Galizia 2015. Prima tappa: Merano – Budapest (8 agosto)

Budapest_by_night

Budapest by night. Foto dell’autore.

Budapest, prima tappa di questa nostra avventura on the road nell’est Europa. Non si è trattato di una scelta casuale, dato che pernottare nella capitale ungherese ci ha permesso di spezzare il lunghissimo tragitto verso Leopoli in due segmenti più facilmente digeribili seppur massacranti. Inoltre ha rappresentato una sorta di “portale” capace di introdurci nella dimensione storica del nostro viaggio, quella alla (ri)scoperta del fronte galiziano della prima guerra mondiale, il fronte dimenticato.

Facciamo un piccolo salto indietro nel tempo, diciamo di un secolo circa, e immaginiamo di essere a Budapest il 28 giugno del 1914, nel primo pomeriggio. La notizia dell’attentato di Sarajevo, costato la vita al Kronprinz e a sua moglie, ha iniziato a diffondersi dentro e fuori i confini dell’Impero ed è sulla bocca di tutti. Se a Vienna si iniziano a listare le bandiere a lutto, nei saloni dei palazzi della nobiltà magiara, invece, si respira un’aria di euforica allegria. Si levano i primi calici, si brinda all’attentatore e alla morte del principe ereditario e, con esso, del suo progetto di riforma dell’Impero. Franz Ferdinand, infatti, era intenzionato a trasformare l’aquila bicefala in un’aquila a tre teste, creando un regno slavo in seno ai domini asburgici, un’eventualità che spaventava a morte la nobiltà ungherese, timorosa di perdere la propria influenza. Poveri stupidi, ancora non sapevano che in realtà stavano celebrando il proprio Requiem: la guerra che sarebbe scoppiata di lì a poco avrebbe travolto l’Impero e la stessa Europa, falciando milioni di incolpevoli individui, lasciando una Ungheria mutilata e senza sbocchi sul mare, confinata nel calderone ribollente della pianura pannonica.

La capitale ungherese non è troppo lontana, ma abbiamo un problema: pur essendo collocata nella catena montuosa più antropizzata e dotata di infrastrutture del mondo, Merano è collegata da cani con il resto del mondo.  Scartiamo l’idea di raggiungere Innsbruck in treno a causa di una coincidenza risicatissima di sei minuti a Brennero e ripieghiamo sull’autobus per Monaco di Baviera, tratta che prevede una sosta proprio nel capoluogo del Tirolo austriaco. Ottimo. Partenza fissata alle 5.00 del mattino sotto un cielo plumbeo e una pioggerellina finissima, quasi impalpabile. L’alba ci sorprende all’imbocco della val d’Isarco e non posso non notare lo stupore e la meraviglia negli occhi della mia compagna di viaggio quando manieri abbarbicati su picchi impervi sbucano dalla coltre di nubi che avvolgono le cime delle montagne o quando le stesse esplodono di colori una volta raggiunte dai raggi solari.

Innsbruck è sempre meravigliosa e siamo contenti di poter fare un breve giro in centro mentre aspettiamo il railjet per Salisburgo, dove prenderemo il treno diretto per Budapest Keleti. Treno per cui abbiamo un regolare biglietto ma nessuna garanzia del posto a sedere, come scopriamo con orrore in biglietteria. Nonostante gli scongiuri e le preghiere rivolte a tutte le entità divine possibili e immaginabili, la legge di Murphy è sempre in agguato e, infatti, il treno è talmente pieno da sembrare un convoglio indiano. Riusciamo a ritagliarci un posto in uno spazio usualmente riservato ai bagagli: è scomodissimo, non possiamo guardare fuori dal finestrino, ma almeno possiamo godere dell’aria condizionata, fattore che ad Agosto non è da sottovalutare, per cui cerchiamo di consolarci pensando che una volta a casa avremo qualcosa da raccontare. Fosse solo questo.

