Galizia 2016. Prima tappa: Berlino (31 luglio – 1 agosto)

Particolare del Muro.
Foto dell’Autore.

Curioso iniziare il resoconto di un viaggio in Galizia parlando di Berlino. La distanza geografica è notevole, per non parlare di quella culturale che è abissale. Tuttavia vi è un sottile filo conduttore che unisce idealmente la capitale tedesca all’Europa centro-orientale, un filo di Arianna che attraversa le pieghe dello spazio e del tempo collegando di fatto gli eventi della Grande Guerra a quelli della Seconda Guerra Mondiale, scoppiata solo un ventennio dopo la fine della prima: me ne ero già accorto nel corso del primo viaggio e ne ho avuto conferma durante questa nuova avventura, ma è quasi incredibile constatare il modo in cui il Novecento ha infierito su questo angolo d’Europa.

È a Berlino che, in quell’inizio estate del 1914, von Moltke, con quell’ottusità tipica dei militari prussiani, contribuì, complice l’assenza del Kaiser in vacanza in Norvegia (sic!), a far precipitare l’Europa nel baratro da cui non si sarebbe più ripresa. È sempre qui che, una ventina di anni dopo, i generali della Wehrmacht pianificarono la guerra di aggressione e sterminio ad Est, una prosecuzione ideale del Drang nach Ost medievale, allo scopo di conquistare Lebensraum per il Reich millenario. È a Wannsee, in una bella villa sulle rive del lago, che i gerarchi nazisti pianificarono lo sterminio della vivace comunità ebraica galiziana, nel quadro più ampio della Judenvernichtung su scala continentale. È a Potsdam, poco dopo la fine della seconda guerra in Europa, che le potenze vincitrici si spartirono il continente ed il mondo. Infine è il crollo del muro che divideva la città in due a segnare inequivocabilmente la fine della guerra fredda e del socialismo reale, utopia divenuta in breve tempo distopia orwelliana. Berlino alfa ed omega di un secolo di follia, quindi.

Tiergarten, memoriale sovietico.
Foto dell’Autore

Arrivo a destinazione in condizioni eufemisticamente pietose, reduce da una notte di baldoria con amici che non vedevo da tempo e con un’ora scarsa di sonno sulle spalle, giusto il tempo del volo da Bologna. Nonostante le mie precarie condizioni fisiche non posso permettermi il lusso di riposare: il tempo della mia permanenza nella capitale tedesca è ridottissimo e le cose da vedere sono tante, troppe. Il mio campo base è a pochissima distanza dalla Sprea, ad un tiro di schioppo dalla Museumsinsel che, mio malgrado, non avrò occasione di visitare. Mi mangio le mani pensando alle meraviglie nascoste nel Pergamonmuseum, però questa volta il mio obiettivo è visitare i tre sacrari militari sovietici dove riposano le spoglie mortali delle migliaia di soldati dell’Armata Rossa caduti nel corso della battaglia di Berlino. La battaglia per la capitale del Reich fu uno degli ultimi e dei più sanguinosi scontri che si svolsero nel teatro europeo durante il secondo conflitto mondiale. I difensori combatterono letteralmente fino all’ultimo uomo in una città ridotta in rovina dai massicci bombardamenti e dal fuoco dell’artiglieria, mentre i comandanti sovietici, i marescialli Konev e Zhukov, animati da rivalità personali, mandarono le loro truppe al macello per avere l’onore di conquistare la capitale tedesca. In mezzo la popolazione civile, schiacciata tra il fanatismo delle SS che rastrellavano anche i ragazzini per spedirli in prima linea e la ferocia degli attaccanti costretti a combattere casa per casa. Il costo in termini di vite umane fu spaventoso, con oltre 300.000 morti e innumerevoli feriti.

Visto l’orario – è già tardo pomeriggio – e la distanza, punto sul più vicino, quello al Tiergarten, che raggiungo in brevissimo tempo grazie all’efficientissima rete del trasporto pubblico berlinese.  Tra i tre sacrari questo è il più piccolo, oltre ad essere l’unico a trovarsi a Berlino Ovest, tanto che le autorità cittadine pensarono bene di ribattezzare “Straße des 17. Juni” il lunghissimo viale che dalla Porta di Brandeburgo scorre verso ovest fino a raggiungere Charlottenburg – non a caso in precedenza era conosciuta come “Charlottenburger Chausse” e su cui si affaccia il memoriale. Non fu assolutamente una scelta casuale, visto che il nome della strada porta alla memoria i moti operai del giugno 1953 che scossero la DDR e che furono soffocati nel sangue dalle truppe sovietiche di stanza in Germania. In questo modo, in occasione di ogni celebrazione per la vittoria della Grande Guerra Patriottica, così viene tuttora chiamata la Seconda Guerra nei paesi ex sovietici, i plenipotenziari sovietici ed i governanti tedesco-orientali erano costretti a confrontarsi con la memoria della repressione da loro attuata.

