Galizia 2015. Sesta tappa: Przemysl – Zakopane (14-16 agosto)

A spasso nei boschi di Zakopane. Foto dell’autore

Premetto che non mi soffermerò a lungo sul viaggio e questo per due motivi. In primis perchè, specialmente nella tratta fino a Cracovia, tutto è andato liscio come l’olio e non ci sono stati eventi degni di nota e poi perchè ho avuto modo di visitare la regione compresa tra Przemysl e Cracovia nel corso della mia seconda “spedizione” galiziana, per cui ne parlerò in maniera approfondita quando racconterò di quel viaggio.

Ore 7.30 del mattino. Il treno arranca lungo la banchina della stazione di Przemysl, mentre noi ci domandiamo, timorosi, se questo sarà l’ennesimo viaggio della speranza privo di aria condizionata e generi di conforto. Saliamo a bordo dell’Intercity 38102 Kossak e, appena entrati nello scompartimento, veniamo accolti dalla fresca carezza dell’impianto di climatizzazione: deo gratias. Il nome del convoglio è evocativo, un enorme cavallo di ferro che divora la pianura polacca da Oriente verso Occidente, proprio come fecero i cosacchi dello zar un secolo fa e quelli dell’Armata Rossa una manciata di anni dopo. La realtà, tuttavia, è molto diversa dall’immaginazione e il treno, piuttosto che correre, sembra arrancare lungo la massicciata. La rete ferroviaria polacca, infatti, è oggetto di un ambizioso progetto di ammodernamento delle infrastrutture e di razionalizzazione delle stesse, il che comporta un depotenziamento – e talvolta la soppressione – delle linee secondarie e un susseguirsi ininterrotto di cantieri lungo le altre. La linea per Cracovia non fa eccezione ed il convoglio è costretto a muoversi alla mirabolante velocità di 50-60 km/h per non pregiudicare la sicurezza della miriade di operai affaccendati lungo i binari. Se non altro in questo modo è possibile godere al meglio del paesaggio che scorre fuori dal finestrino. La prima cosa che noto è il diverso uso del territorio: se in Ucraina prevalgono i campi coltivati, spesso intervallati da ampi spazi incolti e “selvaggi”, in questo angolo di Polonia prevalgono gli alberi. Su ambedue i lati siamo circondati da fitte e ordinate file di alberi che, a giudicare dalle dimensioni uniformi dei tronchi e dalla loro disposizione, presumo siano destinati alla produzione di legname.

Attraversiamo luoghi i cui nomi sono indissolubilmente legati alla Grande Guerra, come Jaroslav e, soprattutto, Tarnow, dove nella primavera del 1915 le forze austro-tedesche sferrarono una vittoriosa offensiva che costrinse le truppe zariste ad evacuare la Galizia e a ritirarsi ben oltre i confini del 1914. Se nelle Fiandre il fronte rimase sostanzialmente invariato per quasi tutta la durata del conflitto, salvo avanzate estremamente limitate, la caratteristica principale del fronte orientale è la sua enorme mobilità: nel corso dei 4 anni di guerra, la prima linea oscillò avanti e indietro per centinaia di km, una cosa impensabile sul fronte occidentale, dove al costo della vita di migliaia di uomini si poteva avanzare di poche centinaia di metri. Il motivo principale di questa mobilità risiede soprattutto nell’enorme estensione della linea del fronte, dal Baltico alla Bukovina – e dalla fine del 1916, con l’entrata in guerra della Romania, fino alla costa del mar Nero – che rendeva impossibile una concentrazione di fuoco paragonabile a quella presente in Europa occidentale: basti pensare che in Galizia l’esercito austroungarico poteva schierare un fucile ogni due metri, mentre sull’Isonzo si arrivava a tre fucili per metro. A questo va poi aggiunto lo stato primitivo della rete viaria, specialmente in territorio russo, che rendeva impossibile l’afflusso in tempo utile di rinforzi e riserve in caso di sfondamento nemico, costringendo quindi i comandanti a far arretrare l’intera linea del fronte per evitare danni ben maggiori.