Non potendo guardare il paesaggio sfilare fuori dal finestrino, mi fisso sul monitor del computer di bordo. Passiamo Vienna e la mia attenzione viene catturata da un nome sulla carta geografica: Bruck an der Leitha. Si tratta di un paesino minuscolo sperduto nelle campagne della Bassa Austria, eppure rappresenta una sorta di pietra miliare, un giro di boa per il nostro viaggio. Fino al 1918, infatti, il fiume Leitha rappresentava il confine amministrativo tra le due anime della duplice monarchia: ad ovest del corso d’acqua si trovavano i possedimenti “austriaci”, mentre ad est si stendevano le Terre della Sacra Corona di Santo Stefano, il regno d’Ungheria. Una decina di minuti dopo mi alzo per andare in bagno e ne approfitto per sbirciare dal finestrino. Siamo inequivocabilmente in terra magiara: ce lo dice l’architettura delle case, l’uso del terreno, persino una vaga sensazione di disordine. Tendo l’orecchio e mi accorgo che anche la lingua a bordo del treno è cambiata. Ai suoni duri del tedesco si sono sostituite le sonorità dell’ungherese, fatte di vocali che sembrano provenire dall’estremo Nord e toni sconosciuti provenienti dalle steppe infinite al di là dei Carpazi. Non posso fare a meno di pensare al periplo che ha portato questo popolo, che si ritiene discendente degli Unni, dalle vastità delle pianure euroasiatiche alla rovente piana pannonica.

Il tedesco, tuttavia, non è scomparso completamente. Un gruppo di ragazze in piedi vicino a noi, infatti, parla un dialetto germanico a dir poco ostile, presumibilmente bavarese. Le quattro bevono birra, scherzano e ridono sguaiatamente. Giusto per non farsi mancare nulla lasciano un letamaio indescrivibile, con tanto di bottiglie vuote incastrate tra i bagagli degli altri passeggeri. Al momento di scendere dal treno decidiamo di raccogliere anche i loro rifiuti, tanto per sfatare gli stereotipi dell’italiano incivile e del teutonico timorato di Dio e della legge.

A Budapest il caldo e l’afa ti colpiscono come un pugno alla bocca dello stomaco, nonostante siano già le sette di sera, e sono solo un piccolo assaggio dell’odissea che ci aspetta. Abbiamo due cose da fare, ossia cambiare i soldi e cercare di capire come e dove comprare il biglietto per il treno navetta che attraversa la frontiera ungherese e ucraina tra Zahony e Chop. La tratta, infatti, non è vendibile online e, nonostante settimane di ricerche estenuanti su internet, non ho la più pallida idea di come risolvere la situazione. La questione diventa, almeno per me, un chiodo fisso, tanto da farmi guadagnare l’agognato – e meritato – titolo di uomo ansia. Per il momento, però, ci accontentiamo di risolvere il problema dei soldi.

Non faccio in tempo a raggiungere la coda che si stende dallo sportello del cambiavalute della stazione che, con scatto felino, mi si affianca un tizio che definire losco è poco. In mano ha una calcolatrice, mentre con l’altra mi sventola sotto il naso una generosa mazzetta di banconote di vario taglio. “Psst! Psst! Good change for you, my friend, trust me!” inizia a sussurrarmi all’orecchio facendomi l’occhiolino. Ora, non sarò un volpone, ma se c’è qualcosa di cui sono certo è che quando si tratta di cambiare soldi finisci sempre fregato. Ti fregano le banche caricandoti di commissioni, ti fregano i cambiavalute ufficiali con i loro tassi di cambio ritoccati, figuriamoci un tizio losco che ti sventola i soldi del Monopoli davanti agli occhi. Mi viene in mente un aneddoto. Una decina di anni fa, a Praga, ho conosciuto un gruppo di ragazzi genovesi che, con fare divertito, mi hanno raccontato di come si sono fatti fregare da uno di questi cambiavalute improvvisati. Hanno sborsato la bellezza di 300 euro e si sono ritrovati con un discreto gruzzolo di fiorini ungheresi. Peccato che Praga sia in Repubblica Ceca, dove la valuta corrente è la corona ceca, e che i fiorini in loro possesso fossero fuoricorso dai tempi di Andropov. Insomma, my friend, non c’è trippa per gatti e il tizio, capita l’antifona, va a cercare un altro pollo da spennare.

