Attraverso i paesaggi contaminati: Verdun (agosto 2017) parte 1

A votre santè, Civilisation
(Memoriale di Verdun)
Foto dell’autore.

Prendo in prestito dallo scrittore austriaco Martin Pollack il termine “paesaggi contaminati“, ampliandone il significato per includervi anche tutti quei luoghi la cui percezione è direttamente ed inevitabilmente influenzata ed alterata da eventi tragici lì accaduti nel recente passato. In Galizia di paesaggi contaminati ne ho incontrati parecchi, ma quello che finora mi ha colpito più di tutti si trova oltre mille chilometri di distanza in direzione ovest. Si tratta di una piccola cittadina della provincia francese, lontana dai grandi circuiti turistici, sdraiata sulle rive della Mosa e circondata da una serie di basse colline verdeggianti: il suo nome è Verdun.

Tra il febbraio ed il dicembre del 1916, questo piccolo centro abitato, oggi nemmeno segnato su tutte le cartine, fu teatro di una delle battaglie più cruente e durature dell’intero conflitto. Per i francesi la piazzaforte di Verdun, con le sue massicce fortificazioni, rappresentava una delle chiavi di volta dell’intero sistema difensivo, essendo posta sulla via di accesso alla valle della Marna e, di conseguenza, a Parigi. Il comandante supremo dell’esercito tedesco, Erich von Falkenhayn, ne era perfettamente consapevole e, sicuro del fatto che il nemico avrebbe difeso la città fino all’ultimo uomo, elaborò un piano tanto semplice quanto brutale. L’intenzione era quella di lanciare una offensiva su Verdun, allo scopo di attirarvi il grosso dell’esercito nemico per poi schiacciarlo con una concentrazione di artiglieria mai vista prima: le intenzioni del comandante tedesco erano, letteralmente, di dissanguare i francesi fino all’ultimo uomo. È l’elaborazione del concetto di Materialschlacht, la guerra di materiali, in cui l’essere umano non è altro che una variabile trascurabile che può essere consumata a piacimento, proprio come se fosse un materiale. È la guerra che raggiunge una nuova vetta di brutalità. Quando la mattina del 21 febbraio le oltre 1200 bocche di fuoco, concentrate su un fronte di soli 14 km, iniziarono a vomitare il loro carico di morte, le prime linee francesi vennero spazzate via. Il calcolo di Falkenhayn si dimostrò corretto e i francesi iniziarono a destinare ogni uomo disponibile al tritacarne sulla Mosa, subendo perdite sempre maggiori. Ciò che il comandante tedesco non aveva considerato era che anche l’esercito tedesco, proseguendo l’offensiva ad oltranza, si sarebbe dissanguato, ed è proprio quello che avvenne nei dieci mesi successivi.

Arrivare a Verdun da Strasburgo utilizzando i mezzi pubblici non è facile, così come non è facile ripartire in direzione Metz. Dopo una lunga discussione nella biglietteria della stazione del capoluogo alsaziano, dove per grazia divina l’impiegato allo sportello parla anche tedesco, opto per un TGV diretto a Parigi, dal quale scenderò alla fermata più prossima alla mia destinazione. Non sono un amante dell’alta velocità, ma l’alternativa sarebbe stata una sequela infinita di treni regionali su linee secondarie in via di dismissione, il tutto condito con una miriade di coincidenze. Si tratta di un modo di viaggiare che non mi dispiace affatto, ma visto il poco tempo che ho a disposizione non mi posso permettere di impiegare mezza giornata per un tragitto così breve. Il treno divora la campagna, mentre dal finestrino si succede una lunga teoria di dolci rilievi collinari coperti da campi di grano appena mietuto, inframezzati da distese di girasoli e di mais, ed in breve tempo raggiungo la mia meta.