La Porta di Brandeburgo vista da Pariser Platz.
Foto dell’Autore

Scendo dalla metro a Potsdamer Platz e dopo aver percorso poche centinaia di metri vado letteralmente a sbattere contro uno dei monumenti che prediligo in assoluto, la Porta di Brandeburgo. Un tripudio di arte neoclassica, massiccia e al tempo stesso slanciata, con il suo colonnato dorico che la fa assomigliare ad un tempio della Magna Grecia trasportato nelle brumose lande dei Germani. Sulla sua cima svetta la quadriga bronzea guidata da Eirene, la personificazione ellenica della Pace. Attraversandola imbocco uno dei viali più celebri d’Europa, Unter den Linden, ed è impossibile non immaginare migliaia di Pickelhaube sfilare tra ali di folla festante, vittima di quell’ebbrezza bellicista che intossicò l’Europa nell’estate del 1914; al tempo stesso la mente corre a sfilate più lugubri, un ventennio dopo, in cui gli elmetti di acciaio erano accompagnati da bandiere raffiguranti una croce uncinata. Mi sposto leggermente e raggiungo la facciata monumentale del Reichstag, con il suo “dem Deutschen Volke” tra

La bandiera sovietica sventola sul Reichsta, 1945.
Foto presa da Internet

timpano e colonnato. Bruciato dai nazisti nel 1933, incidente sfruttato da Adolf Hitler per instaurare il suo regime totalitario, venne quasi completamente distrutto nel corso dei furiosi combattimenti tra aprile e maggio del 1945 e divenne il “set” di una delle foto più celebri del secondo conflitto mondiale: quella che ritrae un soldato sovietico che sventola la bandiera rossa sul tetto cosparso di macerie.

Tiergarten, particolare.
Foto dell’Autore

Torno indietro e lascio la Brandenburger Tor alle mie spalle, puntando verso la Siegessäule e dopo poche centinaia di metri, alla mia destra, trovo il memoriale. L’aspetto ricorda leggermente l’analogo monumento presente a Vienna, ma questo appare molto più massiccio e marziale, con un colonnato a semicerchio formato da sette colonne, con quella centrale che svetta nettamente sulle altre sei, sulla cui cima si erge la statua di un soldato sovietico.  All’ingresso dell’area, quasi a voler difendere il sonno eterno dei 2500 caduti qui sepolti, si stagliano due carri armati T-34 e due pezzi di artiglieria. È proprio qui, sotto il colonnato, che faccio il primo di una serie di incontri interessanti. Si tratta di un uomo, che mi si avvicina rivolgendosi a me in un inglese smozzicato, segnato da un fortissimo accento dell’Est. Iniziamo a parlottare in uno strano miscuglio di lingue e scopro che l’uomo è russo e che alcuni membri della sua famiglia sono caduti proprio durante la spallata finale dell’Armata Rossa contro il Reich. Ha bisogno di alcune informazioni che purtroppo non sono in grado di dargli, per cui ci salutiamo, mentre lentamente rientro in albergo.

Il giorno dopo mi alzo di primo mattino: le cose da vedere sono tante e in serata devo prendere l’autobus per Danzica, meta successiva del mio viaggio. Sfrutto il deposito bagagli dell’albergo e con il minimo indispensabile caricato in spalla mi tuffo in metropolitana: Ost Berlin, arrivo! La prima meta è il memoriale di Pankow, situato nell’omonimo quartiere, cantato dai CCCP come “Hauptstadt der DDR“, in cui dimorava la nomenklatura del Partito e del suo apparato burocratico. Guardando dal finestrino del treno suburbano i palazzoni di Berlino Est cedono lentamente il posto ad una serie di casette monofamiliari che vanno a formare quello che a prima vista sembrerebbe un gradevole quartiere residenziale.

