Galizia 2015. Terza tappa: L’viv (10-12 agosto) parte prima

Vista della ratusha, il municipio di Leopoli. Foto dell'autore

Vista della ratusha, il municipio di Leopoli.
Foto dell’autore

Questo terzo post è stato un vero e proprio parto. Per mesi sono stato a fissare il foglio bianco senza riuscire a dare una forma coerente ai pensieri che si affollavano nella mia mente. Necessario, quindi, lasciar sedimentare, lasciare alla razionalità lo spazio fino a quel momento occupato dalla troppa emotività. Perchè, a ben vedere con il senno del poi, Leopoli, la L’viv odierna, la Lwow polacca, la Lemberg imperial-regia di mio bisnonno e degli Ostjuden galiziani, è troppo ricca di Storia e storie per poter essere digerita in poco tempo.

Scendiamo dal treno poco dopo le sei del mattino, ancora storditi dalla lunghezza del viaggio notturno e dal ritrovarci catapultati in una realtà che immaginiamo lontanissima dalla nostra. Sopra di noi l’ennesima volta in ferro battuto, così simile a quella di Budapest Keleti, quasi a voler sottolineare l’eredità asburgica di questa parte d’Ucraina, mentre lungo i binari orde di pendolari si affrettano a salire e scendere dai convogli in sosta. Non possiamo dedicare troppo tempo all’esplorazione dell’edificio, per cui cerchiamo di guadagnare il più velocemente possibile l’uscita. Giunti nell’atrio ci affacciamo sul piazzale antistante e veniamo accolti da un marasma di minibus che occupano tutto lo spazio disponibile. Si tratta delle famigerate “marshrutke“, minibus a nove posti diffusissimi come mezzo di trasporto pubblico in tutti i paesi del blocco ex sovietico. Viaggiare a bordo di questi scomodi ma economici veicoli è un’esperienza unica, ma di questo parleremo nel prossimo capitolo di questa nostra avventura galiziana.

Turismo molesto nella Rynok. Foto di Marzia Antinori

Turismo molesto nella Rynok.
Foto di Marzia Antinori

La stazione è in una posizione piuttosto decentrata, per cui dovremo affrontare una discreta camminata per raggiungere l’albergo, dal nome emblematicamente imperial-regio di “Hotel Wien”, strategicamente posizionato all’estremità meridionale della Svobody Prospekt, la via principale del centro storico. Arrivando di prima mattina, possiamo godere di qualche ora di tregua dal caldo soffocante che caratterizza le estati continentali, per cui iniziamo a muoverci a passo spedito, corroborati dall’aria fresca che aiuterà a svegliarci. L’impressione è quella di muoversi in un mondo “altro” rispetto a quello a cui siamo abituati, un mondo che sembra trasudare un’aura di decadenza post-sovietica. Attenzione, decadenza e non degrado, perchè nonostante l’aspetto cadente di alcuni edifici, l’impressione generale è quella di un certo ordine e pulizia, sensazione che diventa sempre più forte mano a mano che ci avviciniamo al centro. Ad un certo punto ci imbattiamo in un gruppo di donne intente a ramazzare il selciato e, mentre passiamo loro accanto, una signora di mezza età ci rivolge la parola, prima in ucraino e poi in un inglese impeccabile, offrendoci un tour della città con suo marito nei panni di guida. Evidentemente Leopoli è una città a vocazione turistica – cosa di cui avremo conferma nel corso della nostra permanenza – e i suoi abitanti cercano di integrare i miseri stipendi reinventandosi come guide turistiche. Colti alla sprovvista decliniamo la gentile offerta, anche perchè stanchi e affamati, ma col senno del poi mi rendo conto che si è trattato di un errore madornale: chissà quanto sarebbe stata più ricca la nostra esperienza se avessimo accettato!