La stazione Meuse TGV è immersa nel nulla e se non fosse per lo stile architettonico contemporaneo potrebbe tranquillamente essere una di quelle stazioncine di campagna dimenticate da Dio e dagli uomini in cui, non più di un paio di volte al giorno, si ferma un treno regionale in età da pensionamento.  Anche il volume di traffico sembra essere lo stesso, dato che a scendere siamo soltanto io ed una signora di mezza età, mentre nessuno sale a bordo. Difficile immaginare che la lunga mano della guerra sia giunta fin qui, ma è sufficiente spostarsi sul piccolo piazzale antistante l’edificio per vedere i primi segni di contaminazione: i cartelli stradali indicano, oltre a Verdun, la strada per raggiungere Sedan e Bar-Le-Duc. Il primo è un luogo iconico, ancora oggi sinonimo di vergogna per i francesi, in cui nel 1870 l’intero esercito francese, guidato da Napoleone III in persona, venne costretto alla resa dopo essere stato accerchiato dalle truppe di von Moltke: la conseguente cessione di Alsazia e Lorena al neonato Impero tedesco fu alla base del desiderio di revanche francese che si concretizzò proprio durante la Grande Guerra. Il secondo, invece, è il punto di partenza della Voieè Sacre, la via Sacra, l’unico collegamento con il resto della Francia rimasto alla piazzaforte di Verdun, ormai circondata su tre lati, durante la fase più dura della battaglia. Attraverso questa striscia di terra, costantemente battuta dal fuoco dell’artiglieria, ogni giorno migliaia di autocarri portavano rinforzi e rifornimenti alla guarnigione assediata: non è esagerato affermare che se questo cordone ombelicale fosse stato spezzato, l’esercito francese e con esso l’intero fronte occidentale sarebbero crollati come un castello di carte. E’ proprio percorrendo questa strada che raggiungo Verdun, attraversando minuscoli paesini, più grumi di case circondati dalla campagna che veri e propri centri abitati, a bordo di un autobus navetta che mi lascia davanti alla stazione ferroviaria. In lontananza vedo la silouette inconfondibile della cattedrali con le sue due torri campanarie, ma la mia attenzione viene catturata da una targa che ricorda come la Gare de Verdun sia stata costruita nella seconda metà dell’Ottocento da monsieur Gustave Eiffel, lo stesso che realizzò l’omonima torre divenuta uno dei simboli di Parigi e della Francia intera, e che nel 1916 venne adibita ad ospedale da campo per i feriti in attesa di evacuazione. La contaminazione aumenta.

Le facciate crivellate dei palazzi.
Foto dell’autore

È ancora troppo presto per andare in albergo, per cui decido di incamminarmi verso il centro e di esplorare la città alla ricerca di un posto pranzare. Per le strade di Verdun la contaminazione è onnipresente. La si trova nelle vetrine delle patisserie e delle confiserie, dove tra pain aux chocolat ed èclair fanno capolino confezioni di biscotti ed altri dolciumi dedicati ai pilous, i fantaccini francesi della prima guerra mondiale. La si trova soprattutto lungo le rive della Mosa, di fronte alla Porte Chaussè, dove una serie di monumenti e di targhe ricordano gli innumerevoli cittadini caduti durante i quattro anni che insanguinarono l’Europa e anche i loro carnefici, come il generale Mangin, un mostro al cui confronto perfino Cadorna impallidisce. La si trova addirittura sulle facciate dei palazzi storici, ancora oggi crivellate dalle schegge dei proiettili di grosso calibro vomitati sulla città un secolo fa.

All’ufficio turistico provo a chiedere informazioni su come raggiungere i campi di battaglia, nella speranza di non essere costretto a scarpinare per ore, e per mia fortuna scopro l’esistenza di un bus navetta che collega la città ai luoghi simbolo della battaglia sulla riva destra, tra cui Douaumont e Vaux. Nulla da fare, invece, per la riva sinistra dove avrei voluto raggiungere il Mort-Homme, teatro di alcuni dei più accaniti combattimenti dell’intera linea del fronte. Qui e sulla vicina Cote 304, infatti, i comandanti francesi posizionarono diverse batterie di artiglieria che, sfruttando la posizione dominante dei due rilievi, causarono notevoli problemi all’avanzata tedesca sulla riva opposta. La decisione tedesca di ridurre al silenzio questa fastidiosa spina nel fianco, diede il via ad una serie ininterrotta di attacchi e contrattacchi che si protrarranno per settimane: decine di migliaia di soldati di entrambi gli schieramenti persero la vita in quel fazzoletto di terra sconvolto dalle esplosioni di centinaia di migliaia di granate. 

