Galizia 2015. Terza tappa: L’viv (10-12 agosto) parte seconda

Cimitero militare di Huijce. Foto presa da wikipedia

Cimitero militare di Huijce.
Foto presa da wikipedia

I cimiteri, talvolta, possono raccontarci la storia di un luogo molto meglio di tanti libri di testo. La storia istituzionalizzata può essere piegata ad assecondare interessi politici, diventando foriera di storture, rimozioni o addirittura negazioni – come nel caso della storiografia turca che nega il genocidio degli Armeni o quella giapponese per quanto riguarda lo stupro di Nanchino – perdendo la sua natura di disciplina rigorosa e finendo inevitabilmente per svilirsi, riducendosi al ruolo di strumento ausiliario del potere. Peggio ancora la storia può diventare mitologia e agiografia, creatrice di miti nazionali e narrazioni tossiche utili a dividere i popoli e a creare nemici interni ed esterni, spesso con risultati tragici. Attualmente processi di questo tipo sono in corso in Polonia ed in Ucraina, con la riscrittura di interi capitoli di storia del ventesimo secolo e con la riabilitazione di personaggi definibili, nella migliore delle ipotesi, come “impresentabili”, segno tangibile di come quelle forze che squassarono la Galizia e l’Europa intera un secolo fa non sparirono con la fine del primo conflitto mondiale, ma continuarono a scorrere sottotraccia per riemergere ciclicamente, come un fiume carsico, nel corso dei successivi cento anni. Il modo migliore per cercare di seguire il percorso sotterraneo di queste forze, in Galizia, è passeggiare nei cimiteri, leggendo quello che lapidi e monumenti funebri hanno da dirci: il mutare dei nomi, delle lingue, le aree abbandonate da decenni ci parlano di esodi, deportazioni e sostituzione di popolazioni, mentre le steli in onore ai caduti ci suggeriscono che i conti aperti dall’omicidio di Sarajevo non si conclusero con la dissoluzione dell’imperial-regia compagine, ma continuarono per diversi anni in una miriade di conflitti su scala regionale, come la guerra polacco-sovietica, la guerra polacco-cecoslovacca, la guerra polacco-ucraina e altre ancora.

Non è difficile imbattersi in queste testimonianze in Galizia. Qui i cimiteri spuntano come funghi dopo la pioggia, siano essi un pugno di lapidi fuori da una chiesetta sperduta nella campagna o sacrari militari alle pendici dei Carpazi. Nell’ultimo post ho accennato brevemente alla battaglia di Rawa Ruska e alla sonora batosta che l’esercito zarista inflisse a quello asburgico. In fase di pianificazione avevo programmato di fermarmi sul vecchio campo di battaglia prima di attraversare la vicina frontiera con la Polonia e di visitare il cimitero dei Kaiserjäger a Huijce, un minuscolo villaggio sperduto nella campagna ucraina. In quasi ogni paesino sudtirolese c’è un monumento o una stele che commemora i caduti della Grande Guerra e in ognuno di essi c’è una sfilza di nomi con accanto un generico “Galizien” ad indicare il luogo di morte: se mio bisnonno fosse stato tra di loro adesso non sarei qui. Inoltre, parlando con amici e conoscenti ho scoperto che più d’uno ha avuto nonni, bisnonni o altri parenti che hanno combattuto sul fronte orientale, talvolta lasciandoci la pelle. Una serie di validissimi motivi per far visita a questi poveri diavoli strappati alla loro vita di montagna per essere mandati al macello in un paesaggio alieno dall’imperizia degli alti comandi imperial-regi. C’è poi un altro motivo per passare in questo angolo d’Europa, in quanto Rawa Ruska è uno di quei luoghi in cui agli orrori del primo conflitto mondiale sono andati a sovrapporsi anche quelli del secondo. Negli anni ’40 la cittadina ucraina era, così come lo è oggi, un importante snodo ferroviario situato sulla linea che univa Lublino e Leopoli. La quasi totalità degli ebrei della Galizia orientale, gli stessi Ostjuden descritti da Roth, transitarono di qui a bordo dei treni diretti al campo di sterminio di Belzec, oggi situato ad una manciata di chilometri dalla frontiera polacca. Per qualche settimana ho provato a spulciare blog e forum vari nella speranza di carpire notizie utili a scoprire come raggiungere la cittadina, ma alla fine mi sono dovuto arrendere di fronte a muri di testo in cirillico e ad una pressocchè totale mancanza di informazioni. Il colpo di grazia alla mia determinazione, infine, è giunto quando ho scoperto che il valico di frontiera è chiuso da almeno una decina di anni al traffico privato. Peccato.