Il teatro dell'Opera al tramonto. Foto dell'Autore

Il teatro dell’Opera al tramonto.
Foto dell’autore

Il sole illumina di una luce dorata le strade e le facciate dei palazzi quando raggiungiamo l’Opera, situata all’estremità settentrionale di Svobody Prospekt. È un sole che è estraneo, un sole che ricorda Samarcanda e la Via della Seta, totalmente diverso da quello delle Alpi, che qui mi pare scialbo e pallido. Non potendo fare il check-in in albergo prima di una certa ora, ne approfittiamo per esplorare il centro. L’impronta asburgica è facilmente avvertibile, con le facciate dei palazzi e l’impianto urbanistico che danno l’impressione di trovarsi a Vienna o a Budapest e non in Ucraina. Per quanto possa sembrare assurdo mi sento più a casa qui, nell’anticamera della steppa euroasiatica, piuttosto che a Verona o a Milano. Attraverso l’intrico di vie e viuzze raggiungiamo la Rynok, la piazza centrale, dove un tempo si svolgeva il mercato, circondata su quattro lati da edifici rinascimentali restaurati di recente, ognuno con le sue peculiarità. Tra tutti si distingue la cosiddetta “dimora nera”, un tempo abitazione di un ricco mercante fiorentino. Oggi le bancarelle che circondano la ratusha, il municipio, non vendono più generi alimentari, bensì souvenir, segno della presenza di un buon flusso turistico. Ad una prima impressione, però, si tratta di un turismo diverso da quello occidentale, almeno in apparenza più rispettoso delle consuetudini locali e non invadente: spero che Leopoli non debba mai subire il triste destino di quelle città che hanno svenduto la loro anima al moloch dell’industria turistica e del turismo di massa diventando un grande parco giochi per visitatori mordi e fuggi, sarebbe un dolore enorme da sopportare, pari al vedere Venezia violata quotidianamente dalle grandi navi da crociera. Curiosando tra negozietti e bancarelle la mia attenzione viene monopolizzata da una finta targa automobilistica realizzata sulla falsariga delle targhe degli stati americani: “Galicia State – Lemberg”. Inutile dire che l’ho comprata senza pensarci due volte.

Souvenir tamarri in casa dell'autore.

Souvenir tamarri in casa dell’autore.

Leggere Lemberg è come fare un tuffo indietro di un secolo, al tempo in cui la capitale della Galizia austriaca si ritrovò al centro dei primi violentissimi combattimenti tra l’armata zarista e quella della duplice monarchia. Il comando austriaco peccò di imprudenza, sottovalutando l’esercito russo, nella convinzione di trovarsi di fronte lo stesso colosso dai piedi di argilla duramente sconfitto dai giapponesi in Manciuria appena un decennio prima. Il realtà i russi, approfittando del mese intercorso tra la dichiarazione di guerra e l’inizio effettivo dei combattimenti, riuscirono a completare la mobilitazione in modo incredibilmente rapido ed efficace, riuscendo così ad assicurarsi la piena superiorità numerica lungo tutto il fronte. Il piano della k.u.k. Armee – l’imperial-regio esercito – era estremamente semplice: il grosso delle truppe avrebbe attaccato a nord, in direzione di Lublino, agendo in concerto con le truppe tedesche di stanza nella Prussia Orientale, in modo da tagliare fuori il saliente polacco, mentre ad est un numero più contenuto di uomini avrebbe tenuto impegnate le riserve russe puntando verso il centro dell’Ucraina. Il piano, in apparenza ben strutturato, faceva in realtà affidamento su troppe variabili che, come spesso accade in questi casi, non si verificarono. In primo luogo, come già accennato, l’esercito zarista godeva di una schiacciante superiorità numerica lungo tutto il fronte, dal Baltico al mar Nero, eventualità che gli austriaci non avevano nemmeno preso in considerazione, mentre l’esercito tedesco, duramente impegnato sulla Marna e sull’Aisne, aveva lasciato il fronte orientale completamente sguarnito in modo da inviare il maggior numero possibile di uomini nel mattatoio occidentale.