L’ingresso della Cittadella Sotterranea.
Foto dell’autore

La prima tappa dopo essermi rifocillato e aver lasciato in albergo il mio bagaglio, dopo anni di esperienza ormai ridotto all’essenziale, è la Cittadella Sotterranea. Il complesso, in grado di resistere anche ad un colpo diretto di grosso calibro, era dotato di diversi forni per la panificazione, di un ospedale, di officine meccaniche e di camerate in grado di ospitare contemporaneamente diverse migliaia di uomini. È qui che il generale Petain pose il proprio comando, in modo da essere il più vicino possibile al fronte. Attualmente solo una manciata degli oltre sette chilometri di gallerie sotterranee è accessibile ai visitatori, per altro a bordo di un trenino che, spostandosi su binari, li guida in diverse stazioni dove, con l’ausilio di filmati e di manichini, si cerca di ricostruire la vita dei soldati durante la battaglia. L’esperienza è sicuramente interessante, ma a mio avviso non riesce a trasmettere la sensazione di claustrofobia dovuta al vivere in gallerie buie ed umide, a malapena illuminate da qualche lampadina tremolante che oscilla dal soffitto scosso da un bombardamento incessante che non si arresta nemmeno la notte, mentre da lontano il gemito dei feriti e dei moribondi ricorda ai vivi che la falce del Tristo Mietitore è onnipresente ed inclemente.

Ritornando verso l’albergo decido di salire la lunga scalinata del Monumento alla Vittoria che svetta su Avenue della Victorie e ne approfitto per fare visita alla vicina cattedrale di Notre-Dame. L’edificio è imponente e presenta una particolare commistione di stili architettonici. L’impianto è romanico-gotico, cui si sono aggiunti a seguito di un grave incendio nel Settecento diversi elementi barocchi, tra cui un pregevole baldacchino. Nel corso della battaglia l’edificio ha subito danni considerevoli, tanto che ancora oggi la facciata reca i segni delle esplosioni, ma il successivo restauro ha permesso di recuperare diversi elementi originari romanici, donando al complesso l’aspetto attuale. Anche le magnifiche vetrate istoriate risalgono allo stesso restauro. Resto a lungo ad assaporare la pace nella chiesa deserta e mi stupisco di come una cittadina piccola come Verdun possa ospitare una meraviglia del genere.

Prima di partire avevo letto da qualche parte che Verdun è la città più piovosa di tutta la Francia e a giudicare dal cielo plumbeo e dalla pioggia battente che mi salutano al risveglio parrebbe sia proprio così. Dentro di me impreco selvaggiamente perchè mi vedo costretto a rivedere il programma della giornata, ma d’altro canto che viaggio sarebbe quello che si svolge senza il minimo imprevisto? Dopo una abbondante colazione mi dirigo verso la stazione, dove aspettando la navetta ripenso al terribile temporale della notte precedente, con il suo ininterrotto rimbombare di tuoni, così intensi da far vibrare i vetri della finestra e strapparmi dalle braccia di Morfeo nonostante abbia il sonno pesante, ed il continuo susseguirsi di lampi lungo l’orizzonte: la mia impressione è che sia stata in tutto e per tutto una rievocazione delle ben più letali tempeste che flagellavano la zona un secolo fa.