Pankow, memoriale sovietico.
Foto dell’Autore

Percorro il breve viale alberato che conduce al cimitero militare, dove sono sepolti oltre 13.000 caduti, e davanti ai miei occhi appare uno dei memoriali più toccanti che mi sia mai capitato di vedere. Centinaia, migliaia di fiori rossi come il sangue e, ai lati del viale principale, otto camere mortuarie che contengono i resti dei soldati. In fondo una grande statua della Madre che veglia su un militare ucciso e, dietro di lei, un alto obelisco di porfido. Trovandosi lontano dal traffico, contrapponendo al freddo della pietra e del bronzo il rosso brillante del fiori, è un luogo intimo, raccolto, quasi umile nella sua monumentalità. L’esatto contrario dell’immenso memoriale di Treptower Park che, con i suoi 100.000 metri quadrati occupa una buona porzione dell’omonimo parco.  Superato il portale, formato da due bandiere sovietiche stilizzate, ai cui piedi si trovano altrettante statue raffiguranti dei soldati in ginocchio e a capo scoperto in onore dei caduti, si apre una enorme distesa che culmina, sul lato opposto, in un piccolo

Treptower Park, memoriale sovietico.
Foto dell’Autore

tumulo su cui svetta l’enorme statua del soldato liberatore. Il soldato, raffigurato con una spada in mano, mentre con l’altra sorregge un bambino calpestando i resti di una svastica fatta a pezzi, è il veterano ed Eroe dell’Unione Sovietica Nikolai Ivanovic Masalov. Tra portale e tumulo si ergono 16 are di pietra, una per ogni repubblica sovietica, con bassorilievi che raffigurano gli eventi della Grande Guerra Patriottica e frasi di Stalin. Visitando questi luoghi sono animato da sensazioni contrastanti. Da un lato penso al contadino russo costretto ad imbracciare il fucile e ad avanzare contro il piombo nemico per non cadere vittima di quello sparato nelle retrovie dalle truppe del NKVD, mentre dall’altro penso alle sofferenze subite dalla popolazione civile tedesca, alle innumerevoli violenze sulle donne che accompagnarono, in ogni teatro bellico, la lotta contro il III Reich: per combattere un mostro bisogna diventare essi stessi un mostro? Oppure è semplicemente nella natura dell’uomo quella di diventare un demone quando questi è in grado di esercitare il potere di vita e di morte su di un proprio simile avendo la certezza di non pagare per le conseguenze delle proprie azioni? Pensieri simili mi accompagneranno anche in Polonia, ma su questo ritorneremo quando sarà il momento.

I palazzoni di Berlino Est.
Foto dell’Autore

La prossima tappa prevede un mio ritorno verso il centro, che raggiungo utilizzando la rete ferroviaria suburbana. Dal finestrino vedo scorrere i palazzoni di Berlino Est, molto dei quali in stato di abbandono e abbelliti dal lavoro di diversi street artist, tanto che mi sembra di riconoscere una o due opere di Blu. Il famosissimo Checkpoint Charlie è uno dei tre valichi che permettevano di raggiungere Berlino, oltre ad essere l’unico punto in cui i visitatori stranieri potevano accedere alla parte orientale della capitale tedesca. È qui che nell’ottobre del 1961, nel bel mezzo della crisi di Berlino, causata dalla decisione di erigere il Muro, carristi americani e sovietici si confrontarono, per la prima e unica volta nel corso della Guerra Fredda, a bordo dei rispettivi mezzi corazzati, lasciando il mondo con il fiato sospeso per il timore che potesse scoppiare un nuovo conflitto mondiale. Arrivo sul posto e subito tutto mi appare tremendamente finto. Il posto di controllo originale venne smantellato e alcune porzioni musealizzate, mentre quello che vedono i visitatori è solo una ricostruzione

Il Checkpoint Charlie.
Foto dell’Autore.

realizzata nel 2000 ad uso e consumo dei turisti che affollano la zona. I palazzi vicini, tutti di recente costruzione, tolgono qualsiasi atmosfera al luogo, spersonalizzandolo. Infine, i numerosi negozietti di souvenir vendono tutti le stesse identiche cose. Alcune, come l’oggettistica dedicata all’Ampelmännchen, l’omino dei semafori di Berlino Est, sono carine, ma la maggior parte sono pacchiane. Non parliamo, poi, dei frammenti – veri o presunti non è dato saperlo – del Muro che, venduti a peso d’oro, trasmettono l’idea che il simbolo della divisione della Germania sia stato triturato per essere ridotto a feticcio per i visitatori. Un discorso a parte meritano le piccole bancarelle gestite da turchi che vendono memorabilia dell’Armata Rossa e della DDR, di cui ammetto di essere collezionista. Insomma, la delusione è stata tanta e, a mio avviso, il Checkpoint Charlie non è altro che una gigantesca trappola per turisti.