Scorcio del centro. Foto dell'autore

Scorcio del centro.
Foto dell’autore

La sera leoni, la mattina… beh, direi che ci siamo capiti. Il nuovo giorno ci trova rattrappiti in posizione fetale a maledirci per la notte di bagordi, con un retrogusto di morte in bocca, un livello di idratazione pari a quello del lago d’Aral e le tempie che martellano quanto l’artiglieria sovietica in quel di Stalingrado. Facendo appello a forze che non credevo di possedere riesco ad alzarmi e, guardandomi allo specchio, mi rendo conto di avere le fattezze delle figure raffigurate nelle tele di Munch. Bravo Andrea, complimenti vivissimi. Ad ogni modo è inutile piangere sul latte versato, abbiamo una città da esplorare! Scendiamo nella caffetteria dell’albergo per fare colazione e assumere la nostra dose quotidiana di caffeina, sostanza essenziale per cercare di riassumere fattezze umane. Optiamo per l’unica opzione dolce, complice anche la seducente dicitura “coffee mug” – so di suonare blasfemo, ma a me il caffè nero alla tedesca non dispiace affatto – e sul nostro tavolo si materializzano due generose porzioni di un dolce dalle sembianze intermedie tra una omelette e una crepe, il tutto accompagnato da una generosa dose di smetana, la versione locale della panna acida, leggermente diversa dalla creme fraiche francese e dalla sour cream anglosassone, ma ugualmente buona. Il dolce è ripieno di ricotta e uvetta, cosa che mi ricorda fin dalla prima forchettata il nostrano Topfenstrudel: la somiglianza tra la cucina di casa e quella galiziana è incredibile, nonostante ci siano mille chilometri di distanza ed evidentissime differenze culturali.

Corroborati dalla deliziosa – e altrettanto pesante – colazione contadina, puntiamo verso la Rynok, la piazza che durante la permanenza a Leopoli è stata un po’ il centro del nostro mondo. Seduto ai piedi della Dimora Nera troviamo un ragazzo con degli espositori. Incuriositi ci avviciniamo per curiosare e scopriamo che si tratta di “steampunk magnets” autoprodotti a partire da vecchi francobolli, monete e materiali di recupero come ingranaggi, lenti fotografiche e così via. L’idea ci piace tantissimo, così come i soggetti raffigurati che spaziano da personaggi storici come Alessandro Magno a Star Wars e South Park. La mia attenzione, però, viene calamitata da un lavoro enorme dedicato a Juri Gagarin, il primo cosmonauta sovietico ad andare nello spazio… e a tornare. Provo a chiedere il prezzo, ma il ragazzo mi guarda con l’aria di chi la sa lunga e con un sorriso beffardo stampato sulle labbra mi dice che il pezzo non è in vendita, in quanto facente parte della sua collezione privata. Ne nasce una bella chiacchierata storica, che partendo dai “vecchi tempi” approda all’attualità e all’enorme svalutazione della grivna che, a suo dire, ormai non ha più alcun valore, motivo per cui potrei acquistare un bel magnete a sole mille grivne. L’idea non mi dispiacerebbe, solo che non ho tale somma in tasca, per cui propongo di andare a prelevare e tornare nel giro di una decina di minuti. Il ragazzo non mi sembra particolarmente convinto, per cui ci salutiamo. Peccato.

Confondersi con l'arredo urbano per evitare di farsi travolgere. Foto dell'autore

Confondersi con l’arredo urbano per evitare di farsi travolgere. Foto dell’autore