A poche file di sedili da noi, viaggia una giovane madre con la figlioletta. La bambina avrà avuto sui quattro-cinque anni e, come tutti i bambini della sua età, si mette a osservare con un misto di curiosità e timidezza gli altri passeggeri, camminando per il vagone, senza tuttavia allontanarsi troppo. Tutto questo finchè a Tarnow non sale a bordo una suora che va a sedersi dietro alla bambina. Appena la piccola si accorge della sua presenza inizia ad emettere versi gutturali degni dei Cannibal Corpse o di qualche gruppo grind marcio: Satana ha le sembianze di una graziosa bimbetta bionda con le guance paffutelle.

Segnaletica montana. Foto dell’autore

La periferia di Cracovia si annuncia con un susseguirsi di capannoni industriali e casermoni popolari in stile sovietico che improvvisamente si sostituiscono alla campagna. Dopo una decina di minuti il treno inizia a rallentare mentre entra nella stazione centrale di Cracovia.  L’edificio è enorme e ci accoglie con la sua babele di scale mobili, schermi su cui compaiono messaggi promozionali e attività commerciali di ogni genere, dal fast food al negozio di abbigliamento. Di mio ho un grosso, grossissimo problema con il concetto moderno di “grande stazione”. A mio parere sono troppo asettiche, troppo simili le une alle altre, del tutto prive di qualsiasi identità, probabilmente a causa del loro cambio di funzione: se in origine erano nodi nella rete dei trasporti, ora sono diventate grandi centri commerciali con a margine la possibilità di prendere il treno e, come ben sappiamo, il centro commerciale è il non-luogo per eccellenza. Si tratta bene o male degli stessi motivi alla base della mio idiosincrasia per le grandi città, spinti però al parossismo. Non ho mai fatto mistero di preferire i piccoli centri, quella provincia che a volte può essere soffocante e opprimente con i suoi innumerevoli difetti, ma al tempo stesso scrigno che conserva il genius loci e l’identità di luoghi e popolazioni: questo viaggio, così come quello successivo, non hanno fatto altro che confermare tutto ciò.

Il complesso ospita anche la stazione delle autocorriere, dove ci rechiamo dopo esserci rifocillati per prendere l’autobus per la tappa successiva del nostro viaggio: Zakopane. La città è incastonata tra le cime dei monti Tatra, la porzione più elevata dei Carpazi, ed è una meta abbastanza rinomata tra i polacchi, specialmente d’inverno. La Capitale d’Inverno della Polonia, come spesso viene chiamata, compare anche in alcune delle mie opere preferita: qui si svolgono alcuni dei capitoli finali dell’immenso “La famiglia Moskat” di Singer ed è a Zakopane che il padre dell’autore di “Maus” viene venduto alla Gestapo dai passatori polacchi a cui si era affidato nella speranza di sfuggire all’Olocausto raggiungendo l’Ungheria. La storia della città durante la seconda guerra mondiale è piuttosto interessante, a cominciare dal fatto che nel dicembre del 1939 e febbraio del 1940, in una delle ville padronali della grande borghesia polacca, si tennero due vertici di alto livello tra funzionari della Gestapo e del NKVD sovietico per organizzare la “pacificazione” della Polonia.

Giusto per rendere il viaggio più “interessante”, il nostro Polskibus arriva con oltre un’ora di ritardo. Durante l’attesa gli altoparlanti diffondono annunci rigorosamente in polacco, mentre nessuno sembra in grado di spiegarci la situazione, cosa che ci mette in un leggero stato di tensione. Usciamo da Cracovia e, dopo giorni di pianura, il terreno inizia ad incresparsi in modo quasi impercettibile, per poi salire vistosamente, mentre l’autobus inizia ad arrampicarsi sui contrafforti dei Carpazi. Il paesaggio fuori dal finestrino assume caratteristiche sempre più familiari, sebbene l’architettura delle abitazioni sia molto caratteristica: sono di legno e presentano un altissimo tetto spiovente, in modo da far scivolare a terra la neve che in inverno cade copiosa. Siamo nella terra dei Gorale, etnonimo che indica i Polacchi delle montagne. Durante l’occupazione della Polonia, la follia della catalogazione razziale operata dai nazisti considerava i Goralenvolk, così venivano chiamati in tedesco, un gradino sopra al resto dei polacchi e pertanto assimilabili alla razza ariana dopo un adeguato processo di germanizzazione. Il tentativo di ingraziarsi i Gorale fu un totale insuccesso, visto che soltanto poche decine di loro aderirono alla causa nazionalsocialista, mentre la stragrande maggioranza partecipò più o meno attivamente alla resistenza.

