Galizia 2015. Settima tappa: Zakopane – Cracovia – ritorno (16-18 agosto)

Nelle strade di Cracovia Foto di Marzia Antinori

Krakow, storica capitale del Regno di Polonia prima che Sigismondo III spostasse il centro del potere a Varsavia nel 1609; Krakau, capoluogo della Galizia occidentale durante l’occupazione asburgica; Cracovia, ultima tappa del nostro viaggio transcarpatico. Questa città è probabilmente rimasta a lungo impressa nella memoria di mio bisnonno Josef. È nei dintorni della città, infatti, che nel gelido novembre del 1914, durante il disperato tentativo di respingere l’esercito russo diretto in Slesia, si ritrova con un congelamento di terzo grado ad entrambi i piedi. I medici riescono a salvare il sinistro, ma sono costretti ad amputare le dita del destro: un ultimo sacrificio officiato für Gott, Kaiser und Vaterland al capezzale dell’Impero morente; un sacrificio tutto sommato modesto, se comparato alle migliaia di uomini rimasti a guardare la luna sui campi di Galizia. Purtroppo, visto il poco tempo a nostra disposizione, la permanenza in città sarà ridotta all’osso, giusto un piccolo assaggio di un luogo saturo di Storia che meriterebbe una visita molto più approfondita.

La famosa banconota
Foto dell’autore

Salutiamo l’ostello, Zakopane e i Tatra affiggendo sulla pinboard del Goodbye Lenin una banconota su cui abbiamo segnato le tappe del nostro viaggio. Facciamo appena in tempo a salire sull’autobus che dal cielo plumbeo inizia a riversarsi una quantità inenarrabile di pioggia, che ci terrà compagnia, fortunatamente in dosi minori, per tutta la durata della nostra permanenza a Cracovia. Il nostro campo base, convenientemente situato a due passi da Stare Miasto, la Città Vecchia circondata da parchi che hanno preso il posto della cinta muraria, e da Kazimierz, un intrico di stradine che fino agli anni ’40 costituiva il cuore pulsante della comunità ebraica locale, si trova presso i Boomerang Apartments, una via di mezzo tra l’ostello e il mini appartamento a tema Australia: una piacevole coincidenza visto che a distanza di qualche mese Marzia si sarebbe trasferita down under. Il ragazzo alla reception si dimostra disponibilissimo e si offre di lasciarci usare la stanza come deposito per i bagagli anche il giorno successivo senza alcun costo aggiuntivo: in caso contrario saremmo stati costretti a girare carichi come muli fino alla partenza del notturno per Vienna, fissata per le 23.

Il memoriale dell’eccidio di Katyn
Foto dell’autore

Approfittando di un miglioramento delle condizioni meteo ci dirigiamo verso il cuore della Città Vecchia, la Rynek di Cracovia, la piazza più grande dell’intera Polonia. Facciamo il nostro ingresso costeggiando la collina di Wawel, su cui sorge l’omonimo castello. La leggenda vuole che in una grotta ai piedi del rilievo vivesse un terribile drago, Smok Wawelski, che terrorizzava la regione devastando le coltivazioni e divorando gli abitanti.  Un giorno, però, giunse da lontano il principe Krakus che, dopo aver sconfitto e ucciso il mostro, celebrò la vittoria fondando una città che prese il suo nome: Krakow, appunto. Appena prima di imboccare il rettilineo che conduce alla nostra meta, ci ritroviamo davanti il memoriale per le vittime del massacro di Katyn, probabilmente una delle pagine peggiori della storia sovietica. Dopo l’invasione tedesco-sovietica della Polonia, i sovietici si ritrovarono a gestire diverse migliaia di prigionieri di guerra, la maggior parte dei quali ufficiali che, in base al sistema di coscrizione vigente all’epoca, venivano reclutati tra l’intellighenzia polacca. Nella primavera del 1940, su ordine diretto di Berija, Stalin, Molotov e Vorošilov, l’NKVD procedette all’eliminazione sistematica dei prigionieri, il cui destino rimase ignoto per tre anni, fino all’aprile del 1943, quando i  nazisti si imbatterono per caso nelle fosse comuni contenenti i resti mortali di 4000 vittime, situate nella foresta di Katyn, nei pressi di Smolensk. La responsabilità del massacro venne scaricata sui tedeschi e solo negli anni ’90, con l’apertura degli archivi sovietici, la verità venne a galla. Singolare storia quella della Polonia del Novecento, un secolo di per sè saturo di sangue, ma che ad Est sembra essersi accanito con particolare ferocia. Non solo l’annientamento sistematico della vivace comunità ebraica e la deportazione di “elementi sospetti” verso le profondità kazake e siberiane, ma anche l’espulsione di milioni di tedeschi dalla Prussia e dalla Slesia, rimpiazzati da altrettanti polacchi espulsi dalle regioni occidentali di Bielorussia e Ucraina dopo la loro annessione da parte dell’URSS, e ancora lo spopolamento dei Carpazi con l’esodo forzato di lemki e boyko.