Restiamo in centro per fare un po’ di foto e qualche ripresa, cercando di evitare gli autoctoni che, a quanto pare, sembrano incapaci di aggirare eventuali ostacoli posti sul loro percorso e finiscono col travolgerci e coprirci di insulti. Purtroppo riusciamo a produrre soltanto un fiume di orribili ed irripetibili blasfemie e, come se ciò non bastasse, col passare delle ore l’aria inizia ad arroventarsi, amplificando tragicamente i postumi che ci attanagliano, tanto che ad un certo punto decidiamo di rientrare in albergo sventolando bandiera bianca. Su un angolo della piazza, però, notiamo un via vai di persone che entrano ed escono da un palazzo. Incuriositi ci avviciniamo e facciamo la conoscenza con quello che poi è diventato il locale dove ho lasciato il cuore, ovvero la Lviv Coffee Mining Manufactor (L’vivs’ka Kopal’nja Kavi in ucraino), ovvero la locale industria del caffè. Il locale occupa l’intero piano terra dell’edificio, compresi vari livelli sotterranei, con tanto di negozio e caffetteria. All’ingresso siamo accolti da un tostacaffè delle dimensioni di una betoniera, dentro il quale due nerboruti operai gettano badilate di preziosi chicchi, in modo da permettere ai visitatori di vedere con i propri occhi una delle fasi fondamentali nella realizzazione di un buon caffè. Considerate le nostre precarie condizioni psico-fisiche optiamo per sederci e ci azzardiamo ad ordinare un caffè: mai scelta migliore, visto che si è trattato di un espresso migliore rispetto a tanti bevuti in Italia. La cosa può apparentemente stupire e/o risultare inaccettabile per buona parte degli italiani, tuttavia la cultura del caffè in Europa nasce a Vienna, dopo l’assedio turco del 1683, quando nella capitale austriaca venne aperto il primo cafè e questo eccellente espresso non è altro che una delle tante piccole impronte imperial-regie disseminate qua e là per la cultura galiziana.

Decido di non potermene andare a mani vuote da un posto del genere, per cui mi lancio a testa bassa nello shop alla ricerca di qualcosa di carino ed ecco che davanti ai miei occhi si materializza una lunga teoria di macinini a mano, un oggetto che ho sempre voluto avere, memore dell’infanzia passata a giocare con quello di mia nonna. Chiedo ad un commesso di indicarmi quale sia la miscela di chicchi più forte tra le numerose presenti in negozio e lui mi mostra un bel barattolo rosso e nero: benissimo, sono due dei miei colori preferiti e sono anche abbinati! Soddisfatti e rinfrancati dalla caffeina ci incamminiamo verso l’albergo. Arrivati sotto l’edificio notiamo, dall’altra parte della strada, un banchetto di Pravyi Sektor, un movimento ultranazionalista che ha giocato un ruolo importante negli scontri di piazza Maidan a Kiev e che al momento dispone di alcuni reparti armati impiegati nel Donbass contro i separatisti filorussi. I militanti sono tutti giovanissimi: nonostante le mimetiche e i capelli rasati donino loro un aspetto marziale, si vede benissimo che si tratta di ragazzini ancora imberbi, quasi sicuramente minorenni. Sono combattuto, da un lato vorrei attraversare la strada per cercare un confronto, per fare loro qualche domanda sulla situazione ucraina e provare a capire cosa si trova dentro le loro teste, dall’altro mi rendo conto che gente come loro cerca di aprirmi la testa da una quindicina di anni a questa parte. Incrocio per un attimo il loro sguardo e vedo occhi d’un azzurro così intenso da sembrare ghiaccio, ma a raggelarmi il sangue è quello che vedo oltre le iridi, un abisso di fanatismo e di indottrinamento: lo stesso sguardo delle Waffen SS  nelle foto d’epoca del secondo conflitto mondiale. Nella migliore tradizione nietzscheana sento di essere scrutato a mia volta da quella voragine in un crescendo di disagio, mentre nella mia mente va formandosi la sensazione che spettacoli del genere non potranno che diventare più comuni. Mi si serra lo stomaco, per cui saliamo in camera.

Anche qui non riesco a fare a meno di sbirciare dalla finestra, per cui cerco di distrarmi studiando gli acquisti della giornata a partire dal caffè. Osservo attentamente la confezione e trovo la scritta “banderivs’ka“, ossia “banderista”. Sgrano gli occhi stupefatto, mi giro verso la mia compagna di viaggio ed esordisco con: “Marzia, ho come l’impressione di aver comprato un caffè fascista“.  Facciamo un piccolo passo indietro.