Topographie des Terrors, particolare dell’esterno.
Foto tratta da Wikipedia

A risultare, invece, estremamente interessante ed apprezzabile è Topographie des Terrors (Topografia del terrore), una mostra permanente sulla nascita, sullo sviluppo e sul funzionamento dell’apparato repressivo e di sterminio del regime nazista, situato a poca distanza dalla trappola per turisti di cui sopra. La scelta del luogo non è casuale, visto che l’edificio sorge sui resti del quartier generale della Gestapo, la polizia segreta del Reich, in un quartiere che ai tempi ospitava anche i comandi di SS, Sicherheitsdienst (SD) e, a partire dal 1939, del Reichssicherheitshauptampt (RSHA). Le SS, credo, non necessitano ulteriori presentazioni, mentre il Sicherheitsdienst era il loro servizio segreto che successivamente confluì, insieme alla Gestapo e alla Kripo, la polizia criminale, nel RSHA. Per questo nuovo “super ente” lavorarono criminali del calibro di  Reinhard Heydrich e Adolf Eichmann.

La mostra è letteralmente un pugno nello stomaco, il primo dei molti che sperimenterò in questo viaggio. Oltre a delinerare il funzionamento della macchina repressiva all’interno del Reich, ci sono pannelli esplicativi relativi all’Olocausto e alla guerra ai civili in ognuno dei paesi che vennero occupati dal regime nazista, dalla Norvegia all’Ungheria. Sembra quasi incredibile che nel cuore della civilissima Europa, quello stesso continente che si vantava di aver esportato la civiltà tra i selvaggi del resto del mondo, potesse prendere forma una tale mostruosità, uno sterminio su scala industriale. Homo homini lupus dicevano gli antichi e davanti a tutto questo è difficile riuscire a dare loro torto.

Il mio cervello elabora anche un’altra riflessione. Oltre a Topographie des Terrors, la capitale tedesca è colma di memoriali, tanto che mi sono imbattuto, non ricordo se in Potsdamer Platz o in Alexander Platz, in dei grandi pannelli esplicativi che raccontavano della campagna di Russia. Una esposizione semplice, diretta, scevra da sentimentalismi e che raccontava gli eventi così come si svolsero. A colpirmi in modo particolare l’uso di una parola, Vernichtungskrieg, per descrivere la condotta della guerra: nessun giro di parole, nessuna realtà edulcorata per rappresentare quella che a tutti gli effetti fu una guerra di sterminio non solo contro gli ebrei, ma contro tutti gli slavi considerati come dei subumani. È innegabile che la Germania abbia fatto un enorme lavoro per rielaborare il proprio passato, smantellando miti come quello secondo cui la Wehrmacht si comportò in maniera differente rispetto alle SS, non macchiandosi di crimini di guerra contro la popolazione civile. Il confronto con la situazione italiana – e nel mio piccolo con quella sudtirolese – è impietoso. Non solo abbiamo il pessimo vizio di dipingerci sempre e soltanto come vittime, scaricando ogni responsabilità sugli altri, ma arriviamo a negare l’evidenza dei fatti – deportazioni di civili nei Balcani e Nordafrica, uso di armi di distruzione di massa, rappresaglie contro la popolazione civile, collaborazione all’Olocausto – e addirittura a cercare di riabilitare criminali di guerra come Graziani. Da aspirante storico, mi rendo conto che il lavoro da fare è enorme, ma non possiamo più esimerci dal portarlo avanti, visto che i testimoni diretti di quegli anni ci stanno lasciando uno dopo l’altro.

Bancarelle al Checkpoint Charlie.
Foto dell’Autore

Ormai è pomeriggio inoltrato. Torno in albergo a riprendere il mio bagaglio e con calma mi dirigo verso la stazione centrale degli autobus, dove in serata prenderò il bus per la mia destinazione successiva, un luogo iconico della storia del Ventesimo secolo. Con la mia solita fortuna scelgo un posto particolarmente scomodo, complice il fatto di avere la macchina fotografica fissata alla cintura, ma ormai il danno è fatto e non bisogna fare altro che aspettare l’arrivo a destinazione. L’autobus macina i chilometri sulla Autobahn che procede diritta verso Est come una di quelle strade americane che si vedono nei film ed in poco tempo raggiungiamo l’Oder, la nuova frontiera tra Polonia e Germania dopo la fine della seconda guerra mondiale. Attraversato il ponte, faccio in tempo a scorgere i vecchi edifici della dogana sul lato polacco, con una pattuglia di sonnolenti agenti di polizia intenti a chiacchierare a lato della strada, che le palpebre si fanno sempre più pesanti. La prossima meta è Gdansk, Danzica.

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