Galizia 2015. Quinta Tappa: Przemysl (12-14 agosto)

Il sistema di fortificazioni di Przemysl.

Un anello di 45 km di diametro, con 44 forti di diverse dimensioni progettati in modo da coprirsi i fianchi a vicenda, con all’interno una seconda cerchia di fortificazioni, nel caso in cui il nemico fosse riuscito in qualche modo a sfondare la linea difensiva. Questa la fortezza di Przemysl, una delle più grandi in Europa, posta a metà strada tra L’viv e Cracovia a difesa dei valichi carpatici e della pianura ungherese di là da quelli. Una superba opera di ingegneria militare, imprendibile sulla carta, che si trasformò suo malgrado nel teatro della più grave sconfitta patita dall’imperial-regio esercito durante il primo conflitto mondiale. Przemysl rappresenta anche l’allegoria perfetta dell’Impero e del suo disfacimento. Nella città fortezza cappellani militari cattolici operavano a fianco di pope ortodossi, di imam bosniaci e rabbini ashkenaziti, gli ordini venivano tradotti in undici lingue diverse e la truppa che difendeva i forti era composta da soldati ungheresi, bosniaci, italiani, slovacchi, romeni e ucraini che combattevano spalla a spalla. Poi, con il perdurare dell’assedio, arrivò la fame. I cavalli della guarnigione vennero macellati una volta che non fu più possibile nutrirli, nel tentativo di reintegrare le misere razioni destinate alle truppe e di prolungare la difesa della fortezza, ma ormai il tempo giocava a favore degli assedianti. Le razioni sempre più misere iniziarono ad influire pesantemente sul morale e sulla coesione tra i soldati. Iniziarono le contese per il cibo con tanto di scontri, anche violenti, tra gruppi di diversa nazionalità. Gli appartenenti alle minoranze nazionali iniziarono a domandarsi che senso ci fosse nel soffrire così tanto per un Impero lontano, mentre gli ufficiali austriaci e magiari iniziarono a dubitare dei loro sottoposti. Ogni tentativo di soccorso venne respinto dai russi che nel frattempo avevano fatto affluire l’artiglieria pesante con cui presero a martellare le postazioni nemiche, fino a quando non arrivò il marzo del 1915. Il 22, dopo il fallimento di una ultima sortita, il comandante della piazzaforte ordinò di far saltare i forti prima di consegnare la città ai russi. Oltre 110.000 uomini, emaciati e con gli occhi arrossati, resi mezzi folli dalla fame, iniziarono la lunga marcia verso i campi di prigionia situati nelle profondità dei possedimenti zaristi. Per la duplice monarchia si trattò di un durissimo colpo, tanto sul piano prettamente militare quanto su quello del prestigio internazionale e del morale dell’opinione pubblica. Non è un caso, quindi, che questa piccola città di provincia sia stata inclusa nel nostro itinerario e che ci sia ritornato anche l’anno successivo.

L’albergo è di fronte alla stazione ferroviaria, scelta non casuale visto che il giorno della partenza dovremo alzarci molto presto, ed è convenientemente vicino al centro, giusto un paio di minuti a piedi. Ha però un unico, enorme difetto: è sprovvisto di aria condizionata. Fatta una doccia decidiamo di andare ad esplorare la cittadina: visto che in ogni caso ci toccherà sudare le canoniche sette camicie, allora è preferibile farlo all’aria aperta.

Vista dalla Rynek. Foto dell’autore

La Rynek è un piccolo gioiello, pieno di verde e di aiuole fiorite su cui si affacciano bei palazzi liberty dalle facciate color pastello, sovrastati dalle cupole barocche delle numerose chiese cattoliche di rito greco e latino. La religione cattolica riveste un ruolo preponderante nella società polacca e questo non è testimoniato soltanto dal numero e dall’opulenza delle chiese, ma anche dai riferimenti a religiosi vittime delle persecuzioni naziste e staliniste contro il clero e, soprattutto, dall’onnipresente figura di Giovanni Paolo II. L’ex pontefice, infatti, è oggetto di una vera e propria venerazione e monumenti a lui dedicati sono spuntati come funghi in ogni angolo del paese. Przemysl, naturalmente, non fa eccezione con la sua statua posizionata in un angolo della piazza e i nugoli di suore che sciamano lungo la strada. Alla ricerca di un tabaccaio e di un bancomat raggiungiamo il fiume San. Attraversarlo mi lascia una strana sensazione addosso. Se oggi il fiume scorre placido verso nord per confluire nella Vistola, le cronache di un secolo fa lo dipingono come rosso del sangue dei soldati uccisi in combattimento. Il reparto del mio bisnonno, il 4° reggimento Tiroler Kaiserjäger, ha combattuto sulle sue rive subendo perdite elevatissime, soprattutto durante l’offensiva autunnale per soccorrere la città assediata. Le truppe tirolesi si attestarono sulla riva orientale del San qualche decina di chilometri a nord di Przemysl e mantennero la posizione prima di essere sloggiate dalla schiacciante superiorità numerica del nemico per essere sospinte fino alle porte di Cracovia.