La cena del bifolco sudtirolese. Foto di Marzia Antinori

Il nostro campo base è il Goodbye Lenin, filiale montana dell’omonimo ostello “ostalgico” di Cracovia, ospitato in una antica fattoria restaurata allo scopo. Si tratta di una sistemazione rustica, lontana dal centro di Zakopane, in una posizione relativamente isolata, tanto che il taxi ci scaricherà a circa 500 metri di distanza vista l’impossibilità di avvicinarsi ulteriormente, ma vicinissima ad uno degli ingressi del Tatra National Park che intendiamo visitare l’indomani. La struttura è veramente carina, anche se ci sono molti meno riferimenti “sovietici” rispetto alla casa madre, e i ragazzi dello staff si prodigano per consigliarci le migliori escursioni da fare in giornata. Lungo la strada principale, a circa un km in direzione del centro, troviamo una piccola trattoria dove vengono servite abbondanti porzioni di piatti della tradizione casareccia, accompagnati da ottima birra alla spina, ad un pretto più che modesto. Con nostra grande sorpresa le due signore che si alternano tra cucina e servizio ai tavoli parlano inglese.

Il mattino dopo il tempo non è dei migliori. Nubi plumbee avvolgono le cime più alte dei Carpazi e il rimbombare del tuono in lontananza sembra sconsigliare di mettersi in marcia. Aspettiamo un paio di ore per decidere il da farsi, ma la voglia di camminare è veramente tanta, per cui azzardiamo e, dopo esserci allacciati gli scarponi, alle 10 in punto ci incamminiamo verso la cresta di confine, a qualche km verso sud. Per poter accedere al parco nazionale dobbiamo pagare un piccolo obolo, non più di un paio di zloty. Sul momento, da acceso sostenitore del diritto all’accesso libero e alla libera fruibilità dei beni naturali, rimango un po’ perplesso, ma ragionandoci su mi rendo conto che al costo di un caffè – tariffa polacca, non italiana – si può contribuire alle spese di gestione del parco, rendendolo di fatto accessibile in sicurezza a tutti. Mi rendo conto di aver aperto una parentesi enorme e di averla liquidata in modo sbrigativo, ma credo che questa non sia la sede adatta per sviscerare una questione di primaria importanza, almeno per me, come questa.

Passeggiando intorno a Zakopane. Foto dell’autore

Il primo tratto del cammino è terrificante. Sono in corso importanti lavori di rimboschimento a seguito di una tempesta di vento che ha abbattuto decine di migliaia di alberi sui Tatra, per cui il terreno reso morbido dall’elevata umidità è stato letteralmente sconvolto dal passaggio dei veicoli pesanti necessari all’opera, rendendo necessaria una discreta prudenza per evitare storte e distorsioni. Per fortuna dopo circa un km ci ritroviamo nuovamente immersi nella foresta, mentre il sentiero inizia a salire. La nostra prima tappa è un rifugio, dove intendiamo fermarci per pranzare, e per raggiungerlo decidiamo di seguire la strada più breve. In poco tempo il sentiero si trasforma in una ripida rampa di ghiaino che massacra le gambe, ma nonostante la nostra mancanza di allenamento riusciamo a procedere a passo spedito, anche se in alcuni tratti ci ritroviamo madidi di sudore e con il fiato corto.  Giungiamo su una piccola cresta e, mentre fotografiamo il paesaggio, il sole decide di fare finalmente capolino tra le nubi, riaccendendo i colori sulle vette e facendoci tirare un sospiro di sollievo per quanto riguarda la situazione meteo. Solo in questo momento ci rendiamo conto che i sentieri della zona pullulano di escursionisti, tanto che in alcuni punti sembra di essere sulla riviera romagnola durante l’alta stagione. Per nostra fortuna abbiamo scelto un percorso non particolarmente battuto, anche se nell’ultima tratta incrociamo diversi gruppi di vacanzieri.