Una serie di grossolani errori da parte russa consentirono agli imperial-regi di prevalere a Krasnik e a Komarov su di un nemico numericamente più consistente, aprendosi in questo modo la strada verso Lublino e, al contempo, di confermare l’apparente debolezza dell’esercito zarista. Ad est, tuttavia, le cose andarono molto diversamente fin da subito. I russi, superato il confine e conquistata la città di Ternopil, intercettarono le forze austroungariche lungo il corso del fiume Złota Lipa, infliggendo loro una sonora sconfitta e constringendo gli imperial-regi a trincerarsi lungo un altro corso d’acqua, il Gniła Lipa. Sottovalutando l’entità delle forze nemiche, il comando della k.u.k. Armee ordinò di lanciare il contrattacco, con l’unica conseguenza di logorare le truppe, già in forte inferiorità numerica, che collassarono sotto la spinta del rullo compressore russo. Per evitare la capitolazione di Leopoli, lasciata sguarnita dalle truppe in ritirata, i comandi imperial-regi ordinarono alla quarta armata, impiegata nel settore di Lublino, di ripiegare verso sud in modo da organizzare una nuova linea di difesa. Si trattò di un errore fatale. Gli austriaci vennero intercettati da soverchianti forze nemiche a Rawa Ruska, una sessantina di chilometri a nordovest di Leopoli. Gli scontri imperversarono per una settimana e si conclusero in un massacro che dissanguò gli austroungarici: interi reparti, tra cui un intero reggimento di Kaiserjäger, vennero spazzati via e la stessa quarta armata scampò per miracolo all’annientamento; il fronte crollò e fu ordinata la ritirata generale che ben presto si trasformò in una rotta disordinata. I russi, che nel frattempo erano entrati a Leopoli il 3 settembre, lanciarono all’inseguimento del nemico orde di cosacchi che fecero strage dei reparti sbandati, impedendo agli austriaci di organizzare una linea di difesa sul fiume San e infliggendo un colpo mortale al prestigio e al morale delle truppe austroungariche. Per rendersene conto è sufficiente leggere il diario del celebre filosofo Ludwig Wittgenstein, volontario in Galizia a bordo di un pattugliatore fluviale, che l’13 settembre scrisse: “Oggi, alle prime ore del mattino, abbiamo abbandonato la nave con tutto il carico […] i russi ci stanno alle calcagna. Ho assistito a scene atroci. Non chiudo occhio da trenta ore, mi sento debolissimo e non c’è da sperare in nessun aiuto esterno“. La situazione era talmente caotica che Paolo Rumiz, nel suo “Come cavalli che dormono in piedi”, parla di intere tradotte, cariche di truppe spostate in fretta e furia dal fronte serbo a quello galiziano, intercettate e catturate dai russi alla stazione di Stryi. Gli imperial-regi arretrarono fino ai Carpazi, dove allestirono una improvvisata linea di difesa che, però, venne forzata in più punti dai russi, che entrarono vittoriosi a Bartenfeld, all’epoca Regno d’Ungheria, arrivando così a minacciare Budapest e la stessa Vienna, prima di essere respinti. Nel frattempo, nella piazzaforte di Przemysł, oltre centomila uomini rimasero isolati dietro le linee nemiche. Da qualche parte in questo enorme dramma umano c’era anche il mio bisnonno, la ragione che mi ha spinto a intraprendere questo viaggio.

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La “Dimora Nera”. Foto dell’autore

Ritorniamo nel 2015 e ad altri eventi che, nonostante l’apparente comicità, si sono rivelati carichi di pathos e dramma per il nostro uomo-ansia, cioè il sottoscritto. Al nostro arrivo in Ucraina siamo del tutto sprovvisti di valuta locale a causa dell’impossibilità di reperirla in Italia. Una delle probabili cause è l’enorme svalutazione della grivna ucraina nel corso dell’ultimo anno, che è passata da un giorno all’altro dalle dieci alle venticinque grivne per un euro. Certo, magari sarebbe stato carino se in banca avessero evitato di ridermi in faccia. Ad ogni modo ci fermiamo al primo bancomat ed è qui che inizia la tragedia: la mia carta non viene accettata. Riprovo ed il verdetto è sempre lo stesso. Prime imprecazioni in turkmeno. Marzia cerca di calmarmi, ricordandomi che continuando così finirò col morire giovane, prova ad usare la sua carta e ottiene lo stesso risultato. Imprecazioni in accadico e maledizioni nella lingua oscura di Mordor. Con me, fortunatamente, ho anche la carta di credito, ma mi è stato caldamente consigliato di usarla solo nei terminali di banche internazionali, onde evitare il rischio di clonazione e furto di dati, per cui mi rassegno e iniziamo a cercare un kantor, un cambiavalute, dove cambiare gli ultimi venti euro in contanti che ho in tasca. Ne troviamo uno a poca distanza dall’Opera e, una volta completata l’operazione, ne approfittiamo per fare colazione.