La Rynek è bella da mozzare il fiato. La piccola chiesetta di San Wojciech sembra un giocattolo dinanzi alla mole della basilica di Santa Maria, con le sue inconfondibili due torri campanarie, o al palazzo del tessuto che occupa la porzione centrale della piazza. Notiamo una serie di stand gastronomici e, avvicinandoci, veniamo a scoprire che è in corso il festival dei pierogi, piatto che per il sottoscritto ormai ha acquistato una rilevanza pari alla manna per gli ebrei in fuga dall’Egitto. I prezzi sono molto contenuti e le porzioni sufficienti a sfamare un reggimento di Alpini: abbiamo risolto il problema dei pasti. I dintorni della piazza e le gallerie del palazzo del tessuto traboccano di negozi di souvenir, luoghi che di solito non attirano la mia attenzione, ma ammetto che i gadget di Smok Wawelski mi ispirano simpatia, forse per la leggera somiglianza con Prezzemolo di Gardaland. Incontriamo anche l’equivalente polacco dei centurioni romani, ossia una coppia di ragazzi con uniforme e corazza degli ussari alati, gli stessi cavallerizzi che, al comando del re di Polonia Jan III Sobieski, si lanciarono dalla cima del Kahlenberg piombando sull’esercito nemico, liberando Vienna dall’assedio turco nel 1683.

Mentre passeggiamo per le vie del centro, a Marzia viene la più bella delle idee: perchè non farci un tatuaggio per avere un ricordo indelebile del viaggio? Parte quindi la ricerca di uno studio di tatuatori, mentre evitiamo per un soffio di cadere nella rete di un gruppo di attraenti ragazze immagine di uno dei numerosi night club del centro. La stanchezza accumulata in montagna il giorno precedente si fa presto sentire e, accorgendoci di avere le gambe dure come il legno, decidiamo di rifugiarci dentro un bel pub in stile belga e di rimandare la ricerca all’indomani: il tatuaggio può aspettare, una bella birra gelata no! Il mattino dopo ci infiliamo nel primo studio che incontriamo sul nostro cammino – soltanto dopo ci accorgeremo che il centro è strapieno di tatuatori – e scopriamo di essere baciati dalla fortuna: la tatuatrice ha giusto una mezzora libera, per cui è ben felice di impugnare la macchinetta per noi. Ci indirizza anche verso la più vicina drogheria dove comprare pellicola, salviettine umidificate neutre e crema al pantenolo: al momento di pagare ci rendiamo conto dallo sguardo che la commessa ci ha scambiati per una giovane coppia con pargolo al seguito.

Il kaiser che fa capolino
Foto dell’autore

Dirigendoci verso il Barbacane, una delle ultime vestigia dell’antica cinta muraria nei pressi della porta Florianska, vedo un volto piuttosto familiare fare capolino dalle insegne di negozi e locali: è lui, il Kaiser Franz Josef che con i suoi favoriti osserva con sguardo malinconico la miriade di persone affaccendate lungo la strada. Scopro così l’esistenza di un pub a tema imperial-regio che, purtroppo per me, risulta essere chiuso. Il Barbacane è una possente postazione difensiva di forma circolare, che costituiva un passaggio obbligato per chiunque volesse entrare in città e che venne realizzato sul finire del XV secolo.