Caffè fascistissimo. Foto dell'autore

Caffè fascistissimo.
Foto dell’autore

Banderista è un aggettivo riconducibile a Stepan Bandera, personaggio assai discutibile elevato al rango di eroe nazionale dai nazionalisti ucraini, specialmente nelle regioni occidentali del paese, dove è oggetto di una vera e propria venerazione. Nato in Galizia fu attivo fin da giovanissimo nelle fila dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini (OUN), di cui diventò ben presto il leader.  Imprigionato dal governo polacco per aver orchestrato l’omicidio di un ministro, venne liberato in seguito all’occupazione tedesca della Polonia. Collaborò con i nazisti, organizzando gruppi mobili che avrebbero accompagnato le colonne della Wehrmacht durante le fasi iniziali dell’attacco all’URSS che, in ossequio alle clausole del patto Molotov-Ribbentrop, aveva annesso la porzione orientale dello stato polacco, Leopoli compresa. Arrestato dai nazisti a seguito dell’Atto di proclamazione dello stato ucraino e per questo deportato a Sachsenhausen, venne nuovamente liberato per guidare l’Esercito Insurrezionale Ucraino (UPA), braccio militare dell’OUN che raccoglieva l’eredità dei gruppi mobili organizzati da Bandera all’inizio della guerra. Dopo aver combattuto contro la Wehrmacht, l’UPA divenne strumento dei tedeschi contro l’Armata Rossa e i partigiani polacchi dell’Armia Krajowa, secondo il modello già applicato nei Balcani con i cetnici serbi e altre formazioni collaborazioniste. L’UPA si distinse, soprattutto in Volinia, per la feroce persecuzione ai danni della popolazione polacca ed ebraica, con il chiaro intento di ripulire la regione da tutti i non ucraini. Ritorniamo al 2015. Spiego alla mia perplessa amica quanto scritto qui sopra e in tutta risposta ricevo una fragorosa risata: la giusta punizione per non aver controllato l’etichetta prima dell’acquisto.

Il mio piano di viaggio per questo pomeriggio prevede una visita al cimitero monumentale di Lychakiv, il modo migliore per comprendere a pieno la storia recente di questa città. Realizzato sul finire del Settecento per volontà degli Asburgo, in circa quaranta ettari di superficie ospita le spoglie dell’antica intellighenzia cittadina e dei caduti di tutte le guerre del ventesimo secolo. Può sembrare incredibile, ma nello stesso camposanto si possono trovare a breve distanza macellati e macellai, vittime della repressione operata dal NKVD e caduti sovietici della Grande Guerra Patriottica, caduti asburgici e zaristi della prima guerra mondiale, militari polacchi e volontari ucraini inquadrati nelle Waffen SS. Non sto scherzando. Nell’areale dedicato all’Esercito Nazionale Ucraino, formazione collaborazionista creata all’inizio del 1945, si trova un monumento in memoria della 14° divisione delle Waffen SS “Galizien” che è ancora oggi oggetto di culto da parte dei nazionalisti. Si tratta, insomma, di un luogo particolare che, a mio avviso, merita di essere visitato, nonostante la sua posizione decentrata renda necessaria una discreta scarpinata per raggiungerlo. Passiamo le ore più calde della giornata a sonnecchiare in camera e, una volta arrivate le quattro del pomeriggio, ci armiamo di coraggio e partiamo alla volta della nostra meta. Non avendo pranzato e patendo terribilmente il gran caldo, decidiamo di prendere un milkshake per ovviare ai due problemi in un colpo solo: errore fatale. Sul momento le bevande ci rinfrescano e contribuiscono  a placare i morsi della fame, ma in una decina di minuti accade l’irreparabile. L’emicrania che ha accompagnato Marzia fin dal risveglio peggiora improvvisamente diventando insopportabile, mentre il mio stomaco è in subbuglio come la Pietrogrado del 1917. Proviamo a resistere stoicamente, ma dopo qualche centinaio di metri gettiamo la spugna: siamo appena a metà strada e proseguire nella camminata in queste condizioni sarebbe una inutile tortura, per cui non ci resta che tornare in albergo con la coda tra le gambe. Quando si viaggia gli imprevisti sono all’ordine del giorno e da un certo punto di vista è un bene che sia così. Ogni imprevisto può diventare un aneddoto da raccontare e in un report di viaggio può aiutare a spezzare quella che spesso diventa una tediosa successione di eventi, inoltre spinge il viaggiatore ad elaborare soluzioni, che a loro volta possono offrire delle esperienze nuove, come in questo caso. Per rientrare al “campo base” prendiamo una scorciatoia, anzichè ripercorrere a ritroso la strada dell’andata. Questa via alternativa, che passa attraverso scorci di Leopoli che altrimenti non avremmo mai visto, ci porta davanti ad uno dei tanti mercati coperti della città. Da una delle entrate riusciamo a scorgere una bancarella carica di frutti, ma la cosa più interessante non si trova dentro la struttura, bensì sul marciapiede antistante la stessa. Lungo la via, infatti, ci sono numerose babushke che dalle campagne vengono in città a vendere le eccedenze dell’orto, nel tentativo di rimpolpare le misere pensioni. Sui teli posati sull’asfalto vedo cetrioli, pomodori e altri ortaggi, mentre sui volti delle nonnine, incorniciati da foulard variopinti, leggo la fatica di una vita passata a lavorare nei campi.