Il monumento ai caduti della guerra polacco-sovietica. Foto dell’autore

Mentre attraversiamo il ponte, noto alla nostra sinistra, poco più in basso rispetto a noi, quasi a livello del corso d’acqua, un monumento dedicato ai caduti della guerra sovietico-polacca. A differenza di quanto accaduto in Occidente, sul fronte orientale il collasso dei quattro imperi (russo, austro-ungarico, tedesco e ottomano) ebbe strascichi molto più lunghi e meno pacifici, con una serie di guerre che insanguinarono la regione fino alla prima metà degli anni ’20. La più duratura e sanguinosa fu senza ombra di dubbio quella che vide contrapposte da un lato la neonata repubblica di Polonia che, animata dal desiderio di ricostituire una Grande Polonia, invase Lituania, Bielorussia e Ucraina, e dall’altro la Russia bolscevica, all’epoca in lotta su tutti i fronti contro le armate bianche. L’esercito polacco, guidato da Pilsudski, già comandante della legione polacca durante la prima guerra mondiale, occupò in breve tempo Vilnius, Minsk e Kiev, salvo essere travolto dalla controffensiva sovietica che portò l’Armata Rossa fino alle porte di Varsavia. Qui si svolse la battaglia che decise le sorti del conflitto, conosciuta dalla storiografia polacca con il nome di “miracolo della Vistola”: nonostante tutti considerassero la Polonia sul punto di crollare, Pilsudski ordinò un audace attacco che isolò gran parte dell’esercito nemico costringendolo alla resa. La vittoria consentì alla Polonia di sedersi al tavolo delle trattative tenendo il coltello dalla parte del manico, riuscendo così a ottenere Vilnius e tutta l’ex Galizia austroungarica.

Dopo aver fatto il pieno di zloty al primo bancomat disponibile, facciamo dietrofront per tornare nuovamente in centro. Lungo la strada scorgo su un muro una scritta antisemita. Non capisco cosa ci sia scritto, ma il simbolo dell’uguale seguito dalla parola “Jude” e gli adesivi di Blood & Honour sui lampioni risultano inequivocabili. In questo angolo d’Europa il fanatismo cattolico ha sempre viaggiato di pari passo all’antisemitismo, ma è tristemente ironico vedere riferimenti ad organizzazioni dichiaratamente naziste in uno dei paesi che ha patito maggiormente a causa del nazismo e della sua politica genocida nei confronti delle popolazioni slave. Fino al 1939 a Przemysl sorgevano quattro sinagoghe e una parte consistente della cittadinanza era di origine ebraica. Dove sono, ora, gli ebrei di Przemysl? Dove sono i hassidim di Singer con i loro cappelli di pelliccia? Spariti. Kaputt. Vernichtet. Passati per il camino. I sopravvissuti al lungo sonno della ragione che ha colpito l’Europa nella prima metà degli anni ’40 abbandonarono in massa il paese dopo il pogrom di Lodz, datato 1946. Vedere quelle scritte è come ricevere un pugno nello stomaco.

L’autore con il suo amico bronzeo. Foto di Marzia Antinori

Nuovamente sulla Rynek mi imbatto in una statua del buon soldato Sc’veik, personaggio nato dalla penna dello scrittore ceco Jaroslav Hašek. Il romanzo è una critica feroce contro la follia della guerra e l’ottusità della società del tempo: ciò che emerge dalla satira di Hašek è che la condizione di “idiota notorio” del povero Sc’veik è nulla se confrontata all’ottusità della burocrazia militare e all’insensatezza della guerra, tanto da portare il lettore a domandarsi chi sia realmente il pazzo. Purtroppo per noi l’opera è rimasta incompiuta a causa della morte prematura dello scrittore, stroncato dalla tubercolosi nel 1923, ma nonostante questo ebbe un successo enorme, come testimoniano i numerosi riferimenti al buon Sc’veik che compaiono qua e là tra Praga e la Polonia. Mi siedo a fianco della statua e mi faccio scattare una foto che, attualmente, è una delle mie preferite tra quelle che mi ritraggono. Il sole ormai è tramontato, la stanchezza inizia a farsi sentire e l’indomani ci aspetta una sfacchinata non indifferente, per cui andiamo a riposare.