Risolto il primo problema, rimane aperta la questione del biglietto che, pur non essendo impellente, diventa per il sottoscritto una questione di principio. Mea culpa, mea maxima culpa. Cerchiamo la biglietteria internazionale e davanti ai nostri occhi si palesa una scena dantesca: la temperatura, già rovente di suo, subisce un’impennata a causa dell’ambiente sovraffollato e scarsamente arieggiato; c’è chi si abbandona sulle poche panche libere e chi inizia a dare di matto. Ottimo. Sembra di stare alle poste il giorno in cui pagano le pensioni, anche perchè una volta preso il numero scopro di avere “solo” cinquanta persone davanti a me. Scoraggiato vorrei puntare sull’albergo, ma mi viene fatto notare che ho rotto talmente tanto le scatole per avere la bicicletta che o pedalo, o mi ritrovo con i pollici spezzati. Amen.

Per ingannare l’attesa decidiamo di esplorare l’edificio. Entriamo in una porticina e ci troviamo catapultati in un altro mondo. L’aria è satura degli aromi sprigionati da un kebab che rosola sul suo spiedo, mentre un negoziante arabo ci invita a dare un’occhiata al suo negozietto di souvenir. Sorseggia del thè alla menta, come nel suk di Tripoli o nei mercati di Istanbul. La barba caprina e lo zuccotto bianco sul capo gli donano un’aria esotica che si sposa divinamente con lo sguardo levantino da mercante navigato. La stazione sembra essersi trasformata nel surrogato moderno del caravanserraglio, luogo ibrido, punto di contatto tra mondi e culture diverse. Purtroppo l’esterno dell’edificio ci riporta alla realtà. La struttura versa in uno stato di decadenza che sembra sconfinare nell’abbandono, uno stato che contrasta con la magnificenza delle volte in ferro battuto e con l’impronta asburgica dell’architettura.

Arrivato il nostro turno, mi precipito allo sportello e spiego tutto all’impiegata. Lei mi gela con lo sguardo e mi dice di rivolgermi all’altra biglietteria, quella per i viaggi interni. La faccenda mi pare strana, ma non faccio obiezioni. Trovo l’altra biglietteria, rifaccio la coda – questa volta molto più breve, per fortuna – e arriva la doccia fredda. L’impiegata mi dice di rivolgermi agli sportelli per i viaggi internazionali. Le spiego che è proprio da loro sono stato mandato qui, ma lei scuote la testa e ripete per la seconda volta “international tickets” con un tono che ricorda certi “NIET” russi. Maledetta burocrazia post sovietica! Inizio a capire il perchè dei vetri blindati agli sportelli. Sono furente e il senso di impotenza che provo non fa altro che aumentare la mia rabbia. Inizio seriamente a preoccuparmi e ho la sensazione che il viaggio possa fallire prima ancora di aver raggiunto i Carpazi.

Scornati, dopo aver bruciato più di un’ora senza aver ottenuto nulla, ci dirigiamo all’albergo, situato nei pressi della stazione di Nyugati, da cui partiremo l’indomani per raggiungere Leopoli. Ci diamo una sistemata veloce e ci tuffiamo in una rapida esplorazione della Budapest by night puntando al Danubio. Il fiume è un nastro di raso nero che attraversa la città, su cui si riflettono le luci dei monumenti illuminati a giorno. Alle nostre spalle, l’imponente mole del Parlamento appena restaurato è circondata da un nugolo di pipistrelli intenti a cibarsi degli insetti attirati dalle luci. Di fronte a noi il Castello e la Cittadella. Buda e Pest. Nella mia mente si sovrappongono l’Aquincum romana, l’arrivo dei magiari guidati da Arpad, l’assedio turco, l’ingresso trionfante di Eugenio di Savoia, Prinz Eugen, la battaglia tra sovietici e nazisti nel 1945. Mentre mi perdo in questi pensieri, poco distante da noi un cameriere indiano leva al cielo struggenti melodie. Nostalgia di casa? Un pensiero rivolto alla propria amata? Non ci è dato saperlo e questo rende il tutto ancora più malinconico.