Viste le condizioni meteo ostili, decido di limitare la mia escursione al Memoriale: non solo è la prima fermata del bus navetta, ma è un luogo coperto, dal quale posso sempre raggiungere a piedi altri luoghi d’interesse in caso migliori il tempo. Appena usciti dalla città l’autobus inizia ad inerpicarsi sui rilievi collinari che domaninano la valle della Mosa, mentre i campi coltivati cedono il posto ad una foresta che si fa via via più fitta e ostile, segno che ci stiamo avvicinando inesorabilmente ai luoghi degli scontri di un secolo fa. Anche questa è una forma di contaminazione. Tutta la zona intorno a Verdun, dallo Chemin des Dames a nord e poi giù lungo la Woewre fino a Les Eparges e al saliente di Saint-Mihiel, ricade infatti nella cosiddetta “zona rossa”, un’area che ancora oggi, ad un secolo dalla fine della guerra, rimane inadatta all’insediamento umano e allo sfruttamento agricolo. Troppo il piombo e l’arsenico, troppi i cadaveri di uomini e cavalli, troppo il gas irrorato sui campi di battaglia lungo questa sottile striscia di terreno: la zona rossa è forse la traccia più duratura della Grande Guerra, un memento per i posteri.

Il Memoriale di Verdun.
Foto dell’autore

Il Memoriale appare all’improvviso a lato della strada, austero nella sua moderna semplicità di pietra, vetro e acciaio, più simile ad un monumento funebre che ad un museo e in effetti diversi cartelli ricordano che la zona è da considerarsi come un cimitero e che quindi i visitatori sono tenuti a comportarsi in maniera decorosa. Per me, che considero questi viaggi nè più e nè meno che pellegrinaggi, si tratta di avvisi quasi superflui, ma mi rendo conto che l’idiozia umana è fatta di milioni di sfumature – ne avrò ulteriore conferma anche qui – e che quindi di tanto in tanto è necessario ricordare almeno i rudimenti del buonsenso. L’esposizione al suo interno, oltre ad essere curata nei minimi dettagli, ha il pregio di essere del tutto scevra di quell’odiosa retorica patriottarda, onnipresente in Italia, che non porta a nulla se non ad una strumentalizzazione della memoria, con il conseguente svilimento della stessa. Gli elmetti arrugginiti rinvenuti sul campo di battaglia, le fotografie in bianco e nero e altre mille testimonianze della vita in trincea non parlano di gloria e nemmeno di sacrificio, bensì trasudano umana pietà per chi in quei 10 mesi ha sperimentato sulla propria pelle l’inferno, senza alcuna differenza tra francesi e tedeschi, entrambi vittime del calcolo spietato di Falkenhayn. La parte più straziante è senza dubbio quella dedicata alle lettere, ospitata in un angolo leggermente appartato con una serie di divanetti addossati alle pareti, sulle quali sono riportati alcuni brani delle epistole scritte sul campo di battaglia. Tra i divanetti, poi, ci sono pile di centinaia di fogli A4. Su ognuno di essi sono riportate due lettere, su un lato quella di un soldato francese, sull’altro quella di un soldato tedesco, tradotte in tre lingue. Sono a disposizione dei visitatori che possono leggerle sul posto oppure portarle a casa e anche io ne afferro una manciata. Inizio a leggerle e come ogni volta è un pugno allo stomaco: che sia Verdun, Rawa Ruska o l’Ortigara la guerra è sempre sterco, sangue, dolore e morte; soltanto un folle potrebbe amarla. Alzo lo sguardo, mentre sento lo stomaco chiudersi, ed i miei occhi incrociano questa scritta “Maman, j’ai 20 ans et je ne veux pas mourir” (Mamma, ho 20 anni e non voglio morire). Sento lo stomaco andare sottosopra e gli occhi inumidirsi. E’ decisamente troppo, ho bisogno di aria.

Un elmetto viene trasformato in un mandolino. Memoriale di Verdun.
Foto dell’autore