Mentre vaghiamo senza meta, ci ricordiamo che al Castello di Wawel è esposto uno dei dipinti più celebri di Leonardo da Vinci, la Dama con l’ermellino: sarebbe un vero peccato non ammirarlo! Lungo il tragitto, che ci farà attraversare per l’ennesima volta tutta la Città Vecchia, mi cade l’occhio su un piccolo negozio di dischi. Ormai sono anni che mantengo una consolidata tradizione, ovvero il tornare da ogni viaggio con almeno un vinile, per cui entriamo di corsa. Il locale è avvolto nella penombra e, come si addice ad ogni negozio specializzato in heavy metal, le pareti sono coperte da poster e bandiere di gruppi musicali. Il proprietario è un po’ lo stereotipo del metallaro attempato che sembra essere rimasto nel periodo a cavallo tra anni ’70 e ’80, mentre il suo assistente sulla ventina sembra un elfo a causa della statura e della cascata di capelli biondi che gli copre gran parte della schiena. Il vecchio alza lo sguardo con aria accigliata e vedendo che parliamo in inglese ci domanda da quale parte del vasto mondo proveniamo e alla nostra risposta esclama “Italia! Sconto!” annuendo con aria grave. Spulcio tutti i dischi del negozietto e, dopo aver superato la proverbiale indecisione che mi assale in luoghi come librerie, fumetterie e appunto negozi di dischi, decido di portare a casa il doppio LP di “Hammerheart” dei Bathory e due dei primi dischi dei polacchi Behemoth. Se io sono contento per gli acquisti, lo è anche il vecchio metallaro, dato che mi riempie di poster e di toppe da trve metalhead. Per nostra sfortuna al castello troviamo una coda interminabile e, come se ciò non bastasse a scoraggiarci, inizia a diluviare, motivo per cui ci rifugiamo nella prima caffetteria che troviamo.

La Rynek poco dopo il crepuscolo
Foto di Marzia Antinori

Nel resto della giornata ci comportiamo come normali turisti, con tanto di cena al festival dei pierogi, con Marzia che addenta uno stinco di maiale grande quanto la sua testa, mentre io mi delizio con dei pierogi saltati nel burro bollente grandi quanto la mia mano: un milione di calorie a morso, ma credetemi non me ne pento minimamente! Torniamo alla stanza, recuperiamo i nostri bagagli e, dopo aver salutato e ringraziato di nuovo l’amico dei canguri per la disponibilità, ci dirigiamo verso la stazione. Il notturno per Vienna ci attende solitario al binario, mentre gruppetti di giovani in viaggio con l’Interrail si avvicinano al capotreno per sapere se ci sono ancora posti liberi. Saliamo a bordo, carichi di bagagli come dei disperati, grazie ai biglietti arrivati per il rotto della cuffia il giorno della partenza e, arrivati al nostro scompartimento, arriva l’amara sorpresa: i nostri compagni di viaggio sono carichi tanto quanto noi ultimi arrivati, per cui, data la mancanza di spazio, ci toccherà occupare le cuccette con parte del bagaglio. Convinto di non essere capito da nessuno inizio ad imprecare come un mitologico incrocio tra uno scaricatore di porto veneto e un toscano inacidito, finchè il tizio nella cuccetta sotto di me mi chiede gentilmente di sollevare il lembo del lenzuolo che pendeva pericolosamente verso di lui. Indovinate in quale lingua me lo chiede? Figura di merda.