Avevo già visitato la capitale ungherese nel “lontano” 2006, ma questa volta abbiamo scovato degli scorci che non avevo mai visto prima. Siamo passati davanti al memoriale dedicato agli ebrei ungheresi, deportati nel 1944 e mandati a morire nei campi di sterminio polacchi. Il monumento è toccante nella sua sobrietà: alcune colonne, la maggior parte spezzate, filo spinato, delle valigie, iscrizioni in ebraico e in ungherese. In metropolitana, sempre per restare in tema, abbiamo visto il manifesto di una mostra dedicata al Porajmos, lo sterminio di Rom e Sinti operato dai nazisti durante la seconda guerra mondiale. Il fatto è singolare, dato che l’Ungheria di Orban non è esattamente un paradiso per questa minoranza. Infine, davanti a quella che credo fosse l’ambasciata americana, sigillata da una recinzione e da guardie armate, scorgiamo una statua dell’ex presidente Ronald Reagan.  Il monumento, se così si può definire, sembra puntare in una direzione ben precisa: alziamo lo sguardo e ci troviamo davanti un monumento ai caduti sovietici. Surreale.

In questi nove anni la capitale ungherese è cambiata moltissimo, fino a risultare quasi irriconoscibile. Ha smesso i panni della città post sovietica per trasformarsi in una capitale europea. Lo si capisce dall’uso sempre più diffuso dell’inglese, dalla presenza sempre più massiccia di punti vendita di grandi catene internazionali, dal flusso turistico in costante aumento e dagli intrattenimenti sempre più “hollywoodiani”, come i party in grandi limousine che fanno il giro della città. Eppure io ti preferivo come eri una volta, con il tuo fascino decadente ma genuina, con il centro affollato di ungheresi e non di turisti irrispettosi. Cara Budapest, hai venduto l’anima al diavolo in cambio di qualche quattrino, ora non potrai più tornare indietro. Mi dispiace, ma non sei stata in grado di darci quello che siamo venuti a cercare. Speriamo che a Leopoli vada meglio.

Sulle tracce della Storia: destinazione Galizia

galiziaAgosto. Il mese in cui c’è chi parte per le ferie e chi viaggia. A quale categoria appartengo lo rivela in maniera abbastanza esplicita il nome di questo blog, soprattutto se per viaggio intendiamo qualcosa che vada oltre il mero spostamento tra due o più luoghi distinti sulla superficie terrestre, un qualcosa più simile ad un Erlebnis o ad una ricerca. Ricerca di chi e di che cosa lo diremo dopo – il plurale è voluto e c’è un motivo ben preciso se l’ho usato – per ora accontentiamoci di parlare del dove: Galizia.

Ga-li-zia. Tre sillabe che portano alla mente Santiago de Compostela, il golfo di Biscaglia, la costa atlantica spagnola, ma no, noi andremo nell’altra Galizia, quella dimenticata, smembrata e travolta dalla furia degli eventi del secolo ventesimo. Quella Galizia che fino a cento anni fa costituiva l’ultima periferia dell’Austria-Ungheria, distesa nelle piane smisurate di là dei Carpazi, col nome altisonante di Regno di Galizia e Lodomiria, e che oggi è divisa a metà tra Polonia e Ucraina.

Galizien. Un nome che gronda sangue e dolore: quello dei fanti mandati al macello mentre la belle epoque usciva di scena aprendo il sipario all’orrore della guerra moderna, qui come nelle Fiandre o sull’Isonzo; quello del popolo ebraico, che in città come Leopoli costituiva oltre il 30% della popolazione, passato per i camini di Auschwitz, Belzec, Majdanek e altre fabbriche della morte lasciando un vuoto che non è più stato colmato; quello di intere popolazioni deportate senza alcuna colpa, se non quella di appartenere al gruppo etnico sbagliato nel secolo in cui i nazionalismi hanno stravolto in maniera definitiva la geografia umana d’Europa.