Con lo stomaco pieno e un po’ di caffeina in corpo riesco a guardarmi attorno con maggiore lucidità. In una piazzetta incontriamo un mercatino delle pulci e pieni di entusiasmo ci lanciamo alla ricerca di oggetti risalenti al periodo sovietico. Passando tra le bancarelle, però, l’entusiasmo lascia ben presto spazio alla delusione: di materiale “sovietico” non c’è traccia, salvo componenti di vecchie macchine fotografiche made in URSS e qualche spilletta gettata alla rinfusa su un tavolino.  Non manca, invece, un sacco di paccottiglia dal “vago” sapore patrioteggiante e antirusso, tra cui merita una menzione la carta igienica raffigurante il presidente russo Vladimir Putin. Noto anche molta altra merce dall’aspetto molto meno innocente, come mazze chiodate marchiate con il tryzub, il tridente simbolo nazionale ucraino, varia oggettistica con chiari rimandi all’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini, responsabile di vari crimini contro l’umanità durante il secondo conflitto mondiale, fino ad arrivare a magliette con simboli e motti inequivocabilmente nazisti. Ripenso a quanto visto nel corso della mattinata, alle ragazze con i vestiti abbinati in modo da formare i colori della bandiera ucraina, alle magliette riportanti motti nazionalisti indossate da ragazzini di forse dodici anni. Ripenso alla sfilza di manifesti che invitano la gioventù ucraina ad arruolarsi nelle milizie di Svoboda, movimento neonazista protagonista degli scontri in piazza Maidan a Kiev, e di Pravyi Sektor, altro movimento ultranazionalista. Mi rendo conto che dopo cent’anni i venti di guerra continuano a sferzare impetuosi questo angolo d’Europa, venti sospinti da quelle stesse forze che un secolo fa hanno portato il Vecchio Mondo a suicidarsi affogando in un’orgia di sangue e morte. Mi sento intrappolato in un incubo gattopardesco, in cui tutto è cambiato per restare immutato nella sostanza. Davanti ad un mondo sempre più difficile da comprendere ci si chiude a riccio intorno alla propria identità che diventa un vessillo da sventolare con ostilità di fronte al “nemico” e al “diverso”. Alle frontiere ritornano i reticolati ed il filo spinato, alla Cortina di Ferro si sostituiscono altri muri non meno crudeli. Anche il potere è ritornato a concentrarsi nelle mani di una manciata di individui, una nuova aristocrazia, non più di cappa e di spada, ma finanziaria. Sarò pessimista, ma vedo il baratro aprirsi di nuovo sprigionando lezzo di morte. Certo è che a soli sei mesi di distanza un viaggio del genere incontrerebbe molti più ostacoli e ho la netta sensazione che la situazione non potrà che peggiorare. Peccato.

Svobody Prospekt. Foto dell'autore

Svobody Prospekt.
Foto dell’autore

L’albergo è esattamente come me lo aspettavo, ovvero un trionfo di classico e di atmosfera da belle epoque. La camera, situata al primo piano, si affaccia sulla Svobody Prospekt offrendo così un ottimo punto di osservazione per scrutare l’umanità di Leopoli. Lo sferragliare dei tram sui binari e la calma dei passanti, così diversa dalla frenesia e dalla perenne fretta che caratterizza la nostra quotidianità, mi trasmettono un senso di pace che lentamente mi conquista. Stremati dalle fatiche del viaggio e dal sonno arretrato, crolliamo tra le braccia di Morfeo per risvegliarci dopo qualche ora nel tardo pomeriggio. Non abbiamo ancora fame, per cui decidiamo di continuare la nostra esplorazione, puntando questa volta nella direzione opposta a quella presa durante la mattina.  Ad un certo punto la nostra attenzione viene catturata da una vetrina: oltre il vetro, nascosta nella semioscurità, riusciamo a scorgere l’inconfondibile sagoma di una balalaika. Il negozio sembra chiuso, ma proviamo comunque a spingere la porta che, con nostra sorpresa, si apre. La pochissima luce ed il silenzio tombale ci lasciano perplessi, finchè dalle tenebre non spunta il proprietario, un ometto calvo e con un paio di occhialetti tondi calati sul naso, che non risponde al nostro saluto e si limita a fissarci da una discreta distanza senza proferire parola. Lui ci guarda, noi lo guardiamo e indichiamo lo strumento. Il soggetto non reagisce. Dopo qualche minuto di assurdo teatrino decidiamo a malincuore di andarcene e ci rituffiamo in strada. Il tardo pomeriggio di Leopoli è torrido, illuminato dai raggi obliqui del Sole che arroventano le pietre: non è il caldo estremo di Budapest, ma ci crea comunque non pochi problemi, tanto che non vedo l’ora di rinfrescarmi sui Carpazi.

