via ad un a serie di eventi che portarono alla nascita del Giappone moderno. Il nuovo Shogun, Tokugawa Yoshinobu, nel tentativo di ricomporre la frattura che attraversava il paese, provò ad organizzare un nuovo assetto politico – chiamato kobu gattai -attraverso la condivisione del potere con il nuovo Imperatore Mutsuhito, conosciuto come Meiji, senza però avere successo. Nell’ottobre del 1867 il daimyo di Tosa inviò a Edo un memoriale in cui si chiedeva allo Shogun di dimettersi e di rimettere all’Imperatore i poteri, che sarebbero stati esercitati da un consiglio di feudatari, in cambio del mantenimento delle proprietà terriere. Il mese successivo lo Shogun, volendo evitare lo scoppio di una guerra civile, rassegnò le dimissioni. Le forze della coalizione Satsuma-Choshu, che ormai avevano assunto le sembianze di un vero e proprio esercito imperiale, iniziarono a marciare verso Kyoto, dove giunsero all’inizio del 1868. Il 3 gennaio, guidate da Saigo Takamori, le forze della coalizione occuparono il palazzo imperiale e davanti ad un gruppo di cortigiani e feudatari venne letto un proclama che annunciava la restaurazione del potere imperiale. Dopo 250 anni il sipario della Storia scendeva sullo shogunato Tokugawa, mentre all’ombra del Fuji sbocciava un nuovo Giappone, ma di questo parleremo un’altra volta.

BIBLIOGRAFIA

K. G. Henshall, Storia del Giappone, Milano, Arnoldo Mondadori, 2016

P. Beonio-Brocchieri, Storia del Giappone, Milano, Arnoldo Mondadori, 1996

R. Caroli, F. Gatti, Storia del Giappone, Roma-Bari, Gius. Laterza & Figli, 2004

R. H. P. Mason, J. G. Caiger, A History of Japan, Rutland, Tuttle Publishing, 1997

 

2 pensieri su “Il commodoro Perry e la fine dello Shogunato

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