L’introduzione delle armi da fuoco in Giappone

Ashigaru mentre impugnano dei tanegashima

Analogamente a quanto accaduto in Europa qualche secolo prima, l’introduzione delle moderne armi da fuoco nel Giappone feudale ebbe un impatto epocale sulla conduzione della guerra e sulla stessa storia dell’arcipelago. Nonostante la vicinanza con la Cina, luogo dove nacque la polvere da sparo, e l’intenso scambio culturale e commerciale con essa, le armi da fuoco giunsero nel Sol Levante da molto più lontano, ovvero dalla colonia portoghese di Goa, in India. Ad onor del vero, dal Celeste Impero erano giunti in Giappone i cosiddetti “teppo“, letteralmente “bastoni di ferro”, delle rudimentali armi del tutto simili agli ingombranti archibugi europei del XV secolo, che tuttavia non ebbero mai un grande utilizzo, proprio a causa delle loro dimensioni e della difficoltà nell’utilizzo.

È il 1543 e l’arcipelago giapponese è sconvolto da quasi un secolo dalle violenze del Sengoku Jidai, l’età degli Stati Combattenti: lo shogunato Ashikaga che esercitava il potere sin dal 1336 è in una crisi irreversibile e non riesce più a tenere a bada i vari daimyo, i signori feudali, che iniziano a combattere tra di loro per ottenere la supremazia. Un giorno, una giunca cinese diretta ad Okinawa è costretta ad ormeggiare a Tanegashima, all’estremità settentrionale dell’arcipelago delle Ryukyu, per sfuggire ad una violenta tempesta. A bordo dell’imbarcazione vi è una compagnia di avventurieri portoghesi e tra il loro equipaggiamento fanno bella mostra di sè anche alcuni archibugi. Il signore dell’isola, Tanegashima Tokitaka, intuisce immediatamente le potenzialità di queste nuove armi e, non si sa se con le buone o con le cattive, riesce ad ottenerne alcuni esemplari che invia immediatamente al suo miglior fabbro, con l’intenzione di replicarle per equipaggiare il proprio esercito. Gli armaioli di Tanegashima, però, non riescono a replicare lo scodellino, la parte dell’arma in cui la polvere da sparo entra in contatto con la miccia accesa, generando così lo scoppio che lancia il proiettile fuori dalla canna dell’arma. Il problema verrà risolto soltanto l’anno successivo, quando i portoghesi torneranno sull’isola con un loro armaiolo da mettere al servizio del feudatario.

All’epoca l’isola di Tanegashima era un feudo vassallo del clan Shimazu, che dal castello di Hyuga controllava la parte meridionale del Kyushu, la più meridionale delle grandi isole che compongono l’arcipelago giapponese. Fu in virtù di questo legame di vassallaggio che gli Shimazu furono il primo grande clan ad entrare in possesso dei Tanegashima-teppo, gli archibugi di derivazione portoghese, e ad utilizzarli nel corso del vittorioso assedio del castello di Kijiki, nel 1549. Pur trattandosi di uno scontro piuttosto marginale, fu il primo impiego documentato di armi da fuoco moderne in Giappone. In breve tempo anche gli altri signori feudali iniziarono ad interessarsi a questo nuovo tipo di armamento e tra coloro che compresero fin da subito le potenzialità dell’archibugio vi fu il giovane Oda Nobunaga, che già nel 1550 impressionò i propri rivali facendo sfilare ben 500 archibugieri in formazione.

Ashigaru in posizione dietro a degli scudi di legno

Ben presto la corsa alle armi da fuoco assunse proporzioni colossali, tanto che nei 10 anni successivi vennero prodotti qualcosa come 300.000 archibugi. Gli armaioli nipponici, inoltre, riuscirono a migliorare ulteriormente il modello portoghese, sia attraverso la realizzazione di calibri più grandi e con maggior potere di penetrazione, sia con l’introduzione di una custodia laccata in grado di proteggere il meccanismo di sparo dall’acqua, rendendo di fatto possibile l’uso delle armi da fuoco anche sotto la pioggia. L’afflusso di un così massiccio numero di archibugi si riflesse inevitabilmente sui campi di battaglia. Fino a quel momento, infatti, il peso principale degli scontri era sostenuto dalla casta militare dei samurai che affrontandosi in una serie di duelli singoli determinava l’andamento della battaglia. A rimpolpare le fila degli eserciti vi era poi una massa informe di contadini coscritti, gli ashigaru, truppe armate alla leggera, poco addestrate, molto poco fedeli e che di fatto sopravvivevano grazie al saccheggio sistematico dei territori che attraversavano. Nell’ultimo periodo, inoltre, la cavalleria ebbe un ruolo crescente, soprattutto grazie alle innovazioni apportare dal clan Takeda, fino al punto di diventare padrona del campo di battaglia. L’arrivo dei Tanegashima-teppo rivoluzionò tutto questo. Pur essendo notevolmente lenti da caricare – un arciere poteva scoccare 15 dardi nel lasso di tempo necessario ad un archibugiere per ricaricare dopo aver sparato – erano estremamente facili ed intuitivi da utilizzare, tanto da richiedere un addestramento minimo, diventando così l’arma d’elezione della fanteria leggera. Di conseguenza il numero di ashigaru sul campo di battaglia aumentò vertiginosamente, portando alla dilatazione delle forze schierate e alla necessità di elaborare nuove tattiche per gestire le truppe al meglio. Lo stesso addestramento degli ashigaru migliorò notevolmente, trasformandoli da soldati dal morale scarso a formazioni disciplinate in grado di sostenere l’urto della battaglia. L’aumento del ruolo degli archibugieri sul campo di battaglia ebbe l’effetto opposto su quello dei samurai: le maestose armature e le katane dei seguaci del Bushido, la via del guerriero, nulla potevano contro le palle sparate in un mare di fiamme e fumo dalle armi portate dai nanban, i mercanti stranieri. L’unica minaccia per gli ashigaru era costituita dalla cavalleria.