Suonando lungo il San. Foto dell’autore

Anche a Przemysl ho compiuto un enorme errore di valutazione. I forti meglio conservati si trovano tutti ad una discreta distanza dal centro, almeno una decina di chilometri. In condizioni normali non sarebbe certo una distanza insormontabile, ma la prospettiva di dover camminare per ore sotto il sole cocente, senza poterci proteggere dall’afa, non è affatto incoraggiante. Discutiamo sul da farsi e alla fine conveniamo che rischiare il colpo di calore non è cosa saggia, per cui ci limiteremo agli immediati dintorni del centro. Dopo aver fatto colazione in una bella caffetteria notiamo, in una strada laterale, quello che ha tutta l’aria di essere un negozio di strumenti musicali:  finalmente! I proprietari, non più giovani, si dimostrano gentilissimi e fanno di tutto per metterci a nostro agio, arrivando addirittura ad accordare e a farci provare tutte le chitarre presenti in negozio. Per poco più di 100 euro esco con una chitarra acustica che in Italia avrei pagato almeno il doppio e, anche se sul momento non mi rendo conto che portarla fino a Merano si trasformerà in un incubo logistico, mi sento felice come un bambino a Natale. Scendiamo lungo l’argine del San per trovare un po’ di refrigerio e per suonare qualche canzone, ma quello che vedo mi smorza l’entusiasmo. Il lungofiume è costellato di lattine di birra vuote, sacchetti di plastica e altra spazzatura di vario tipo. Alcune coppie di germani nuotano nell’acqua chiazzata qua e là da spesse macchie di schiuma verdognola, mentre poco più a valle, oltre il ponte della ferrovia, un gruppo di abitanti della città fa il bagno nel fiume, mentre io cerco di evitare qualsiasi contatto con l’acqua che mi pare piuttosto insalubre. Vedere un ambiente naturale, anche se inserito in un contesto urbano e quindi fortemente antropizzato, in condizioni di degrado e inquinamento a causa dell’incuria della gente mi lascia sempre l’amaro in bocca. Poco distante da noi un uomo dai folti baffi e dal ventre rotondo da bevitore di birra si siede su una roccia e inizia a bere la prima delle numerose lattine di birra che ha con sè. Sono ragionevolmente sicuro che, una volta vuote, siano rimaste sull’argine del fiume.

Bunker della Linea Molotov. Foto dell’autore

La riva orientale del San è costellata da una serie di bunker di cemento armato, alcuni dei quali molto ben conservati. Si tratta dei resti della Linea Molotov, realizzata dai sovietici dopo la spartizione della Polonia nel 1939 per proteggere i nuovi confini da un possibile attacco tedesco. Przemysl si trovava proprio sulla linea del confine e, fino all’estate del 1941, la città fu divisa in una Przemysl tedesca e in una Przemysl russa: il confine era segnato proprio dal fiume San. Singolare come in questo angolo d’Europa la Storia abbia deciso di manifestarsi con forza negli stessi luoghi, quasi fossero catalizzatori di energie invisibili e ignote. Nonostante l’ingente investimento, la Linea Molotov non riuscì nemmeno a rallentare l’attacco iniziale dell’Operazione Barbarossa: le fortificazioni erano presidiate da un numero insufficiente di soldati e la superiorità della Wehrmacht in termini di capacità strategica e tattica era a dir poco soverchiante. I combattimenti in città si protrassero per qualche giorno, ma al momento della capitolazione delle truppe sovietiche le avanguardie dei Panzerkorps erano già ad est di Leopoli.

C’è un luogo che voglio vedere assolutamente: il cimitero militare. Situato ad una manciata di chilometri dal centro è un obiettivo decisamente più fattibile rispetto al Burek o al Salis Soglio (due delle fortificazioni meglio conservate, ad un tiro di schioppo dal confine ucraino), per cui decidiamo di pranzare e di aspettare che passino le ore più calde del pomeriggio. La cucina nella Galizia polacca è strana o, meglio, è il frutto del sincretismo tra diverse tradizioni gastronomiche che crea una situazione a dir poco imperial-regia. Piatti chiaramente ungheresi compaiono nei menù dei ristoranti tipici al fianco del borsch ucraino o della classica Wienerschnitzel, mentre ricette della tradizione yiddish si accompagnano ad uno dei piatti nazionali polacchi, i pierogi. I pierogi sono dei ravioli, fin troppo simili agli Schlutzkrapfen pusteresi, e sono la salvezza dei vegetariani visto che la maggior parte dei ripieni è a base di verdure. Inutile dire che l’anno successivo, quando sono ritornato in Polonia, i pierogi hanno costituito parte integrante della mia dieta, con conseguenze nefaste sul mio girovita.