Il rifugio ed i fiori. Foto dell’autore

Il rifugio compare adagiato in una conca invasa dai fiori che sembrano voler sommergere le casupole di legno del soccorso alpino. Il posto pullula di persone, tra escursionisti – a quanto pare anche in Polonia a Ferragosto si fanno le gite – e spettatori di una gara di nordic running che si sta svolgendo in zona. La cucina, per nostra fortuna, è organizzatissima, così che riusciamo a mangiare in tempi umani e a prendere un caffè prima di riprendere la marcia verso la nostra meta, la forcella di confine, nella speranza di trovare meno affollamento. Dopo una mezzora di cammino raggiungiamo un impianto di risalita e, oltre ad apprezzare la pace e la bellezza del paesaggio, mi accorgo che il paesaggio sta cambiando nuovamente. Gli alberi ad alto fusto sono stati sostituiti da macchie di arbusti nani, mentre al posto dell’erba compaiono sempre più spesso muschi e licheni. Poco più in alto troviamo una serie di piccoli laghi di origine glaciale, alcuni dei quali non più grandi di uno stagno. Ci fermiamo un momento lungo la riva dello specchio d’acqua più grande, sia per riprendere un po’ di fiato e inebriarci con l’aria pura della montagna, sia per fotografare i germani che lo hanno eletto a loro dimora. Dopo pochi minuti di cammino incontriamo una coppia che procede in direzione contraria alla nostra. Che il mondo sia piccolo è un detto comune, ma in questo caso anche una grande verità, visto che i due sono romani e sono anche i primi italiani che incrociamo in oltre una settimana di viaggio. Scambiamo alcune parole e ci informiamo sulle condizioni del sentiero. Il ragazzo, in apparenza piuttosto provato, ci mette in guarda dicendo che poco oltre la strada si fa parecchio impegnativa. In effetti dal basso si vede una striscia che ripida si insinua tra le rocce, ma decidiamo di proseguire. Siamo ben oltre la linea della vegetazione, circondati da nuda roccia, e armati di determinazione e buona volontà ci incamminiamo, a nostra insaputa, verso il dramma. In un punto piuttosto esposto inizio a sentire le ginocchia molli, mentre la testa gira e la vista si appanna, escludendo completamente la visione periferica. Il battito cardiaco aumenta vertiginosamente e con esso la respirazione, mentre lungo la schiena inizia a scendere sudore freddo. Sto avendo un principio di attacco di panico. Ci fermiamo un secondo e discutiamo brevemente su cosa fare: non voglio rovinare l’escursione, ma so di non essere nemmeno in grado di continuare in sicurezza con le gambe che possono cedermi in qualsiasi momento. Decido, quindi, di fermarmi sul posto, mentre Marzia proseguirà fino alla meta.

La vista dall’alto. Foto dell’autore

Amo la montagna, probabilmente più di qualsiasi altro luogo. Non si tratta soltanto di una questione identitaria da montanaro e non è nemmeno una questione di preferenza a livello di paesaggio o di ambiente, sebbene riconosca che tutti questi fattori giochino un ruolo importante in questo amore. Per me la montagna è innanzitutto una sfida. Una sfida nei confronti di un ambiente che, seppur sempre più spesso snaturato e ridotto a balocco per turisti senza alcuna preparazione, rimane comunque “selvaggio” e che pertanto richiede una certa attenzione e, soprattutto, un enorme rispetto. Rispetto che al visitatore occasionale spesso manca, con tutti i rischi del caso. La montagna, poi, è una sfida anche verso me stesso. Come avrete probabilmente capito ho dei grossi problemi con l’altezza e con il vuoto, per cui andare in montagna per il sottoscritto è anche cercare di superare limiti e paure, evitando però di oltrepassare la linea del buonsenso. A volte esco vincitore da questo confronto, mentre altre, come in questo caso, torno a casa scornato e con la coda tra le gambe, sebbene il tutto sia lenito dalla consapevolezza di averci comunque provato. Mentre penso a questo, aggrappato ad un masso come un rapace, mi godo quello che per me è uno degli spettacoli più belli del mondo, un qualcosa in grado di ripagare tutti gli sforzi e tutta la fatica, quello che è il premio finale di ogni escursione: la vista che spazia dall’alto.