Visto che fuori continua a piovere decido di visitare anche una piccola mostra dedicata alla fotografia di guerra ospitata all’ultimo piano dell’edificio. Dalle prime lastre realizzate con rudimentali macchine a soffietto durante la guerra di Crimea e la Guerra di Secessione Americana, la mostra conduce il visitatore fino all’epoca delle reflex digitali, con scatti realizzati in Afghanistan ed in Medio Oriente, passando per i celebri fotogrammi di autori come Robert Capa. Inevitabilmente il mio cervello inizia a ragionare sulla natura stessa della fotografia di guerra. Se in origine il giornalismo di guerra ha giocato un importante ruolo di denuncia, mostrando agli occhi del grande pubblico gli orrori delle battaglie e degli ospedali da campo, possiamo ritenere che lo abbia mantenuto anche nell’era della post-verità? Non è forse vero che i giornalisti accreditati presso le forze armate vengano condotti sul posto dai militari stessi, facendo di fatto informazione embedded? Allo stesso tempo, però, chi può garantire la neutralità dei tanti freelance, o presenti tali, in un’epoca in cui chiunque può riprendere o fotografare qualcosa? E’ quasi un anno che mi scervello su questo argomento e non sono ancora riuscito a trovare una risposta in grado di soddisfarmi.

Fleury-devant-Douaumont. La foto non rende giustizia alla devastazione del terreno.
Foto dell’autore

Esco dal Memoriale e scopro che, finalmente, la pioggia ha deciso di donarci un po’ di tregua, così decido di proseguire a piedi fino all’Ossario di Douaumont seguendo un sentiero che attraversa il villaggio fantasma di Fleury. Fleury-devant-Douaumont è uno dei sei villaggi completamente distrutti dalla furia dei combattimenti durante la battaglia di Verdun e mai più ricostruiti. Se il terreno intorno al Memoriale è stato livellato, basta inoltrarsi tra gli alberi per vedere il livello di devastazione provocato dall’incessante bombardamento durante i dieci mesi di scontri. Non si può nemmeno parlare di crateri causati dalle esplosioni, sembra piuttosto che un gigante abbia affondato ripetutamente le dita nella terra umida, quasi fosse la superficie di una focaccia. In questo paesaggio reso ancora più spettrale dalle nubi basse e dall’acqua che gocciola dai rami delle piante, di Fleury non rimane nulla. Ad indicare la posizione della scuola, della bottega del fabbro, del forno del panettiere e delle case soltanto alcuni piccoli cartelli, mentre il percorso delle strade è contrassegnato da piccoli obelischi bianchi. Non un frammento di muro o una scheggia di mattone, tutto è stato polverizzato dall’uragano della Materialschlacht. A ricordare che qui si è combattuto e sono stati versati fiumi di sangue qua e là spuntano piccoli monumenti funebri e piccole croci, che aumentano quando dai resti del paese ci si avventura lungo le ravines, l’intrico di piccole vallate che serpeggiano tra le colline. L’unico edificio in tutta l’area è una piccola cappella, costruita nel 1934 sul luogo dove sorgeva la chiesa del piccolo centro abitato, dedicata a Saint-Nicolas, patrono della Lorena. Nel 1979 venne infine dedicata a Notre-Dame de l’Europe, in nome della pace e della riconciliazione.

La distesa di croci a Douaumont.
Foto dell’autore

Superata la chiesetta proseguo lungo il sentiero e una volta uscito dal bosco vedo in lontananza, davanti a me, la sagoma inconfondibile dell’Ossario, che con la sua forma ricorda l’elsa di una spada conficcata nel terreno, quasi a voler simboleggiare la ferita mortale che la guerra ha inflitto a questo territorio. All’interno della cripta sotterranea riposano le ossa di 150.000 caduti tra francesi e tedeschi, più di Merano e Bolzano messe insieme. Sul pendio antistante al monumento, poi, sono sepolti altri 15.000 poilus “mort pour la patrie“. Il mare di croci bianche, ognuna con un cespuglio di rose rosse davanti, è talmente vasto da mozzarmi il fiato: essendo abituato ai piccoli cimiteri di guerra galiziani non sono assolutamente pronto ad uno spettacolo del genere e ammetto di esserne turbato. All’interno dell’Ossario ogni città di Francia, ogni reggimento, compresi quelli coloniali che furono impiegati senza risparmio nel corso della battaglia, ricordano i propri caduti. Si stima che a Verdun vennero impiegati più dei 3/4 dell’esercito francese, per cui virtualmente quasi ogni soldato in servizio nel 1916 conobbe l’inferno, compresi personaggi destinati a fare la storia come Maginot e de Gaulle.

[Continua]