Cimitero austroungarico. Foto dell’autore

Il cimitero militare di Przemysl, anche se sarebbe meglio usare il plurale, sorge al margine del cimitero cittadino che si inerpica sul fianco di una collina che a sua volta culmina nel cosiddetto Kopiec Tatarski, una altura che secondo la tradizione è il tumulo funerario di un principe tataro. I cimiteri polacchi sembrano pullulare di vita e, spesso, sono molto più curati delle città dei vivi, segno di un profondissimo rispetto per i propri defunti. Purtroppo la sezione principale del cimitero austroungarico, così come quello tedesco, è chiusa al momento del nostro arrivo, per cui possiamo visitare soltanto quella più piccola, dominata da una grande croce lignea, sotto la quale si trova una targa trilingue (tedesco, ungherese e polacco) che ricorda i morti dell’esercito austroungarico. Croci di pietra solitarie e prive di iscrizioni, decorate con nastrini coi colori nazionali magiari e con il giallo-nero imperiale, sono disposte in file ordinate . Il luogo emana al tempo stesso un senso enorme di pace e di solennità. A poca distanza due croci ortodosse e una grande targa in cirillico ricordano i caduti russi, mentre il cimitero militare germanico richiama la disciplina prussiana, con le sue ordinate fila di slanciate croci di ferro brunito. È strano vedere gli ex nemici riposare fianco a fianco nel loro sonno eterno, ricorda il livellamento egalitario della morte che non fa distinzione alcuna, anche davanti alle innumerevoli vittime sacrificali inghiottite dal moloch della guerra un secolo fa. I sacrari militari sovietici costellano l’Europa da Mosca a Berlino, ma è molto più difficile trovare cimiteri militari russi risalenti alla prima guerra mondiale. Quasi tutti si trovano in Galizia. I bolscevichi considerarono la Grande Guerra come una guerra imperialista combattuta per volere del regime zarista, così in preda al furore iconoclasta spianarono con i bulldozer tutti i cimiteri nelle zone sotto il loro controllo. Quale fosse la colpa, una colpa così grande da giustificare la damnatio memoriae, dei poveri fantaccini mandati a morire, lo sanno soltanto loro. Isolato rispetto al resto del complesso, si trova una struttura che ricorda un bunker, apparentemente abbandonato. Si tratta del cimitero militare germanico della seconda guerra mondiale. Il camposanto è inequivocabilmente meno curato rispetto a quello della Grande Guerra, segno evidente che, nonostante una cristiana pietà per i morti, certe ferite fanno ancora fatica a rimarginarsi, nonostante siano passati settanta anni.

Il sole lentamente si abbassa sull’orizzonte e dalla città dei morti ci godiamo la vista sulla città dei vivi e sulla campagna circostante. Immagino la stessa scena un secolo fa, con il fragore delle artiglierie, il fumo della cordite, il crepitare delle mitragliatrici e delle scariche di fucileria. Senza dubbio il paesaggio che vediamo è uno di quelli che Martin Pollack definirebbe “paesaggio contaminato”. Lentamente torniamo verso la città e ci mettiamo alla ricerca di un posto dove cenare. Per una volta decidiamo di dare sfogo alla nostra voglia di piccoli lussi borghesi e ci accomodiamo in un bel ristorante sulla Rynek. Sicuri di non essere capiti da nessuno ci lanciamo in battute di dubbio gusto e in commenti poco edificanti sui presenti, finchè al momento dell’ordinazione la cameriera non ci dice, in perfetto italiano: “tranquilli ragazzi, potere anche parlare in italiano“. Momento di imbarazzo. Ci guardiamo come si guarderebbero due bambini sorpresi con le mani nella marmellata e assumiamo una colorazione tendente all’amaranto. Sì, siamo riusciti a farci riconoscere anche in Polonia. Poco male, il giorno dopo, di prima mattina, partiremo alla volta di Zakopane, località montana in mezzo ai monti Tatra: Carpazi, stiamo arrivando!