Le casette e i fiori. Foto dell’autore

Assorto nei miei pensieri non mi accorgo dello scorrere del tempo e quando Marzia è di ritorno ci rendiamo conto che è davvero tardi. Il sole inizia ad essere basso all’orizzonte e le ombre si allungano sul fondovalle: abbiamo ancora un paio di ore prima che scenda la notte e siamo drammaticamente lontani dall’ostello. Iniziamo a scendere il più velocemente possibile e in breve superiamo il laghetto dei germani e l’impianto di risalita. Raggiungiamo la conca del rifugio, ormai completamente deserta e immersa nelle ombre, e iniziamo a salire verso la cresta dove incontriamo alcune persone che, come noi, cercano di affrettarsi. Rimango colpito da alcuni ragazzini che corrono come schegge impazzite sulla ghiaia, mentre mi chiedo come facciano a non cadere in terra e a non sputare i polmoni. Beata gioventù. Davanti a noi abbiamo la parte più impegnativa del percorso, la cresta e la ripida rampa di ghiaino, che richiede una certa dose di prudenza per essere percorsa senza rischiare di farsi del male, per cui siamo costretti a moderare la velocità. A conferma delle insidie celate nel terreno instabile, una ragazza scivola e cade rovinosamente. Ci fermiamo ad aiutarla e, constatato che non si è fatta male, riprendiamo la discesa. Guardiamo l’orologio, controlliamo la posizione del sole e nella nostra mente si affaccia una eventualità che non avremmo mai voluto prendere in considerazione: non riusciremo ad uscire dal bosco prima che faccia buio.

Scendendo dalla montagna, più o meno vittoriosi

Arrivati ai piedi della rampa, mentre le ombre si fanno sempre più fitte, incrociamo diversi partecipanti alla gara di running. Vedendoci ci farfugliano qualcosa e a nostra volta rispondiamo farfugliando qualcosa di simile. Soltanto in seguito scopriremo che si tratta di un saluto. Ecco un’altra cosa che adoro della montagna, incontrare un perfetto sconosciuto e salutarlo con naturalezza. Provate a farlo a Milano o a Roma. Il tempo ormai inizia a stringere, il sole inizia a nascondersi dietro le cime dei Carpazi e tra il fitto degli alberi filtra ormai pochissima luce, costringendoci a rallentare ulteriormente. Imbocchiamo l’ultimo tratto del sentiero quando il sole è dietro l’orizzonte già da diverso tempo e sulla volta celeste si accendono le prime stelle: ormai è notte e nel bosco le tenebre sono talmente fitte che non riusciamo a vedere i nostri piedi. Per fortuna con me ho il frontalino che avevo comprato per fare luce durante l’esplorazione, mai avvenuta purtroppo, dei forti a Przemysl. Il fascio di luce non è potentissimo, ma è sufficiente ad illuminare il terreno davanti a noi, permettendoci così di avanzare in sicurezza. Avvertiamo un po’ di tensione, alcuni pipistrelli svolazzano a pochi centimetri dalle nostre teste, Marzia è piuttosto preoccupata e continua a guardarsi intorno nel timore che qualche animale feroce possa avvicinarsi, mentre io cerco di sdrammatizzare. All’improvviso, ad una trentina scarsa di metri davanti a noi, il fascio di luce finisce su due piccole sfere luminescenti. Si tratta di una piccola volpe, la prima che riesco a vedere a distanza così ravvicinata, e mi fa strano riuscire a vederla a così poca distanza dal centro abitato. Non faccio in tempo a dire “guarda che carina la volpe” che al mio fianco erompe il grido “OHMIODIOCOSACAZZOÈQUELLO” che, oltre a spaventare il sottoscritto, fa scappare a gambe levate il piccolo carnivoro. Fortunatamente stemperiamo la tensione con una risata liberatoria e, in una manciata di minuti, raggiungiamo la strada e con l’essa l’uscita dal parco. Siamo sopravvissuti alla grande impresa montana dell’anno! Con le gambe distrutte arranchiamo fino all’ostello per preparare gli zaini: domani partiremo per Cracovia, ultima tappa del nostro viaggio prima del rientro in Italia.

PS. Le foto fanno abbastanza schifo perchè la mia povera fotocamera ha deciso di suicidarsi durante il viaggio. Vai e insegna agli angeli che anche le compatte possono fare foto decenti.

 

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