Il treno arriva a Vienna poco dopo l’alba, anche se con nostro rammarico scopriamo che il tempo non è dei migliori. Vienna caput mundi, la capitale dell’impero smisurato che le imperial-regie ferrovie collegavano con i più remoti e sperduti angoli della Bucovina e della Transilvania. Vienna, la città della Sezession, di Klimt e di Schiele. Vienna, la città da cui, secondo le saghe familiari tramandate oralmente, proverrebbe la famiglia di mia nonna, fuggita a gambe levate sul finire del Seicento dalle orde del Gran Turco. Sono schifosamente di parte, Vienna è uno di quei luoghi che mi è entrato nel cuore e che continuerà ad occuparne un pezzo fintanto che sarò vivo. Il nostro piano prevede una sosta di tre ore nella capitale austriaca, per cui vorremmo fare un giro in centro. Sfortunatamente il sottoscritto non è riuscito a chiudere occhio durante la notte, sia perchè ho viaggiato tutto il tempo in una posizione innaturale e scomodissima, sia per l’improvviso attacco di meteorismo del nostro compagno di viaggio ipersensibile agli altrui lenzuoli che ha rimbombato nelle mie orecchie per tutta la notte: il mio senso dell’orientamento smette di funzionare. Riusciamo a raggiungere la Stephansplatz e la mole del Duomo grazie alla metropolitana, ma poi iniziamo a vagare senza meta tra Opera, Albertinum e Karlskirche, mentre dal cielo iniziano a cadere secchiate di acqua che a malincuore ci costringono a tornare in stazione. Davvero un gran peccato.

Mentre siamo in viaggio verso Innsbruck inizio a tirare le somme di questa nostra avventura galiziana. Dal punto di vista fisico è stato veramente impegnativo. Tutti e due soffriamo terribilmente il caldo e per la maggior parte del tempo, esclusa la piacevole parentesi carpatica, abbiamo dovuto sopportare temperature molto al di sopra dei 30 gradi, gravati dal peso di armi e bagagli durante gli spostamenti. È stato impegnativo anche dal punto di vista emotivo: non è facile viaggiare attraverso un paesaggio irrimediabilmente contaminato, ma questa consapevolezza l’ho raggiunta l’anno successivo, nel corso della mia seconda spedizione in solitaria, per cui preferisco aspettare e parlarne in maniera esaustiva al mio ritorno dai campi di battaglia di Verdun, dove mi recherò tra due settimane. Si è trattato anche di una esperienza formativa, dato che per la prima volta sono uscito dalla mia zona comfort e mi sono messo in gioco, facendo quello che a tutti gli effetti è un piccolo salto nel buio, andando in Ucraina quando tutte le persone sane di mente me lo sconsigliavano e senza l’ausilio di nessun tipo di guida: per quanto possa sembrare assurdo mi ha reso molto più sicuro di me e delle mie capacità, tanto che l’anno successivo sono partito all’avventura, nella Galizia polacca questa volta, senza aver pianificato tutto in maniera maniacale. Inoltre è stato l’inizio di un amore-ossessione smodato per quella che fu la Galizia e le regioni circostanti. Ho iniziato a documentarmi, a scavare oltre la crosta del mito – e su questo ci sarebbero moltissime cose da dire e probabilmente presto o tardi scriverò qualcosa a proposito – a confrontare la mia visione idealizzata con quella molto più cruda e meno tenera della realtà storica, ho iniziato a leggere e rileggere i cantori di questa terra, da Roth a Franzos passando per Franko e Wittlin. Infine per me questo viaggio e, soprattutto, la realizzazione di questo resoconto è stato un po’ un rito di passaggio verso l’età adulta. Sono sempre stato molto incostante nei miei interessi e finora mi è sempre capitato di lasciare a metà tutto ciò che iniziavo, per cui per me è difficile realizzare di aver finalmente portato a compimento un progetto, anche se per farlo ci sono voluti due anni. Mi rendo conto che da solo non ce l’avrei mai fatta e che buona parte del merito spetta a voi che leggete questo blog, a voi che mi avete ascoltato decantare le bellezze di Leopoli piuttosto che l’orrore di Rawa Ruska per l’ennesima volta senza sbuffare o alzare gli occhi al cielo, a voi che incuriositi mi avete tempestato di domande e a voi che mi avete incoraggiato. Non mi importa se ci conosciamo di persona o solo attraverso l’impersonale comunicazione digitale: grazie; grazie di cuore.

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