Ritratto di Oda Nobunaga

Ancora nel 1572, sul campo innevato di Mikatagahara, la cavalleria dei Takeda fece scempio degli archibugieri di Tokugawa Ieyasu, travolgendoli con una carica a ranghi serrati mentre questi ricaricavano le loro armi dopo aver sparato una prima salva. Tokugawa, che aveva riposto ogni speranza di vittoria contro un nemico tre volte superiore proprio nei nuovi armamenti, subì una cocente sconfitta e si narra che riuscì a mettersi in salvo con soli cinque uomini. La supremazia della cavalleria sulla fanteria veniva nuovamente confermata con il sangue e nessun uomo sembrava essere in grado di metterla in discussione. Un uomo, certo, ma un demone? Da semplice strumento per impressionare nemici e alleati, i Tanegashima-teppo erano diventati, nelle mani di Oda Nobunaga, uno straordinario mezzo per imporre il proprio potere militare e, conseguentemente, perseguire il Tenka Fubu (letteralmente “una sola insegna militare sotto il cielo”, dove con Tenka si può intendere il Giappone) a scapito degli altri signori feudali. Per ironia della sorte anche i suoi più acerrimi nemici, gli Ikko-ikki, un gruppo eterogeneo di contadini, monaci guerrieri e piccola nobiltà decaduta che si opponeva al potere dei grandi feudatari, arrivando a controllare vaste aree dell’Honshu, si rivelarono estremamente abili nello sfruttare le nuove armi da fuoco. Nel corso del decennale conflitto che vide affrontarsi i due schieramenti, lo stesso Nobunaga fu vittima di quelle armi micidiali che tanto amava. A Nagashima, ad esempio, le raffiche degli Ikko-ikki inflissero enormi perdite all’esercito del clan Oda che, dopo un temporale improvviso, si ritrovò con oltre il 90% degli archibugi resi inservibili dall’acqua: fu per un soffio che la ritirata non si trasformò in una rotta disordinata sotto l’incalzante fuoco nemico.

Raffigurazione della battaglia di Nagashino

Il canto del cigno della cavalleria avvenne due anni dopo, nella piana ai piedi del castello di Nagashino, in una battaglia che vide confrontarsi il clan Takeda, maestri nell’arte della guerra a cavallo, ed il clan Oda. In questa occasione Nobunaga riuscì a schierare il favoloso numero di 3000 archibugi, una concentrazione di fuoco mai vista prima nel Sol Levante. Memore della sconfitta subita dal suo alleato Ieyasu a Mikatagahara, decise di schierare i suoi archibugieri disponendoli su tre file, in modo da garantire un fuoco costante, proteggendoli con un contingente di lancieri e palizzate di legno. Quando i Takeda lanciarono i loro cavalieri all’attacco, confidando in una facile vittoria, il loro impeto venne spezzato da un uragano di fuoco. Quale eresia! Nobili guerrieri macellati da poveri contadini illetterati, inaudito! Fu in tutto e per tutto una versione nipponica della carica francese a Crecy, 229 anni prima: il fiore della nobiltà francese trafitto da una miriade di frecce, i cronisti dell’epoca riferirono che il sole ne fu oscurato, scoccate da cinquemila arcieri gallesi al soldo del re inglese. Sebbene a Nagashino i combattimenti continuarono ad infuriare per ore, era ormai chiaro a tutti che una forza di ashigaru ben addestrata ed equipaggiata poteva dominare il campo di battaglia. Da questo momento in poi molti cavalieri decisero di iniziare a combattere appiedati, come normali samurai, mentre le unità di cavalleria si trasformarono da punte offensive da lanciare contro il fronte nemico per spezzarlo, a unità più leggere, utili ad aggirare i fianchi del nemico e a rastrellare gli avversari in fuga.

Le armi da fuoco giocarono un ruolo importante anche nell’epica battaglia di Sekigahara, del 21 ottobre 1600. Si trattò di uno scontro immane, che vide impegnati sul campo circa duecentomila uomini, una enormità per il Giappone dell’epoca, appartenenti a pressocché tutti i clan principali e a moltissimi clan minori. Si trattò dell’ultimo grande scontro del Sengoku Jidai e consacrò la vittoria di Tokugawa Ieyasu, il vecchio alleato di Oda Nobunaga, che diede vita allo shogunato Tokugawa che resse il paese fino alla Restaurazione Meiji del 1869.

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