Perchè andare ad impantanarsi in un posto del genere, vi starete chiedendo. Per raccontare una storia, vi rispondo io. Anzi, vi rispondiamo noi, dato che non sarò solo in questa avventura, ma sarò accompagnato da Marzia Antinori, giovane fotografa e videomaker romana, carissima amica, nonchè una delle poche persone al mondo in grado di sopportare la mia compagnia per un lasso di tempo superiore alle ventiquattro ore. La storia che vogliamo raccontare, io con le parole e lei attraverso le lenti della macchina fotografica, è quella del fronte galiziano, a sua volta parte del più ampio fronte orientale, durante la prima guerra mondiale. Si tratta di un fronte completamente dimenticato, ancor più di quello mesopotamico, dagli storici e soprattutto dalla memoria collettiva austro-tedesca. Eppure è stato proprio qui che la duplice monarchia, pur riuscendo infine a sconfiggere la Russia sconvolta dalla rivoluzione, perse la guerra. È nelle ubertose campagne ucraine, nei boschi dei Carpazi, nelle paludi di Podolia e non sulle Dolomiti che l’esercito del Kaiser subì perdite spaventose. Stime attendibili ci dicono che nei primi mesi di guerra gli austriaci persero, tra morti, feriti, prigionieri e disertori, più uomini che sul fronte dell’Isonzo durante i quattro anni di guerra italo-austriaca. Le cronache ci raccontano di reggimenti decimati, con gli effettivi ridotti al 10-20%, di intere compagnie spazzate via dal gelo dell’inverno carpatico durante le notti passate in trincea.

In Galizia fummo mandati al macello anche noi sudtirolesi, eppure non vogliamo ricordarlo. Chi si è autoproclamato tutore della memoria storica locale e delle tradizioni preferisce continuare a rinfocolare le tensioni tra italofoni e germanofoni e in questo le vicende del fronte italiano risultano più politicamente spendibili. La Galizia, che ormai esiste solo nelle pagine degli atlanti storici, è troppo remota, troppo poco “interessante”, quindi non meritevole di essere ricordata. Sia ben chiaro, per noi i caduti di Rawa-Ruska, dell’Ortigara o di Verdun hanno la stessa identica dignità: tutti sono uomini strappati alla loro vita e ai loro affetti per essere precipitati nell’orrore della guerra industriale, costretti ad uccidere ed essere uccisi in nome di qualcosa di talmente sfuggente da risultare incomprensibile per la maggior parte di loro. Non abbiamo interesse a fare classifiche di importanza tra fronti e battaglie, non vogliamo suddividere i morti in caduti di serie A e serie B, soltanto un idiota lo farebbe. Noi vogliamo raccontare, come già detto prima, una storia. Null’altro.

Vi è, infine, un ultimo motivo che mi spinge – questa volta la prima persona singolare è d’obbligo – ad intraprendere questo viaggio, un motivo personale. In Galizia e sui Carpazi ha combattuto il mio bisnonno materno. Urgroßvater Josef Mandl, Kaiserjäger, prelevato dalla Val d’Ultimo, spedito in treno a versare sangue für Gott, Kaiser und Vaterland e infine riportato a casa con qualche dito dei piedi in meno, ma vivo. Ammetto che in questo sono stato pesantemente influenzato dall’ultimo libro di Paolo Rumiz, “Come cavalli che dormono in piedi”. Tuttavia, se Rumiz si è mosso sulle tracce di suo nonno Ferruccio attrezzato con foto e diari, io viaggio alla cieca, a mani vuote, se non con una vaghissima indicazione geografica che vuol dire tutto e niente. Chi lo sa, magari l’archivio storico di Vienna potrà essermi di aiuto in futuro. Per ora, però, accontentiamoci di metterci lo zaino in spalla e partire verso Est sulle tracce della Storia. À bientôt.