Verso la periferia della città. Foto dell'autore

Verso la periferia della città. Foto dell’autore

Collassiamo appena entrati in camera. Dopo un paio d’ore riapro gli occhi e, rinfrancato dalla dormita, decido di fare una passeggiata. Punto una traversa di Svobody Prospekt e punto verso la periferia, camminando senza fretta. Guardandomi intorno osservo il cambiare degli elementi architettonici man mano che mi allontano dal centro. I palazzi barocchi e art nouveau lasciano spazio a palazzi più recenti e in qualche stradina laterale compaiono i primi palazzi in stile sovietico che, nonostante l’aspetto leggermente cadente, non risultano sgradevoli alla vista. Sono talmente preso dallo studio delle facciate dei palazzi che non mi accorgo del pericolo incombente se non quando me lo trovo davanti ed è ormai troppo tardi per fuggire. Davanti a me si materializza una giovane coppia, abbigliata con sobria eleganza, che inizia a parlare a macchinetta in ucraino sventolandomi una serie di volantini sotto il naso. Cerco di defilarmi facendo capire loro che non sono in grado di comprendere una singola parola del discorso, ma la ragazza non demorde e, anzi, si anima di un furore apostolico e inizia a parlare in un inglese smozzicato sbattendomi il volantino davanti agli occhi. La scritta “Watchtower International” toglie ogni dubbio sulle reali intenzioni della coppia: sono Testimoni di Geova e il sottoscritto è riuscito a diventare il gentile da convertire anche a centinaia di chilometri da casa. Inizio a ripetere come un mantra che non sono assolutamente interessata ad abbracciare una nuova fede, mentre intimamente inizio a rimpiangere le politiche antireligiose sovietiche, finchè la ragazza non si arrende mandandomi letteralmente all’inferno accompagnando il tutto con uno sguardo disgustatissimo. Grazie mille, in effetti preferisco la compagnia dei peccatori a quella dei probiviri.

Verso la periferia della città, parte seconda. Foto dell'autore

Verso la periferia della città, parte seconda. Foto dell’autore

Quella con gli zelanti religiosi non è l’unica “disavventura” della serata. Dopo cena, infatti, decidiamo di salutare Leopoli andando a bere qualcosa di rigorosamente analcoolico in un locale vicino all’albergo. Ci sediamo al tavolo, ordiniamo da bere e iniziamo una estenuante attesa. Dopo una ventina di minuti la mia pazienza è giunta al limite, tanto che propongo senza mezzi termini – e senza successo – di andare a dormire. Complice la mancanza del posacenere, attacchiamo bottone con il ragazzo seduto al tavolo di fianco al nostro. Si chiama Aleksej, è di Kiev, fa il carpentiere e dimostra fin da subito un “discreto” interesse per Marzia, tanto che una volta chiarito il tipo di rapporto che ci lega inizia a sorridere semi inebetito con gli occhi a cuore, mentre io mangio la foglia e inizio a ridere sotto i baffi. La conversazione è rugginosa, lui parla poco inglese e noi nessuna parola di ucraino. Provo ad azzardare qualche parola di russo, ma vengo fulminato da uno sguardo glaciale che vale più di mille parole, per cui desisto da ulteriori tentativi. Il tenebroso di Kiev ha occhi solo per la mia amica e tra un sorso di birra – i propositi di una serata analcoolica sono venuti meno nel momento in cui il nostro nuovo amico ha ordinato tre birre – e una fumata di narghilè il tempo vola e ben presto ci vediamo costretti a rincasare. Aleksej ci accompagna fin sotto l’albergo e la delusione che si può leggere nei suoi occhi quando scopre che la serata avrà un epilogo diverso da quanto sperato è immensa. Ammetto di essere una persona orribile, ma ho trovato questo miscuglio di delusione – di lui – e imbarazzo – di lei – estremamente divertente.

Con la delusione del bel tenebroso di Kiev si conclude il nostro ultimo giorno di permanenza a Leopoli e in Ucraina. Il giorno successivo partiremo alla volta della Polonia e della Festung Premissel, la città-fortezza di Przemysl, teatro della più grande sconfitta dell’esercito austro-ungarico durante il primo conflitto mondiale. Un viaggio a dir poco avventuroso a bordo di uno sgangherato minibus. Al prossimo post.

 

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