Scorcio del centro. Foto dell'autore

Scorcio del centro.
Foto dell’autore

A furia di camminare i morsi della fame iniziano a farsi sentire, per cui decidiamo di cenare al pub-ristorante annesso all’albergo. Da buon sudtirolese amante della birra, decido di provare una birra locale, la “Bilyi Lev” (Leone bianco, dall’animale simbolo di Leopoli), una Weissbier non filtrata che trovo molto gradevole, tanto da farne il bis. Al momento di aprire il menù, però, inizia il mio dramma alimentare. Con sommo divertimento della mia compagna di viaggio, scopro che la maggior parte dei piatti sono a base di carne, per cui mi trovo costretto a ripiegare su una insalata e su una porzione gigante di patatine fritte. Quello che di norma è un semplice contorno diventerà parte integrante della mia dieta durante questa spedizione galiziana, tanto che dopo dieci giorni mi ritroverò con un discreto numero di chili in più. Per concludere la cena in bellezza decidiamo di assaggiare la vera vodka: non si può viaggiare in questo angolo di mondo senza provare il distillato di grano nella sua espressione più verace! Svuotiamo i bicchierini da shot in un sorso e il liquido, apparentemente insapore e fresco in bocca, inizia ad irradiare un piacevole calore una volta giunto allo stomaco. Osserviamo i tavolini intorno a noi e vediamo che agli autoctoni la vodka viene servita in bicchieri leggermente più grandi in modo che possa essere sorseggiata. Cerchiamo di spiegare alla cameriera, in un misto di inglese, tedesco e gesti, che vorremmo altri due bicchieri un po’ più grandi e dopo un paio di minuti questa ritorna con due bicchieri da tavola pieni fino all’orlo. È l’inizio della fine. Ci alziamo da tavola completamente ubriachi e come due perfetti imbecilli ci tuffiamo nella L’viv by night senza avere una meta precisa in testa. L’alcool altera le nostre percezioni, mostrandoci una città che sembra completamente differente da quella vista durante il giorno. Ci fermiamo davanti ai chioschi che vendono tabacchi rimanendo folgorati dall’eleganza delle sigarette russe di cui facciamo scorta. Allo stesso modo entriamo nei produktyi, piccoli negozi alimentari a conduzione familiare, dove osserviamo rapiti le merci esposte e in cui ho la brillante idea di comprare una bottiglia di vino che non ho ancora assaggiato. Non credevo che l’Ucraina avesse una produzione vinicola degna di nota – questa è la mia deformazione professionale che parla – oltre a qualche vigneto in Crimea. Guardando l’etichetta e facendo qualche ricerca, invece, scopro che in tutta la fascia collinare al confine con l’Ungheria e la Romania ci sono aree vinicole di tutto rispetto.

Vista delle cupole di Leopoli dal tumulo dell'Unione di Lublino. 1914 (?) Foto dell'Archivio di Stato austriaco

Vista delle cupole di Leopoli dal tumulo dell’Unione di Lublino. 1914 (?)
Foto dell’Archivio di Stato austriaco

Come falene attratte dalla luce di una lampadina puntiamo dritti al tumulo dell’Unione di Lublino, situato nei pressi del Castello, in una posizione dominante sul resto della città. Ai tempi della guerra fredda le gallerie sotterranee del maniero, oggi sigillate da colate di cemento, ospitavano uno dei tanti centri di ascolto del KGB, mentre oggi le sue stanze accolgono i ricchi ospiti di un albergo di lusso.  Il tumulo è  una collina artificiale, eretta sul finire del XIX secolo su concessione degli Asburgo per celebrare i 300 anni dell’Unione di Lublino, atto formale del 1589 che portò alla fusione tra regno di Polonia e granducato di Lituania e alla conseguente nascita della grande Confederazione Polacco-Lituana, all’epoca la compagine territoriale più estesa d’Europa.  È curioso vedere una traccia così vistosa di storia polacca nel centro di una città che attualmente è la culla del nazionalismo ucraino, ma in fin dei conti Leopoli è stata una città polacca per la maggior parte del proprio passato. Passato su cui ritorneremo nel prossimo post, visto che lo spettacolo offerto dalle cupole barocche illuminate dalle luci elettriche è l’ultimo ricordo nitido che ho della serata.

 

4 pensieri su “Galizia 2015. Terza tappa: L’viv (10-12 agosto) parte prima

    • Ciao Davide! Grazie per il commento, è bello sapere di non scrivere solo per se stessi e per i propri amici, ma anche per un pubblico più ampio. Leopoli mi è rimasta nel cuore e mi dispiace di non esserci rimasto qualche giorno in più, per cui te la consiglio vivamente come meta. Purtroppo andando completamente alla cieca non avevo la minima idea di cosa avrei trovato. Quest’estate anche io sto pensando di ritornare da quelle parti per completare il giro dell’anno scorso. A proposito, a “breve” dovrei postare il proseguimento della tappa ucraina e sono sicuro che ci saranno spunti che ti torneranno utili!

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